martedì 30 giugno 2020

Della Pergola, i Ṛgveda, il culto di Zeus e i guasti prodotti dal logos

Nel saggio di Fabio Della Pergola, ‹Dall’impuro al peccaminoso› (Licosia Edizioni, 2018), ci ha colpito anche un passo del 5° capitolo, intitolato ‹L’intolleranza del monoteismo›. Dopo aver criticato il concetto stesso di “tolleranza” – di cui “intolleranza” costituisce evidentemente la negazione, o l’opposto – e aver comunque evidenziato il diverso grado di “violenza” insito nell’intolleranza che caratterizza i monoteismi rispetto ai politeismi che li avevano preceduti, a p. 130 l’autore scrive:
È d’obbligo ricordare anche come “intolleranza” sia un termine che non è utilizzabile solo nel confronto con altri (popoli, religioni, culture) ma anche all’interno della propria tradizione. In questo caso non si può dimenticare la violenza di una cultura decisamente politeista come quella induista, in cui però la suddivisione in caste, in cui vige anche una rigida endogamia sociale, rivela una intolleranza interna tanto implacabile quanto persistente [293]. Secondo la tradizione induista derivante dai Ṛgveda, le categorie sociali emergono da un essere primordiale divinizzato, ‹Puruṣa[294], ma da parti diverse del suo corpo: dalla bocca la casta ‹Brāhmaṇa›, sacerdoti e insegnanti; dalle braccia la ‹Kṣatriya› dei re, nobili e guerrieri; dalle cosce la ‹Vaiśya›, commercianti e artigiani; dai piedi, la ‹Śūdra›, casta dei servi. Poi ci sono gli ‹achuta›, gli intoccabili (‹paria› o ‹dalit›), che costituiscono una categoria a sé perché l’essere primordiale non ne rivendicò la paternità: secondo un testo più tardo, il codice legislativo di Manu, essi derivano dalla polvere che copriva i piedi di Brahma. Sono, potremmo dire, privi di “immagine divina” non essendo stati generati da parti corporee della divinità.

Riportiamo qui di séguito anche le note, che precisano riferimenti cronologici alle fonti e accennano agli attuali tentativi di superamento di una atavica condizione di discriminazione, evidentemente non più sentita come accettabile:

[293]. Attualmente in India vige una legge contro la classificazione in caste e la discriminazione dei fuoricasta. Ma la tradizionale ostilità sociale verso gli intoccabili (circa 160 milioni di persone) è tuttora diffusa.

[294]. Inno ‹Puruṣasukta› che si suppone composto tra la fine del secondo e l’inizio del primo millennio a.C.


In verità, a noi sembra che l’impiego del termine “intolleranza” sia, in questo caso, almeno discutibile; esistono infatti termini più specifici, come “discriminazione” – l’“apartheid” di sudafricana memoria (rimasto in vigore fino al 1991) – o il più generale “segregazione”, che sia su base razziale – o “etnica” che dir si voglia – e/o sociale, come appunto si verifica nella divisione della società in caste, tuttora praticata in India. Non si dovrebbe dimenticare neppure la discriminazione di genere, attiva e apparentemente ineliminabile persino nella maggior parte delle società che si ritengono attualmente più “progredite”.

Come testimoniano tragicamente anche recenti fatti di cronaca, si tratta di fenomeni ampiamente diffusi (anche tra noi e oggi, non solo altrove e nel passato), comunque fondati sulla sostanziale negazione del concetto di uguaglianza originaria tra tutti gli esseri umani, i quali sarebbero invece – si sostiene – “per natura” diversi. È chiaro che siccome “intolleranza” compare nel titolo del capitolo, l’autore “forza” il concetto per farvi rientrare diversi tipi di discriminazione, forse anche con l’intento di rendere meno rigida l’associazione con l’altro termine del titolo: “monoteismo”.

Superato questo iniziale inciampo, però, ci è sembrata piuttosto curiosa l’analogia tra questa «tradizione induista derivante dai Ṛgveda» e il notissimo “apologo di Menenio Agrippa”, narrato da Tito Livio nel II libro della sua Storia di Roma ‹Ab Urbe condita› (si veda ad esempio su wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Apologo_di_Menenio_Agrippa), apologo nel quale le due classi dei patrizi e dei plebei venivano equiparate a stomaco e braccia di uno stesso corpo. Che Menenio Agrippa, o Tito Livio, o entrambi, avessero letto i Ṛgveda?




Secondo indagini filologiche e linguistiche, la composizione dei Ṛgveda sarebbe avvenuta nella zona a nordest del subcontinente indiano (Punjab) tra il 1700 e il 1100 a.e.v. (si veda ad esempio la sezione introduttiva della pagina di wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Rigveda, mentre la pagina corrispondente in italiano riferisce dati cronologici leggermente diversi, per quanto sempre compresi nel II millennio a.e.v.).

Ma la pagina di wikipedia in italiano menzionata qui sopra di sfuggita a proposito dell’epoca di composizione dei Ṛgveda (https://it.wikipedia.org/wiki/Ṛgveda_Saṃhitā) riporta, alla fine della sezione “Generalità”, il passo seguente:
Il ‹Ṛgveda› descrive un sistema di credenze basato su riti sacrificali trasmesso oralmente per secoli secondo una linea denominata ‹śākhā›.
Oltre ai culti sacrificali, il ‹Ṛgveda› contiene molti altri elementi della religiosità indoeuropea. Le divinità principali in questi inni sono Indra, Agni e Soma, mentre l’antico dio del cielo (Dyaus, corrispondente al dio greco Zeus e a quello romano Iupiter) non ha lo stesso rilievo che presenta nel pantheon greco o romano.

I due capoversi sono troppo ghiotti per non essere qui citati per esteso; fin dai tempi in cui si studiava greco antico al liceo ci eravamo chiesti, increduli, come mai il nominativo ‹Zeus› (Ζεύς) potesse fare al genitivo ‹Dios› (Διός), radice – apparentemente secondaria – che sembra però aver originato il moderno “dio”, mentre il greco ‹theos› (θεός) avrebbe prodotto una sfilza di vocaboli composti e sofisticati, come “teologia”, “teogonia”, “teosofia” ecc. e persino nomi propri di persona come “Teodoro” o “Timoteo”, e tuttavia sembra da “dio” piuttosto lontano – le parole provenienti da ‹theos› hanno infatti mantenuto in altre lingue la ‘h’ dopo la ‘t’, residuo dell’aspirazione del ‹theta› greco (θ), che in italiano si è persa. Dopo decenni, in modo del tutto casuale e inatteso, troviamo nei Ṛgveda la risposta all’enigma!

Questa “rivelazione” – sia detto per inciso – rende meno peregrina la nostra ipotesi (scherzosamente espressa) “che Menenio Agrippa, o Tito Livio, o entrambi, avessero letto i Ṛgveda”. Deve essere esistita già in tempi antichissimi una sostanziale permeabilità delle culture alla diffusione di favole, miti e credenze, e una loro reciproca influenza su estensioni che andavano almeno dall’India orientale al Mediterraneo; diffusione oscurata e mascherata dall’esaltazione della cultura greca (e del λόγος) quale momento di radicale innovazione del pensiero, che avrebbe dato luogo, praticamente da solo – pur con qualche non trascurabile contributo ebraico – alla cultura occidentale.

NOTA: sulle origini non propriamente greche del culto di Zeus, suggeriamo di consultare anche la sezione “Etimologia ed elementi del culto” nella pagina di wikipedia dedicata a quel dio (https://it.wikipedia.org/wiki/Zeus).


Il sommario del saggio di F. Della Pergola è consultabile qui.

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