lunedì 16 settembre 2019

Ifrah e i “nomi di numero” di origine indoeuropea

Nel primo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), alle pp. 31-33, Georges Ifrah formula un’ipotesi su come potrebbero essersi sviluppati, nel corso di svariati millenni, i “nomi di numero”:
Prima tappa: l’uomo è rapidamente surclassato dal numero. Questa nozione è limitata a ciò che una percezione immediata permette di riconoscere a colpo d’occhio. Il numero riveste ancora, nel suo animo, l’aspetto di una realtà concreta inseparabile dalla natura degli oggetti a suo diretto contatto [*].
Per togliersi d’imbarazzo, quando deve superare il quattro, si costruisce una scelta di procedure concrete, che gli consentono di raggiungere qualche ulteriore risultato. Fra queste, che nel suo spirito si appoggiano al principio della corrispondenza biunivoca, figurano le tecniche digitali e corporee, che gli forniscono degli insiemi-modello semplici e a portata di mano. E proprio questi insiemi-modello egli esprime nel suo linguaggio articolato, mentre compie i gesti corrispondenti.
Seconda tappa: si tratta, tuttavia, piuttosto che di «nomi di numero» in senso vero e proprio, di nomi di parti del corpo idonee a tale tecnica concreta. Ma, per forza di abitudine, la numerazione corrispondente (adottata nell’ordine iniziale) finisce per «divenire insensibilmente semiastratta e semiconcreta, man mano che cala, nei nomi (soprattutto nei primi cinque) la capacità di evocare le parti del corpo e cresce quella di dare l’idea di un numero, idea che tende a separarsi dal significato originale per riferirsi a un oggetto qualsiasi» (L. Lévy-Bruhl) [2a].
Terza tappa: «Creato e adottato il nome del numero, questo diventa una tipizzazione altrettanto utile quanto l’oggetto iniziale. La necessità di distinguere il nome dell’oggetto di cui ci si serve dal simbolo del numero apporta insensibilmente una modificazione dell’espressione vocale, finché, col trascorrere del tempo, il legame tra i due svanisce dalla memoria. Man mano che l’uomo apprende a servirsi del linguaggio, i suoni si sostituiscono alle immagini per le quali furono creati e i modelli concreti iniziali prendono la forma astratta di “nomi di numero”. La memoria e l’abitudine danno forma concreta a tali astrazioni e in tal modo semplici parole diventano misure di pluralità» (T. Dantzig) [3].

A riprova di quanto afferma per la prima tappa, la nota riporta diversi esempi tratti da studi etnografici e antropologici:
[*]. Così «nelle isole Figi e nelle Salomone ci sono sostantivi collettivi che designano decine di cose scelte arbitrariamente: non sono espressi invece né il numero né il nome della cosa». (Si tratta dei «numeri-insiemi» di L. Lévy-Bruhl) [30]. «Così, a Florida ‹na kua› vuol dire “dieci uova”; ‹na bara› “dieci panieri di cibo”… Nelle Figi, ‹bola› vuol dire “cento canotti in marcia”, ‹koro› “cento noci di cocco”, e ‹salavo› “mille noci di cocco”… Sempre nelle Figi, “quattro canoe in viaggio” si dice ‹a vaqa saqai va›… A Mota “due canoe che veleggiano insieme” si denominano ‹aka peperua› (due canoe farfalle) per l’aspetto delle vele, ecc.» (Codrington). Esempi analoghi sono citati da L. Lévy-Bruhl [2b], L.L. Conant [4] e dal dottor Stephan [31].

L’Autore conclude poi il paragrafo – il 5°, dedicato all’argomento ‹L’espressione gestuale e orale del numero› – con la seguente considerazione (a p. 33):
È dunque possibile, in queste condizioni, che le parole della nostra lingua odierna indicanti i primi dieci numeri interi — parole del cui significato iniziale si è persa traccia, ma che, come sappiamo, sono uscite dal gruppo linguistico «indoeuropeo» (tabella III) — siano state per lungo tempo nomi riferiti a parti del corpo, evocanti l’uso di un processo numerico corporale analogo a quelli descritti. Ma è una semplice ipotesi, impossibile a verificarsi [32].

La tabella III (che occupa l’intera p. 32) riporta i “nomi di numero” relativi ai primi 10 interi (da 1 a 10) in 26 lingue, antiche e moderne, fra quelle usate in Europa – più il sanscrito – e la loro somiglianza dovrebbe dimostrare inequivocabilmente l’origine comune (indoeuropea, secondo l’Autore) degli idiomi europei; l’ipotesi sarebbe però di K. Menninger (vedi note bibliografiche riportate sotto la tabella).


Tabella III [p. 32]

La tabella può esser resa leggibile facendoci click sopra per ingrandirla, oppure aprendola in una nuova scheda, qui.


I riferimenti bibliografici (forniti nel testo di Ifrah, in appendice) sono i seguenti:

[2a] [2b]. L. Lévy-Bruhl, ‹Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures›, PUF, Paris 1928⁹, pp. 204-257.

[3]. T. Dantzig, ‹Number, the Language of Science›, Macmillan, New York 1959; trad. it. ‹Il numero, linguaggio della scienza›, La Nuova Italia, Firenze 1965.

[4]. L.L. Conant, ‹The Number Concept, its Origin and Development›, New York 1923.
— K. Menninger, ‹Zahlwort und Ziffer: Eine Kulturgeschichte der Zahl›, 2 voll., Vanderhoeck und Ruprecht, Göttingen 1957-79; trad. inglese, I vol., The MIT Press (Massachusetts Institut of Technology), Cambridge (Mass.) 1970².

[30]. Codrington, ‹Melanesian Languages›, pp. 211-212 (citato da L. Lévy-Bruhl, 𝑜𝘱. 𝑐𝑖𝑡. nota 2).

[31]. Stephan, ‹Beiträge zur Psychologie der Bewohner von Neu-Pommern›, «Globus», LXXXVIII (1905), p. 206.

[32]. K. Menninger, (tomo I), 𝑜𝘱. 𝑐𝑖𝑡. nota 4.


Il sommario del volume di Georges Ifrah è invece consultabile qui.

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venerdì 6 settembre 2019

Ifrah, Dickens e l’incendio della Camera dei Lord del 1834

Nel suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), e precisamente nel quarto capitolo, dedicato a “La pratica dell’intaglio”, Georges Ifrah riporta un esilarante brano di Charles Dickens – riprendendolo da un testo di Tobias Dantzig – in cui il celebre scrittore racconta, a suo modo, la vicenda dell’incendio che il 16 ottobre del 1834 devastò il palazzo di Westminster, la sede del Parlamento britannico; a p. 101 possiamo leggere:
Qualche secolo fa, una modalità selvaggia di contabilità era stata introdotta nella Corte dello Scacchiere, consistente nel fare tacche su bastoni di legno, quasi come Robinson Crusoè teneva aggiornato il calendario sulla sua isola sperduta. Eserciti di contabili, conservatori di libri e aggiornatori erano nati e morti, ma l’andazzo ufficiale era geloso di quei bastoni, quasi fossero le colonne della costituzione; e lo Scacchiere continuava a scrivere i suoi conti su certi pezzi d’olmo detti ‹tallies›. Sotto Giorgio III, cominciò a soffiare un vento rivoluzionario: ci si chiese se, data l’esistenza di penna, inchiostro, carta, lavagna e gesso, valesse la pena di incaponirsi in quest’uso desueto, anziché adottare un sistema moderno. Ma la burocrazia si ostinò nella sua praticaccia, e i bastoni furono aboliti solo nel 1826.
Nel 1834 ci si accorse che ne esistevano cataste e ci si domandò che fare di quei vecchi bastoni putridi, fracidi di vermi. Li si collocò a Westminster, e persone accorte pensarono che la soluzione migliore fosse distribuirli ai poveri come legna da ardere. Tuttavia, poiché non erano mai serviti a nulla, la burocrazia preferì che non servissero a niente fino in fondo, e fu dato l’ordine di bruciarli nascostamente. Furono bruciati, si dice, in una stufa della camera dei Lord. La stufa, intasata dai vecchi bastoni, diede fuoco alle rivestiture di legno, l’incendio si estese alla Camera dei Comuni e i due palazzi furono inceneriti. Furono chiamati architetti per ricostruirli e per ora siamo arrivati ai due milioni di spese!



In realtà, l’incendio fu causato dal fatto che le due stufe della camera dei Lord utilizzate per disfarsi dei vecchi pezzi d’olmo erano da alimentare a carbone, il quale produce molto calore con poca fiamma, mentre il legno brucia con una fiamma più alta; le fiamme insolitamente alte dettero fuoco alla fuliggine accumulata all’interno delle canne fumarie, non ancora sottoposte alla pulizia annuale, e l’incendio si propagò rapidamente al resto dell’edificio (per ulteriori dettagli, si veda la pagina di wikipedia in inglese: https://en.wikipedia.org/wiki/Burning_of_Parliament).

L’episodio dovrebbe far riflettere sulla rilevanza che possono aver avuto nella Storia gli errori, le sviste, le distrazioni, le incompetenze; una rilevanza probabilmente assai maggiore di quanto gli storici siano normalmente disposti ad ammettere.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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domenica 1 settembre 2019

Drummond, Barrow e l’osso degli Ishongo (o Ishango)

In un suo articolo del dicembre 2018, dal titolo ‹Quella linea impercettibile sospesa tra il nulla e l’infinito›, Edoardo B. Drummond scrive:
Il punto, cioè, trarrebbe dalla linea il suo senso e il suo significato. E ci torna in mente che le prime tracce di pensiero simbolico, all’alba del genere umano, sono linee incrociate, incise sulla superficie di una pietra (nelle già menzionate grotte di Blombos, Sudafrica, ben 77 mila anni fa). Su un altro reperto, un osso di babbuino rinvenuto nelle montagne dello Swaziland e datato 37 mila anni fa, furono praticate 29 tacche, col verosimile intento di contare qualcosa. Sull’«osso degli Ishongo» (‹Ishango Bone›), utilizzato come manico di un utensile, risalente a più di 20 mila anni fa e rinvenuto al confine dell’attuale Congo, le tacche, più di 160, sono disposte su 3 file e raggruppate in ogni fila a formare numeri legati da misteriose relazioni. Qualche studioso ha persino ipotizzato che potesse trattarsi di un rudimentale calendario, ma quello che ci pare straordinario è che le tacche sono disposte lungo una linea che non viene tracciata – un po’ come accadrebbe oggi scrivendo a mano su un foglio bianco – e quindi non può essere vista, ma dev’essere immaginata.





La 2ª di queste figure si trova identica in un breve saggio di John D. Barrow intitolato ‹Perché il mondo è matematico?› (Laterza 1992), i cui contenuti sono stati sviluppati a partire da 3 lezioni tenute dall’autore all’Università di Milano nel dicembre 1991, lezioni che avevano come tema natura e significato della matematica. Nel testo di Barrow, la didascalia della figura in questione (a p. 24) riporta:
Fig. 2. Vista dei due lati del manico di uno strumento in osso fossile rinvenuto da Jean de Heinzelin a Ishongo, nei pressi del Lago Edoardo in Africa. In origine all’estremità destra si attaccava uno strumento di quarzo abbastanza grande per incisioni. Le tacche si succedono a gruppi di tre per volta, il che è piuttosto interessante, e risalgono a ca. il 9000 avanti Cristo.
Barrow descrive la “pratica dell’intaglio” nel passo che segue (pp. 23-24):
[…] La testimonianza più remota di questo sistema di numerazione si ritrova su un osso del perone di babbuino rinvenuto nelle montagne dello Swaziland e risalente al 35.000 avanti Cristo. Presenta 29 tacche e probabilmente si tratta di un’arma su cui il cacciatore segnava gli animali uccisi. In Cecoslovacchia, a Vestonice, è stato ritrovato un osso di lupo, lungo circa 18 centimetri e risalente all’incirca al 30.000 avanti Cristo; esso mostra una linea composta da 25 tacche, poi due segni più grandi, seguiti da altre 30 tacche, e presenta tracce di divisione delle tacche in gruppi di cinque (forse da collegare con il numero delle dita della mano). La cosa interessante è che questo oggetto è stato ritrovato accanto alla scultura in avorio di una testa femminile, che testimonia l’esistenza di una cultura più sviluppata di quella dei cacciatori e dei raccoglitori.
Un’altra famosa testimonianza di questo antico sistema è l’«osso degli Ishongo». Si tratta di un manico originariamente attaccato a uno strumento di quarzo per incisioni, datato intorno al 9000 avanti Cristo, che è stato ritrovato a Ishongo vicino al Lago Edoardo, ai confini dell’attuale Zaire. La civiltà che l’ha fabbricato ha lasciato altre tracce della propria esistenza, che si basava sulla caccia e sulla pesca esercitate sulle rive del lago fino all’improvvisa estinzione causata da un’eruzione vulcanica.
Il manico di osso ha una rozza forma cilindrica ed è fossilizzato, ma presenta tre serie di tacche, come appare dalla figura 2. I segni sono raggruppati in un modo curioso che ha dato luogo a diverse ipotesi fantasiose. Le due file in cima presentano entrambe un totale di 60 segni. La terza ne ha 48 (anche se alcuni sostengono che l’esame microscopico ne rivela degli altri), ma contiene tracce di raddoppiamenti, con gruppi adiacenti di 10 e 5, 8 e 4, 6 e 3 segni. Inoltre la prima fila presenta la sequenza 9, 19, 21, 11, e cioè 10 – 1, 20 – 1, 20 + 1 e 10 + 1. La seconda e la terza fila presentano una lista di numeri primi: 5, 7, 11, 13, 17 e 19. Probabilmente non sapremo mai se si tratti di una fantasia numerologica o se gli Ishongo utilizzassero un sistema a base 10 e conoscessero i numeri primi e il raddoppiamento. La speculazione più interessante riguarda il fatto che i due totali di 60 rappresentano due mesi lunari, perciò le tacche potrebbero segnare il passare del tempo. Probabilmente un metodo accurato per registrare i cambiamenti di stagione era importante per gli Ishongo, dato che le rilevanti variazioni atmosferiche di quella regione li costringevano a migrare verso le montagne all’arrivo delle piogge, allontanandosi dal lago quando le acque salivano.

NOTA: la scultura di testa femminile cui si riferisce Barrow alla fine del primo capoverso citato è probabilmente quella rappresentata in figura – è datata anch’essa circa 30 mila anni a.e.v. – ma per quale motivo dovrebbe testimoniare “l’esistenza di una cultura più sviluppata di quella dei cacciatori e dei raccoglitori” non è del tutto chiaro, considerato che i cacciatori-raccoglitori erano capaci ad esempio di produrre splendide pitture rupestri.

Probabilmente Barrow non si è interessato granché di arte paleolitica, ma del resto non è il suo campo.


Georges Ifrah, invece, nel suo ‹Storia universale dei numeri› (1981, Mondadori 1984), all’inizio del 4° capitolo, a p. 99, dedica ai ritrovamenti di reperti archeologici che documentano la “pratica dell’intaglio” in tempi preistorici soltanto le poche righe che seguono:
Le ossa intagliate che gli uomini preistorici ci hanno lasciate, vecchie di oltre 20.000 anni, sono probabilmente fra i più antichi oggetti che servissero da supporto alla nozione del numero (riq. 14). I nostri lontani antenati che incisero tali ossa, si servirono certamente del processo, per dar concretezza al conteggio di tale o tal altra unità [*].
Questo ‹A-B-C della contabilità› ci è giunto quasi senza alterazioni, attraverso migliaia d’anni di storia, di incivilimento e di evoluzione.
Esse sono accompagnate da questa figura (riquadro 14) e dalla didascalia che segue (a p. 98):

Riquadro 14. Ossa intagliate del Paleolitico superiore. A e C: Aurignaciano [sic!]: (30.000-20.000 a.C.) [sic!]. Musée des Antiquités Nationales di St-Germain-en-Laye (l’osso C proviene da Saint-Marcel, Indre). B e D: Aurignaciano. Ossa provenienti dalla grotta di Külna (Moravia), Cecoslovacchia. E: Magdaleniano (19.000-12.000 a.C.). Osso proveniente dalla grotta di Pekarna (Moravia). Cfr. J. Jelinek [sic!] [92] pp. 435-453.

La nota 92 rimanda a J. Jelínek, ‹Encyclopédie illustrée de l’homme préhistorique› (trad. francese, pp. 435-453), Gründ, Paris 1975.

La grafia “Aurignaciano”, probabilmente riportata dall’originale in francese, deriva dalla località francese di Aurignac, ma in italiano la dizione di gran lunga più utilizzata è “aurignaziano”; da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Aurignaziano):
L’aurignaziano indica una cultura paleolitica che si diffuse in Europa, e in piccola parte anche nel sud-ovest asiatico, tra 47.000 e 35.000 anni fa. Il nome deriva da quello del sito di riferimento situato a Aurignac, nel dipartimento dell’Alta Garonna, nel sud-ovest della Francia.

Possiamo constatare che i tempi non coincidono con quelli indicati da Ifrah, e la differenza non è di poco rilievo, soprattutto se consideriamo che intorno ai 40.000 anni fa si estinse il Neandertal; ci potremmo dunque chiedere se anche questo nostro lontano predecessore praticasse l’arte dell’intaglio. Il ‹Sapiens›, per quanto ne sappiamo, potrebbe benissimo aver appreso a “far di conto” da quel suo cugino un po’ tarchiato, che aveva abitato prima di lui i territori europei e che da solo aveva inventato e praticato – è scoperta recente – l’arte della pittura rupestre.

La nota a piè di pagina del testo di Ifrah aggiunge comunque le seguenti informazioni:
[*]. Le più antiche ossa intagliate sono state scoperte nell’Europa occidentale. Datano dall’Aurignaciano e corrispondono, pressappoco, all’apparizione dell’uomo di Cro-Magnon. Gli intagli, antichi di 20.000-30.000 anni, sono probabilmente segni numerici, ma la destinazione è tuttora difficile da stabilire. Taluni scienziati pensano che i tratti o gruppi di tratti corrispondessero a rilevamenti astronomici, servendo in particolare a stabilire le fasi della luna (luna nuova, primo quarto, piena, ultimo quarto): una teoria la cui conferma richiederebbe studi approfonditi ed esempi più numerosi. Per altri, gli stessi intagli corrisponderebbero a numerazioni effettuate per le necessità di una vita comunitaria e costituirebbero la specifica testimonianza di una contabilità della selvaggina abbattuta in periodo di caccia.

Perché mai l’uomo di Cro-Magnon, unico fra tutte le specie che a quel tempo praticavano la caccia, avesse la necessità di tenere “una contabilità della selvaggina abbattuta” non ci è del tutto chiaro.

In tutto il suo corposo manuale, del resto, Ifrah non prende mai in considerazione l’esistenza, nella preistoria, di più specie umane, esistenza che, ai tempi in cui venne pubblicata la prima edizione del volume, era già ben accertata. Che sia un retaggio della sua “formazione culturale”?

L’articolo di E.B. Drummond è consultabile qui.

Il sommario del volume di J. Barrow è consultabile qui.

Il sommario del volume di G. Ifrah è consultabile qui.

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