giovedì 26 dicembre 2019

De Martino e il riscatto dell’ethos nel protocristianesimo

In appendice al saggio di Ernesto de Martino ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), viene riportato un articolo già pubblicato dall’autore nel 1964 sulla rivista «Nuovi Argomenti», col titolo ‹Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche›. In quest’articolo si trova riassunto per sommi capi il programma di ricerca che l’etno-antropologo intendeva sviluppare nella sua ultima monografia. Dopo aver elencato e sommariamente descritto i diversi tipi di documentazione che l’indagine si prefigge di prendere in considerazione e di confrontare fra loro, e cioè, sostanzialmente:
  1. il tema della crisi della società borghese, come espresso soprattutto nella moderna letteratura;
  2. l’apocalittica della tradizione giudaico-cristiana della letteratura paleo- e neotestamentaria;
  3. il mito delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo delle grandi religioni storiche;
  4. i movimenti religiosi millenaristici di emancipazione delle culture “primitive” in epoca postcoloniale;
  5. le manifestazioni psicopatologiche in cui intervengono situazioni di “fine del mondo”;
dopo aver quindi esaminato in dettaglio alcuni brani rappresentativi del 1° filone (ad es. ‹La nausea› di Sartre o ‹La noia› di Moravia), ed essersi soffermato su alcuni casi clinici indicativi delle “apocalissi psicopatologiche” (il 5° filone), nei quali si evidenziano vissuti analoghi di alterazioni nelle sensazioni corporee e nel rapporto con la realtà, così chiarisce il compito che spetta “allo storico della cultura e all’antropologo” (pp. 574-576):
Fin qui è stato messo l’accento sulle «somiglianze» fra l’apocalittica d’oggi e le apocalissi psicopatologiche. Quanto alle differenze, si potrebbe far ricorso a molteplici argomenti, tutti praticamente validi, per sottolinearle. Si potrebbe cioè osservare che un’opera culturale può serbar tracce di stati psichici morbosi, ma che in quanto ‹effettiva› opera culturale testimonia, almeno nel suo specifico carattere di opera dotata di valore, a favore del sano e non del malato; che alcune ‹pretese› opere culturali si riducono in realtà a stati psichici morbosi, senza che ciò significhi che i loro autori siano degli psicotici, perché potrebbe benissimo trattarsi di persone normali nella loro vita pratica, o un po’ eccentriche o al più leggermente nevrotiche; e infine che vi possono essere opere di alto significato culturale prodotte da individui che nel corso della loro biografia sono stati internati in qualche clinica neuropsichiatrica o che hanno concluso con una psicosi la loro vita altamente produttiva dal punto di vista culturale. Tuttavia per lo storico e per l’antropologo che si propone di ricostruire le genesi e la struttura dei prodotti della apocalittica d’oggi, non si tratta di enumerare statiche «somiglianze» o «differenze», ma di raggiungere di volta in volta, attraverso l’analisi, quel punto critico in cui le somiglianze rischiano di diventare identità, e in cui le differenze sono state — o ‹non› sono state — drammaticamente istituite. Le apocalissi psicopatologiche segnalano una possibilità non accidentale, ma permanente, delle apocalissi culturali, in quanto manifestano il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale storicamente determinato, di perdere qualsiasi possibilità dell’operabile secondo valori intersoggettivi comunicabili, di patire la caduta dello slancio verso la valorizzazione su tutto il fronte del mondanamente valorizzabile. Nella misura in cui ha luogo l’effettiva ripresa da questa rischiosa possibilità, le apocalissi culturali ridischiudono mediatamente la operabilità del mondo, la progettabilità comunitaria della vita umana, l’attiva testimonianza di effettive opere economiche, morali, giuridiche, politiche, artistiche, scientifiche, filosofiche: in tale mediata ripresa del mondano che si compie attraverso il vario simbolismo apocalittico e che si palesa nella concreta dinamica culturale di questo simbolismo, sta il reale momento escatologico racchiuso nelle apocalissi culturali e non già nell’‹escaton› paradisiaco o ultramondano considerato nella sua astratta formulazione [35]. Da questo criterio generale discende, per lo storico della cultura e per l’antropologo, il compito metodologico di individuare di volta in volta, anche per l’apocalittica d’oggi, l’opera mondana variamente qualificata che essa media e consente, risalendo la perigliosa china di cui l’apocalisse psicopatologica indica il rischio in modo esemplare. Nell’analisi dei prodotti dell’apocalittica d’oggi lo storico della cultura e l’antropologo sono quindi chiamati di volta in volta a misurare di quanto l’immediato finire della crisi radicale sia affrontato e oltrepassato nella sua incombenza paralizzante, nella sua attualità indicibilmente disforica, nella sua privata e incomunicabile fruizione euforica di paradisi terrestri e di ultramondi, ovvero nel suo furore distruttivo di tutto ciò che vive e che vale. Nell’analisi di questi prodotti spetta allo storico della cultura e all’antropologo il compito di determinare, attraverso tale misurazione, il mediato ricostituirsi — oltre la crisi — di un messaggio relativo alla vita e al mondo che continuano e si trasformano; e spetta altresì il compito di indicare quando questo messaggio è incerto o assente, e quando infine, nel silenzio di ogni effettiva comunicazione, ricalca i modi stessi della crisi: ma proprio per assolvere questo compito, lo storico della cultura e l’antropologo non possono non avvalersi del sussidio euristico del documento psicopatologico.

In questo contesto, EdM evidenzia, nella nota, il particolare rilievo dell’apocalittica nella tradizione “giudaico-cristiana” (2° filone), e il ruolo centrale che essa avrebbe svolto nella storia fondativa della civiltà occidentale:
[35]. È questo, per lo storico della cultura e per l’antropologo, il criterio fondamentale di valutazione di tutte le apocalissi culturali, religiose o profane che siano. Così per esempio il tema apocalittico protocristiano manifesta il suo reale momento escatologico proprio nel continuo differimento della parusia e nel margine che in tal modo viene lasciato alla testimonianza mondana della ‹charitas› che sta al di sopra della fede e della speranza (‹Prima lettera ai Corinzi›, 13.13). Nel periodo compreso fra la morte di Gesù e la Pentecoste si distende l’epoca critica per eccellenza della comunità cristiana primitiva, la grande prova della sua produttività culturale. Questa epoca critica dovette assumere la forma di un’attesa spasmodica del ritorno del Risorto e del compimento immediato della sua promessa: a ciò accennano le apparizioni ‹post mortem› di Gesù agli apostoli e ai discepoli. Ma questi «ritorni del morto-risorto», che indirettamente testimoniano di un’apocalisse imminente che rischiava di non lasciar più nessun margine operativo mondano, appaiono nel Vangelo riplasmati nel senso di restituire progressivamente respiro a quel margine, e di consentire quindi il dispiegarsi di una «civiltà cristiana». Così l’Ascensione chiude il ciclo delle apparizioni di Gesù, suggellandone la fine con l’invito di non guardar più verso il cielo nell’attesa dell’immediato compimento della promessa: e con l’ultima apparizione di Gesù non la data della parusia viene comunicata, ma l’annunzio di una opera da compiersi sino agli estremi confini della terra mercé dello Spirito Santo e della ‹dynamis› da esso conferita. In questa riplasmazione gli stessi «ritorni del morto-risorto» vissuti nel periodo della crisi vengono assunti come prova della Risurrezione, e l’ultima apparizione e la Pentecoste acquistano il significato di garanzia del ritorno definitivo di Gesù, senza dubbio certissimo, ma abbastanza indeterminato nel suo «quando» da lasciare aperta l’epoca della testimonianza cristiana in questo mondo, l’epoca della Chiesa di Cristo. Si venne così istituendo quella caratteristica tensione cristiana fra il «già» avvenuto (la morte, la risurrezione, la promessa del Cristo) e il «non ancora» (la seconda parusia), una tensione nella quale si iscrive il «qui» e l’«ora» della testimonianza nel mondo, secondo una dialettica operativa che racchiude il momento realmente escatologico di questa illustre apocalittica culturale.

La funzione “positiva” (nel senso del riscatto dell’ethos del trascendimento) del cristianesimo sarebbe dunque nella dilazione (neotestamentaria) a tempo indeterminato della “2ª parusia”, dilazione che avrebbe consentito il dispiegarsi (o ridispiegarsi) dell’ethos, con conseguente recupero e rivalorizzazione dell’esistenza terrena.

C’è da chiedersi però quale fosse la necessità di tale recupero per un mondo che era all’epoca quasi interamente estraneo alla tradizione cristiana (e giudaica). In altre parole, l’analisi della dinamica crisi-recupero tutta interna alla concezione cristiana non spiega l’eventuale concomitante crisi della cultura pagana (cioè politeista), il perché tale cultura, che pure era durata per millenni, non fu più capace di trovare un ‹escaton› adeguato all’interno della propria concezione del mondo (e dell’essere umano), o finì per perdere credibilità, cedendo alla repentina diffusione del cristianesimo nei primi secoli dell’“era vulgaris”.


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯

mercoledì 18 dicembre 2019

De Martino e il campanile di Marcellinara 2

L’episodio del pastore che non vedeva più il campanile di Marcellinara, già narrato sommariamente da Ernesto de Martino in una relazione tenuta a Perugia nel maggio del 1964, nell’ambito di un convegno dedicato a “Il mondo di domani”, relazione che s’intitolava ‹Il problema della fine del mondo› e il cui testo è riportato nella 1ª parte del capitolo ‹Ouverture› (alle pp. 69-76) del saggio ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), viene descritto in maggior dettaglio nel paragrafo 1.9: ‹Il campanile di Marcellinara›, del 5° capitolo dello stesso saggio (alle pp. 364-365). Ecco come lo racconta l’etno-antropologo:


1.9. Il campanile di Marcellinara [16].
Ricordo un tramonto, percorrendo in auto qualche solitaria strada calabrese. Non eravamo sicuri della giustezza del nostro itinerario, e fu per noi di sollievo imbatterci in un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, ma le sue indicazioni erano così confuse che lo pregammo di salire in auto e di accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: lo avremmo compensato per il disturbo. Accolse con qualche diffidenza la nostra preghiera, come temesse un’insidia oscura, una trama ordita ai suoi danni: forse lontani ricordi di episodi di brigantaggio dovevano affacciarsi nella sua immaginazione. Lungo il breve percorso la sua diffidenza aumentò, e si andò tramutando in vera e propria angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista familiare del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo minuscolo spazio esistenziale. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e a tal punto si andò agitando mostrando i segni della disperazione e del terrore, che decidemmo di riportarlo indietro, al punto dove ci eravamo incontrati. Sulla via del ritorno stava con la testa sempre fuori del finestrino, spiando ansiosamente l’orizzonte per vedervi riapparire il domestico campanile: finché quando finalmente lo rivide, il suo volto si distese, il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta. Giunti al punto dell’incontro, ci fece fretta di aprirgli lo sportello, e si precipitò fuori dell’auto prima che fosse completamente ferma, selvaggiamente scomparendo in una macchia, senza rispondere ai nostri saluti, quasi fuggisse da un incubo intollerabile, da una sinistra avventura che aveva minacciato di strapparlo dal suo ‹Lebensraum[17], dalla sua unica ‹Umwelt› possibile, precipitandolo nel caos [18]. Anche gli astronauti, da quel che se ne dice, possono patire di angoscia quando viaggiano nel silenzio e nella solitudine degli spazi cosmici, lontanissimi da quel «campanile di Marcellinara» che è il pianeta terra: e parlano e parlano senza interruzione con i terricoli non soltanto per informarli del loro viaggio, ma anche per aiutarsi a non perdere «la loro terra». Ciò significa che la presenza entra in rischio quando tocca i confini della sua patria esistenziale, quando non vede più «il campanile di Marcellinara», quando perde l’orizzonte culturalizzato oltre il quale non può andare e dentro il quale consuma i suoi «oltre» operativi: quando cioè si affaccia sul nulla.


_____
NOTE
¯¯¯¯¯

[16]. Paesino della provincia di Catanzaro. Questa forma di spaesamento rielabora, in termini culturali, la nozione heideggeriana di «essere fuori di sé» espressa dalla parola ‹Unheimlichkeit›. Cfr. capitolo 2, nota 10.

[17]. Nozione introdotta dal geografo tedesco Friedrich Ratzel, alla fine del XIX secolo, e trasformata in slogan per giustificare la politica espansionista della Germania nazista.

[18]. A questo proposito notiamo una sorprendente coincidenza col racconto di Piero Chiara «Fine a mezzanotte», pubblicato prima in rivista e poi, nel 1963, nella raccolta ‹Mi fo coraggio da me›, All’insegna del pesce d’oro, Milano, pp. 21-31. Stando al padre dello scrittore, che ha vissuto l’esperienza in un paesino siciliano, il 31 dicembre 1875, gli abitanti, convinti che la fine del mondo stesse per arrivare, si sono recati nei campi a fare baldoria. Ad eccezione però dei giovani, che sono rimasti a sorvegliare il campanile, senza distogliere lo sguardo, fino all’ultimo rintocco della mezzanotte.


La nota 10 del capitolo 2, cui rimanda la nota 16 riportata qui sopra, tratta nella sua parte conclusiva delle possibili traduzioni adottate per l’aggettivo tedesco ‹unheimlich›, dal quale deriva il sostantivo ‹Unheimlichkeit›:
[…] sin dal 1919 il termine ‹unheimlich›, nella sua accezione freudiana, è tradotto in italiano con l’espressione «il perturbante». Tuttavia, Jervis traduce l’aggettivo ‹unheimlich› col termine «spiacevole». De Martino, da parte sua, riconosce una dimensione di «intraducibile» che richiese di far ricorso a due termini: in questo caso, «non familiare», «spaesato»; altrove invece tradurrà con «alterità», «stranezza». Il che lo porterà a forgiare la sua nozione di «spaesamento». […]
Come l’inglese ‹home›, il tedesco ‹Heim› indica casa propria, come ambiente familiare, di vita quotidiana; a differenza di ‹Haus› (ingl. ‹house›) che indica invece la casa come generica costruzione (non necessariamente la propria), cioè come oggetto fisico; ‹unheimlich› sarebbe dunque strano, perturbante in quanto non familiare, non “casalingo” (non “appaesato” per EdM), e ‹Unheimlichkeit› sarebbe di conseguenza stranezza, “perturbanza”, in quanto non-familiarità, non-casalinghitudine (“spaesamento” per EdM, ma sarebbe più aderente al tedesco “spaesanza”, o “spaesantezza”, in quanto qualità della cosa e non stato d’animo del soggetto, ovvero come proprietà di ciò che può essere “spaesante”, o indurre “spaesamento” nel soggetto umano).

La nozione di ‹Umwelt› (ambiente), menzionata nel passo di de Martino, può invece esser fatta risalire a Jakob Johann von Uexküll (1864-1944), biologo, zoologo e filosofo estone, che fu un pioniere dell’etologia ed è considerato uno dei fondatori dell’ecologia (vedi wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Jakob_Johann_von_Uexküll); secondo la sua concezione, ciascuna specie vivrebbe in un proprio ambiente percettivo, determinato dai propri apparati di senso. Nel caso degli esseri umani, tuttavia, la biologia non sarebbe sufficiente a determinare univocamente la loro ‹Umwelt›, cosicché essa potrebbe essere diversa per ciascun individuo; per assicurare una certa uniformità si renderebbero allora necessari condizionamenti culturali e un potere centrale abbastanza forte (lo Stato) da imporre una propria ‹Umwelt› artificiale. Questo concetto di ‹Umwelt› (mondo-ambiente) verrà in seguito ripreso e rielaborato da Heidegger.

NOTA: non è chiaro a che cosa von Uexküll attribuisse questa peculiarità degli esseri umani; non dispongono forse essi degli stessi organi di senso di molte altre specie, o quanto meno della maggior parte dei mammiferi? Potrebbe essere interessante approfondire l’argomento.

Troviamo infine curioso che il fortuito – e nelle circostanze infruttuoso – incontro di EdM con un anonimo pastore locale abbia reso noto il paese di Marcellinara (Marcinàra in calabrese, vedi wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Marcellinara) nonché il suo campanile praticamente in tutto il mondo.


Una nostra precedente annotazione sulla relazione letta a Perugia da Ernesto de Martino nel 1964, ‹Il problema della fine del mondo›, è accessibile qui.

Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è invece consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯

giovedì 12 dicembre 2019

I compiti dello storico secondo Ernesto de Martino

Nella 1ª parte del 3° capitolo del saggio ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), e più precisamente all’inizio del paragrafo 1.7, a p. 256, Ernesto de Martino tratteggia quelli che ritiene debbano essere i caratteri essenziali di un buon lavoro storiografico:
1.7. Il primo compito dello storico è di accertare la coscienza che gli operatori storici contemporanei ebbero di un fenomeno (di un istituto, di prodotto artistico, di un mito, di una liturgia, di una teoria scientifica o filosofica, di un’epoca, ecc.). Ma con ciò il suo compito è tutt’altro che esaurito perché la conoscenza storiografica non consiste nel ‹ripetere› il vissuto consapevole che accompagna un fenomeno culturale, ma nel situare questo vissuto in una rete di condizioni e di risultati che non appartengono ovviamente alla coscienza contemporanea e che tuttavia conferiscono a quel vissuto la sua realtà e verità, il suo «significato» e la sua «importanza». Senza dubbio il pericolo polarmente opposto a quello di una semplice «ripetizione» della coscienza contemporanea sta nell’attribuire a questa stessa coscienza ciò che in realtà appartiene alla sfera delle condizioni inconsapevoli o ai risultati percepibili solo in una prospettiva maturatasi successivamente: la storiografia idealistica si è macchiata spesso di tale arbitrio. Ma purché risulti nel discorso storiografico che cosa appartiene all’accertata coscienza dei contemporanei e che cosa alle condizioni inconsapevoli che l’analisi storiografica mette in luce e che cosa ancora ai risultati che matureranno più tardi e che lo storiografo identifica con la prospettiva più ampia di cui si giova, il processo alle intenzioni è di regola nella ricerca storiografica, anzi la coscienza limitata dei «contemporanei» emerge proprio per entro una ricostruzione dinamica che abbraccia condizioni e risultati inconsapevoli.
Buon lavoro storiografico è quello in cui, in primo luogo, il lettore è messo in condizione di sapere, rigo per rigo, a che cosa si riferisce il discorso: se alla coscienza degli operatori storici, o alle condizioni e motivazioni inconsapevoli a essi, o ai mediati risultati che fecero maturare un fenomeno oltre la coscienza dei suoi contemporanei.

Schematizzando, potremmo dire che secondo EdM un buon lavoro storiografico non si dovrebbe limitare all’accertamento e al resoconto dei fatti accaduti (le azioni umane), ma dovrebbe mirare, una volta accertati i fatti, ad individuare e a distinguere tra loro 3 ordini di nessi:
𝑎) quelli tra i fatti e le motivazioni coscienti e consapevoli dei loro protagonisti;
𝑏) quelli tra i fatti e le motivazioni inconsce o inconsapevoli dei loro protagonisti;
𝑐) quei nessi che non potevano essere all’epoca né consapevoli né inconsapevoli, ma la cui consapevolezza maturerà soltanto in seguito all’evoluzione storica.

Va tenuto presente che le valutazioni dei protagonisti (𝑎 e 𝑏) possono anche essere errate o inadeguate, e che in ogni caso esse sono legate al contesto culturale dell’epoca e più specificamente del loro ambiente. Sarebbe interessante verificare se e fino a che punto le opere di argomento storiografico che si leggono perseguono questi obiettivi, e il primo a subire questo tipo di scrutinio dovrebbe naturalmente essere lo stesso saggio di Ernesto de Martino (pur tenendo ovviamente conto del fatto che non poté terminarlo).


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯

giovedì 5 dicembre 2019

L’ethos del trascendimento è doverci essere nel mondo

Il 2° capitolo del saggio di Ernesto de Martino ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), è dedicato al tema ‹Le apocalissi psicopatologiche›; tuttavia nella 2ª delle 5 parti che compongono tale capitolo, e in particolare alle pp. 186-187, l’autore approfondisce, in un paragrafo breve ma teoricamente assai denso, la sua concezione di quella dimensione, specifica della vita umana, che denomina “ethos del trascendimento” (i puntini tra parentesi quadre […] tra i 2 cpvv. sono nell’originale, e indicano che i curatori hanno omesso alcuni passi intermedi):

2.3. Ethos del trascendimento = doverci-essere-nel-mondo.
Che il ‹Dasein› sia ‹in-der-Welt-sein› è il tema fondamentale dell’esistenzialismo heideggeriano. Ma l’‹esserci› come ‹esser-nel-mondo› rimanda alla vera condizione trascendentale del ‹doverci› essere. Intanto è pensabile la presenza, in quanto si dispiega l’energia presentificante, l’emergere valorizzante della immediatezza della vita: il che significa che proprio questa energia, questo «oltre» costituisce la vera condizione trascendentale dell’esistenza. La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere, secondo modi distinti di progettazione e di intersoggettività. L’uomo è sempre ‹dentro› l’esigenza del trascendere, e nei modi distinti di questo trascendere, e solo ‹per entro l’oltrepassare valorizzante› l’esistenza umana si costituisce e si trova come presenza al mondo, esperisce situazioni e compiti, fonda l’ordine culturale, ne partecipa e lo modifica. All’uomo non è dato mai trascendere questa stessa energia del trascendimento, che opera in lui ne sia o non ne sia cosciente, la riconosca come tale oppur no: l’uomo non può che esercitarla ridischiudendosi sempre di nuovo al suo imperativo o patire variamente la sua crisi, sino al limite di quell’annientamento che, per l’individuo, sono la follia e la morte, e per le comunità la decadenza o il crollo della loro visione della operabilità del mondo. Ma sia che questa energia apra faticosamente il varco al suo slancio, sia che ricada su se stessa, questo suo dispiegarsi e questo rischio di caduta hanno luogo sempre ‹dentro› di essa, fanno parte della sua interna dialettica, senza che mai possa saltare sopra se stessa e pervenire alla «natura» in sé anteriore a ogni valorizzazione umana — o al «puro spirito» secondo un trascendimento ultimo e definitivo. Questa non trascendibile energia del trascendimento valorizzante intersoggettivo è, per eccellenza, trascendentale, cioè condizione ultima e inderivabile della pensabilità e della operabilità dell’esistere: in quanto chiama sempre di nuovo ad andar oltre la immediatezza del vivere, non è ‹élan vital›, ma ethos tanto poco riducibile al dato biologico che il condizionamento biologico si fa percepibile dentro non fuori e prima, il suo dispiegarsi; d’altra parte non si esaurisce affatto nei ‹mores› storico-culturali, nei costumi, nelle singole «morali», in questa o quella etica, ma ‹mores›, costumi, singole morali, singole etiche procedono dal modo e dai limiti dentro i quali l’ethos si fa consapevole di sé e si esercita nelle morali storiche. Linguaggio, vita politica, vita morale, arte e scienza, filosofia, simbolismo mitico-rituale della vita religiosa, procedono da questo ethos: la antropologia non è che la presa di coscienza sistematica di questo ethos, la determinazione dei distinti modi del suo manifestarsi storico, la individuazione, nell’oltre del trascendere, delle coerenze che presiedono ai singoli modi dell’oltre, dell’ordine e della relazionalità dei modi fra di loro, di ciò che appartiene alla struttura universale dell’esistenza e di ciò che invece si riferisce solo a singole formazioni storico-culturali transeunti.
[…]
Domesticità dello sfondo, orizzonte di operabilità domesticatrice, emergenza presentificante della valorizzazione attuale iterantesi sempre di nuovo senza tuttavia esaurire mai la totalità ideale dell’essere, questi tre momenti costituiscono l’articolarsi concreto dell’ethos del trascendimento della vita. L’emergenza presentificante ha luogo nella domesticità di uno sfondo, cioè nell’assunzione di una datità ovvia, mantenuta nell’anonimato, e tuttavia senza problematicità attuale proprio perché concrezione di passati o remotissimi trascendimenti che «una volta» furono presentificazioni nella storia del singolo come in quella della umanità. In tale sfondo di presentificazione e domesticazioni culturali avvenute una volta e che ora stanno come datità ovvia, anonima, disindividuata, la presentificazione attuale secondo valore si fa margine e si dà concreto orizzonte di domesticazione operativa qualificata: emerge, cioè, secondo orientamenti di volta in volta egemonici, secondo questo o quel ‹telos›. Ora questo immenso «affidarsi a» per «raccogliersi in» si inaugura sempre di nuovo col progetto comunitario dell’utilizzabile, in cui la stessa vita «bisognosa di…» sta come ordine umano che produce vita e bisogni e mezzi per la soddisfazione dei bisogni, e in cui la fedeltà alle domesticazioni utilizzanti già una volta avvenute fa da sfondo condizionante al concentrarsi in una certo ben determinata utilizzazione attuale, nella varia gradualità della «applicazione» più o meno meccanica e abitudinaria, dell’adattamento di tradizioni tecniche operative, della innovazione, della invenzione, ecc.

Proviamo ora a rileggere questo passo demartiniano depurandolo dalla terminologia esistenzialista e dai riferimenti alla filosofia di Heidegger:

[…] l’‹esserci› come ‹esser-nel-mondo› rimanda alla vera condizione trascendentale del ‹doverci› essere. Intanto è pensabile la presenza, in quanto si dispiega l’energia presentificante, l’emergere valorizzante della immediatezza della vita: il che significa che proprio questa energia, questo «oltre» costituisce la vera condizione trascendentale dell’esistenza.
Il particolare modo di essere dell’uomo, quel che s’intende per vita umana, si caratterizza per una specifica attività (il dispiegarsi dell’energia presentificante di EdM), per la quale non gli è sufficiente la “immediatezza della vita” – che peraltro condivide con gli animali – ma è obbligato (dalla propria natura?) a cercare qualcosa che va (o si trova) “oltre” il rapporto immediato con la realtà esterna (sia naturale, sia umana?). Il fatto cessa di essere un semplice fatto, ma acquista un senso, un contenuto (il “valore”, per EdM); l’uomo si disinteressa del fatto in sé, divenuto mera apparenza, per interessarsi del contenuto.

La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere, secondo modi distinti di progettazione e di intersoggettività.
Qui EdM cerca di legare l’ethos definito sopra con la “naturale socialità” dell’essere umano (il “progetto comunitario”) ma questo nesso ci pare forzato e risente forse di una formazione ideologica marxista, o quantomeno di un’adesione a tale impostazione ideologica; l’identità umana (l’ethos di EdM) si forma fin dalla nascita, e se è vero che il neonato abbisogna per lungo tempo delle cure e dell’accudimento da parte di qualche adulto, non pare appropriato riferirsi per questo a un “progetto comunitario”. Del resto la nascita, in de Martino, non c’è: è come se l’essere umano comparisse già adulto, con una “presenza” già strutturata – per quanto sempre precaria – e con tutti i problemi che questa presenza comporta (e questa è, a quanto ci risulta, una caratteristica comune a tutti i filosofi).

All’uomo non è dato mai trascendere questa stessa energia del trascendimento, che opera in lui ne sia o non ne sia cosciente, la riconosca come tale oppur no: l’uomo non può che esercitarla ridischiudendosi sempre di nuovo al suo imperativo o patire variamente la sua crisi […]
… la crisi dell’imperativo, oppure della “energia del trascendimento”? Comunque sia, se chiamiamo questa energia “fantasia”, oppure capacità di immaginare una realtà differente da quella attuale e concretamente presente, che ne costituisca però una chiave di lettura, EdM afferma qui – e ci pare un’intuizione notevole – che tale capacità agisce comunque, indipendentemente dalla volontà del soggetto, e che questi ne sia consapevole o meno; in altre parole: può essere sia cosciente, sia inconscia; potrebbe quindi, per quanto egli (EdM) non lo espliciti, essere attiva anche durante il sonno!
[…] sino al limite di quell’annientamento che, per l’individuo, sono la follia e la morte, e per le comunità la decadenza o il crollo della loro visione della operabilità del mondo.
Dobbiamo però distinguere la morte fisica, che per l’individuo è inevitabile e in un certo senso “naturale” (quando non dovuta a eventi traumatici o a malattia), dalla morte “psichica”, che è sempre esito di una patologia, la quale a sua volta è l’effetto di una ‹noxa› esterna, per quanto spesso invisibile; occorre allora indagare, sia a livello biografico individuale, sia a livello sociale, quali siano le cause della crisi e dell’eventuale fallimento.

Ma sia che questa energia apra faticosamente il varco al suo slancio, sia che ricada su se stessa, questo suo dispiegarsi e questo rischio di caduta hanno luogo sempre ‹dentro› di essa, fanno parte della sua interna dialettica, senza che mai possa saltare sopra se stessa e pervenire alla «natura» in sé anteriore a ogni valorizzazione umana — o al «puro spirito» secondo un trascendimento ultimo e definitivo.
In realtà, pare sia proprio di certe patologie schizofreniche cercare di realizzare un’esistenza come “puro spirito”, e tale realizzazione paradossalmente coinciderebbe, in un’estrema scissione, con quella di un “puro corpo” (si veda M. Fagioli, ‹La marionetta e il burattino›, § 2.2: ‹La schizofrenia simplex›); ma forse è vero che persino lo schizofrenico più cronicizzato non riesce che ad avvicinarsi a questa condizione, senza mai poterla veramente raggiungere.

Questa non trascendibile energia del trascendimento valorizzante intersoggettivo […] non è ‹élan vital›, ma ethos tanto poco riducibile al dato biologico che il condizionamento biologico si fa percepibile dentro non fuori e prima, il suo dispiegarsi […]
Concordiamo che non sia “riducibile al dato biologico”, ma se non è almeno ‹riconducibile› “al dato biologico”, a che cosa sarebbe mai dovuta? Allo spirito santo? Considerando la dinamica della nascita, il feto si sviluppa da una realtà che è puramente biologica, deve dunque esistere un momento in cui questo “ethos” emerge da tale realtà biologica, altrimenti si torna al concetto di anima immortale fantasticata da Platone, con tutte le aporie ad esso conseguenti.
[…] la antropologia non è che la presa di coscienza sistematica di questo ethos, la determinazione dei distinti modi del suo manifestarsi storico […ecc., fino alla fine del 1° cpv.]
Ovvero: l’antropologia sarebbe lo studio delle modalità con cui questo ethos si manifesta storicamente, non si dovrebbe invece occupare né delle sue origini, né di come esso ethos si sviluppa; un po’ come oggetto della linguistica sarebbe l’insieme delle lingue nel loro concreto manifestarsi e nei loro rapporti reciproci, ma non l’origine né lo sviluppo della capacità linguistica negli umani.

Domesticità dello sfondo, orizzonte di operabilità domesticatrice, emergenza presentificante della valorizzazione attuale […], questi tre momenti costituiscono l’articolarsi concreto dell’ethos del trascendimento della vita.
EdM distingue qui 3 “momenti” dell’ethos del trascendimento:
  • domesticità dello sfondo (un ambiente già valorizzato culturalmente);
  • orizzonte di operabilità domesticatrice (possibilità umana di ulteriore valorizzazione);
  • emergenza presentificante della valorizzazione attuale (attività umana).
L’ambiente già valorizzato è il risultato, una sorta di sedimento, delle precedenti attività di valorizzazione:
[…] concrezione di passati o remotissimi trascendimenti che «una volta» furono presentificazioni nella storia del singolo come in quella della umanità. In tale sfondo […] la presentificazione attuale secondo valore si fa margine e si dà concreto orizzonte di domesticazione operativa qualificata […]
Ovvero – così almeno comprendiamo – questa attività presentificante sarebbe sempre incrementale, nel senso che tenderebbe ad ampliare e ad approfondire sempre più – ai limiti indefinitamente – i significati (valori) attribuiti alla realtà esterna (sia quella naturale, sia quella umana). Questa affermazione lascia però irrisolto il problema, già segnalato sopra, dell’origine, sia individuale sia sociale (“comunitaria”, in termini demartiniani) di questa valorizzazione.

[…] questo immenso «affidarsi a» per «raccogliersi in» si inaugura sempre di nuovo col progetto comunitario dell’utilizzabile, in cui la stessa vita «bisognosa di…» sta come ordine umano che produce vita e bisogni e mezzi per la soddisfazione dei bisogni […]
E qui EdM sembra legare di nuovo l’attività valorizzante al fare concreto (produrre mezzi per la soddisfazione dei bisogni) di marxiana memoria, senza considerare (né valorizzare) la distinzione – che invece Fagioli evidenzia fin dal 2° paragrafo di ‹Istinto› – tra bisogni ed esigenze umane.

Però, sul finire, possiamo regalare all’etnoantropologo un’intuizione, reinterpretando che l’“affidarsi a” e il “raccogliersi in” sono tipici del lattante nel rapporto con chi lo accudisce, che però non deve limitarsi a soddisfare i bisogni (materiali) del neonato, bensì far leva sulla propria sanità inconscia per entrare in risonanza affettiva e favorire lo sviluppo di quell’universo di valori di cui ogni essere umano dispone, in potenza, fin dalla nascita.


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯

martedì 3 dicembre 2019

Irreversibilità, reversibilità e ripetizione in de Martino

Nell’ultimo saggio di Ernesto de Martino, ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), la 3ª parte del 1° capitolo è dedicata al tema ‹Eterno ritorno e simbolismo mitico-rituale›; alle pp. 129-130, un breve paragrafo illustra la concezione demartiniana di come il mito – equiparato qui al rito religioso – agisca modificando la percezione del tempo e il suo fluire:

3.2. Irreversibilità, crisi, ripetizione mitico-rituale delle origini.
La coscienza ciclica del tempo, quale si esprime religiosamente nella ripetizione rituale di un mito delle origini e di fondazione e cosmologicamente nella teoria dell’eterno ritorno va interpretata, nella sua stagione storico-culturale più feconda, come un sistema protettivo per mediare la storicità del divenire umano difendendolo dal rischio, sempre presente come tentazione, di annientarlo nella grande pigrizia della ripetizione dell’identico e della pura ciclicità del tornare-a. Il simbolo mitico-rituale della ripetizione di un mito delle origini segna una sorta di ‹imitatio naturae›: si riprende il tornare-a, lo si riplasma culturalmente, e lo si risolve in un orizzonte che ridischiude l’esserci-nel-mondo. Il divenire umano che si estolle sulla pigrizia di quello subumano continua a essere travagliato da questa stessa pigrizia: la irreversibilità del tempo degli uomini rischia di farsi reversibile. La reversibilità ripresa e mutata di segno, ecco il simbolo mitico-rituale della ripetizione del mito delle origini.
Il dover esserci nel mondo culturale, il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile: in questa tensione vive l’ethos primordiale della presentificazione.
La reversibilità del tempo come rischio di annientamento è ripresa e mutata di segno, cioè avviata di nuovo verso la irreversibilità del divenire storico-culturale aperto al dover essere valorizzante: questo è il significato della ripetizione rituale di un mito delle origini. La tradizione giudaico-cristiana lascia entrare nella stessa coscienza mitico-rituale la coscienza storica del divenire irreversibile: l’accento si sposta dalla esemplarità delle origini alla esemplarità del centro del divenire, dal divino al divino incarnato (il Cristo), dalla ripetizione delle origini alla ripetizione del centro (la morte e la risurrezione di Cristo), dalla ciclicità delle catastrofi all’attesa di un termine a direzione unica (il Regno). Alla ripetizione delle origini divine della storia segue ora la ripetizione del centro divino-umano della storia col problema della salvezza individuale nel termine unico annunziato [41]. Il grande problema della nostra età è quello di una salvezza dell’individuo nella società umana, nella socializzazione dell’individuo che non sia massificazione, burocratizzazione, automatizzazione, tecnicismo, statolatria, divinizzazione del capo, ecc.
_____
La nota [41] rimanda semplicemente al 3° capitolo, dedicato in modo specifico al tema ‹Il dramma dell’apocalisse cristiana›.

Superando le difficoltà della prosa demartiniana, il concetto fondamentale ci sembra quello del “divenire umano”, inteso come un modo di essere che appartiene specificamente all’essere umano e che lo caratterizza, implicando una presenza che conferisce al tempo vissuto una particolare – potremmo dire – intensità. La natura inanimata evolve anch’essa, ma su tempi che si misurano in miliardi di anni; la natura biologica evolve su tempi assai più rapidi, ma sempre dell’ordine dei milioni di anni; la vita umana, invece, basata sulla cultura, sull’elaborazione di rappresentazioni simboliche, si modifica nell’arco delle migliaia, delle centinaia e persino delle decine di anni, così che il cambiamento diviene percepibile anche al singolo individuo.

Confrontata alla staticità della natura, la vita dell’essere umano è quindi continuo cambiamento, e incessante iniziativa, decisione su cosa cambiare e come lo si debba cambiare; in termini più fagioliani che demartiniani, potremmo dire che è una continua “separazione” dal passato. Questa particolare intensità, questa necessaria “presenza” non può che esser legata all’assenza, nel genere umano, di istinti che impongano determinati comportamenti, e all’insorgere invece, alla nascita, della pulsione come prima reazione agli stimoli provenienti dal mondo esterno inanimato (Fagioli).

Questa prima identità che l’essere umano realizza alla nascita – l’ethos demartiniano? –, fusione della pulsione con la vitalità, è però precaria, e necessita, per potersi sviluppare, del rapporto e della conferma da parte dell’altro essere umano (l’adulto che accudisce il neonato), chiamato a soddisfare il desiderio. In mancanza di tale conferma, l’identità della nascita rimane esposta alla scissione, al ritorno verso il meramente biologico – la ‹imitatio naturae› di de Martino? – o all’angoscia suscitata dalla pulsione che, messa all’esterno, diviene entità spirituale astratta, opprimente e paralizzante.

La “morte psichica”, su questo doppio versante, è un’eventualità ancora più terrificante della morte fisica, e richiede l’elaborazione di un apparato di idee e di procedure (riti) che storicamente si è strutturato dapprima come mito, e in séguito come religione; il processo di generazione e di elaborazione di un tale apparato è ciò che de Martino chiamerà poco oltre “ierogenesi” (la genesi del sacro). L’approccio dell’etno-antropologo ci sembra generoso e interessante, per quanto forse viziato da una terminologia derivata dai suoi studi heideggeriani. Il particolare risalto dato al cristianesimo (come espressione “di punta” del monoteismo) richiederà un ulteriore approfondimento. È un vero peccato che de Martino non abbia potuto proseguire la sua ricerca. Chissà dove sarebbe arrivato?


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯

mercoledì 27 novembre 2019

Ernesto de Martino e la fine del mondo nel 1964

A Perugia, nel maggio del 1964, Ernesto de Martino partecipa a un convegno internazionale che ha per tema “Il mondo di domani”, organizzato dal filosofo cristiano Pietro Prini, che all’epoca insegna a Perugia e che quello stesso anno ottiene la cattedra di Storia della filosofia all’Università “La Sapienza” di Roma. Al convegno partecipano intellettuali di diversa provenienza, scientifica e artistica, invitati a definire i contorni della civiltà contemporanea a partire dalle discipline di cui ciascuno di loro è un eminente rappresentante. Per la Francia, ad esempio, sono presenti Paul Ricœur, Jean Wahl, Gabriel Marcel, Octave Mannoni e Pierre Schaeffer; per l’Italia, Guido Calogero per la filosofia e Umberto Eco per l’estetica. In questo contesto, de Martino decide di intervenire con una relazione che – come egli stesso farà rilevare nelle battute iniziali – a più d’un ascoltatore potrebbe sembrare “impertinente”.

Il suo intervento è infatti intitolato “Il problema della fine del mondo”, ed è riportato nel saggio postumo ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), alle pp. 69-76; le informazioni fornite sopra sono liberamente tratte dalla premessa di Giordana Charuty, a p. 67.

Riproduciamo qui il testo (incluse le note ad esso relative) perché ci sembra descrivere in modo conciso e avvincente la ricerca nella quale de Martino era impegnato in quegli anni; perché sotto diversi aspetti le sue considerazioni ci sembrano ancora straordinariamente attuali; e anche perché vi sono menzionati i nessi con alcuni concetti tuttora ricorrenti come il ‹Dasein› (il noto “esserci” degli esistenzialisti) e la ‹Geworfenheit› di Heidegger, oppure l’istinto di morte (che de Martino attribuisce a Freud).


Il problema della fine del mondo

[1]

Quando il prof. Prini ha annunziato l’argomento di questo mio intervento si è diffusa nella sala una reazione che nei vecchi resoconti parlamentari era indicata con la parola ‹sensazionale›. Fra l’altro deve esser sembrato a molti che in un convegno sulle prospettive del mondo di domani fosse almeno impertinente (nel duplice senso di non pertinente e di monellescamente provocatorio) chiedere la parola per ricordare ai convenuti che «domani» il mondo, in quanto mondo culturale umano, può finire e che una qualsiasi risposta a come possa e debba essere «domani» il mondo comporta la domanda preliminare se «domani» vi sarà un mondo e se oggi non vi sia il rischio che almeno certe forze cospirano alla sua fine. Altri ancora fra i convenuti avranno addirittura pensato che il solo porsi un problema del genere è leggermente ‹iettatorio›, nel senso napoletano del termine: e che il portare l’attenzione su tale possibilità estrema ha l’unico effetto di deprimere gli animi con sinistre evocazioni, e di indurre a quei comportamenti di difesa tra il serio e il faceto che costituiscono gli scongiuri adoperati in questa circostanza. Debbo però invitare i presenti a superare queste reazioni immediate, rassicurandoli al tempo stesso che il mio intervento non ha nessuna intenzione di deprimere gli animi, ma, semplicemente, di portare un contributo sia pure modesto alla giusta impostazione di un problema che proprio se ignorato o leggermente accantonato può comportare soluzioni catastroficamente negative per l’intera umanità.

In fondo come problema preliminare rispetto a quello del «mondo di domani» sta il rapporto uomo-mondo così come esso si configura nella moderna consapevolezza culturale. Io credo che questo rapporto si articola in due momenti distinti e congiunti, di cui il mondo contemporaneo mostra di avere una sensibilità particolarmente acuta. Per un verso il mondo, cioè, la società degli uomini attraversata da valori umani e operabile secondo questi valori, non ‹deve› finire, anche se — ed anzi proprio perché — i singoli individui fruiscono di una esistenza finita; per un altro verso il mondo ‹può› finire, e non tanto nel senso naturalistico di una catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta terra, ma proprio nel senso che l’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la stessa possibilità della cultura. Se dovessi individuare la nostra epoca nel suo carattere fondamentale, direi che essa vive come forse non mai è accaduto nella storia nella drammatica consapevolezza di questo ‹deve› e di questo ‹può›: nell’alternativa che il mondo ‹deve› continuare ma che ‹può› finire, che la vita deve avere un senso ma che può anche perderlo per tutti e per sempre, e che l’uomo, solo l’uomo, porta intera la responsabilità di questo deve e di questo può, non essendo garantito da nessun piano della storia universale operante indipendentemente dalle decisioni reali dell’uomo in società.

Senza dubbio nella coscienza culturale della nostra epoca il rapporto fra ciò che potremmo chiamare l’ethos del trascendimento della vita nei valori intersoggettivi e ciò che invece rappresenta il crollo di questo ethos con la correlativa perdita di senso e di operabilità del mondo, presenta una grande varietà di concrete manifestazioni che una ricerca sistematica dovrebbe mettere in evidenza e sottoporre al giudizio. La manifestazione estrema, in cui il rischio si palesa nel modo più radicale, acquista aspetti nettamente psicopatologici, come per esempio nel ‹Weltuntergangserlebnis› schizofrenico: ma anche senza giungere a questi casi-limite, sfumature morbose del genere si avvertono copiose nel crollo dei linguaggi artistici, così come in certe correnti esistenzialiste e in certe modalità del costume. Quando Heidegger in ‹Sein und Zeit› teorizza la ‹Geworfenheit› dell’esserci, quando Sartre in ‹La nausée› illustra il mondo indigesto spalancantesi sul nulla, quando D.H. Lawrence lamenta che abbiamo perduto il sole, i pianeti, e il Signore con le sette stelle dell’orsa ricevendo in cambio il «povero, piatto, meschino mondo della scienza e della tecnica» [2], quando Moravia in ‹La noia› descrive «la malattia degli oggetti», noi ravvisiamo in queste espressioni culturali pur così diverse una ‹Stimmung› comune, la segnalazione di uno stesso rischio radicale, e cioè la possibilità di un mondo che crolla in quanto crolla lo stesso ethos culturale che lo condiziona e lo sostiene. D’altra parte espressioni culturali così eterogenee come l’istinto di morte di Freud o il crollo dell’occidente di Spengler sembrano accennare alla stessa direzione.

Non è improbabile che una così acuta coscienza culturale del finire del mondo nell’epoca moderna abbia tratto alimento anche dalla possibilità della guerra nucleare o dai terrificanti episodi di genocidio dei campi di morte nazisti. Ma già il fatto che abbiamo avuto bisogno dei 200.000 di Hiroshima o dei 6.000.000 di ebrei periti nei campi di sterminio ci indica quanto profonde siano le radici della nostra crisi. Dovrebbe infatti bastare l’immagine di un solo volto umano che porta i segni della violenza e della offesa subita da un altro uomo, per porre in movimento, in chi guarda quel volto, la drammatica tensione del mondo che «può» ma «non deve» finire. Che i volti perduti per colpa umana siano 200.000 o 6.000.000 non aggiunge nulla allo scandalo di quel solo volto, e non occorre altro che quel solo volto per mettere in causa il mondo e per mobilitare l’ethos culturale umano che sempre di nuovo è chiamato a rendere più abitabile e più familiare il pianeta terra per ciascuno e per tutti. Ma, a parte Hiroshima e i campi di sterminio, vi sono altri aspetti del mondo moderno che hanno reso particolarmente acuta la nostra sensibilità per il rischio della fine. Le rapidissime trasformazioni nei generi di vita introdotte dal diffondersi del progresso tecnico, le correnti migratorie dalla campagna alla città, da regioni sottosviluppate a regioni industriali, il salto improvviso da economie più o meno arretrate o addirittura da società tribali a economie e società ormai inserite nel mondo occidentale, hanno condotto alla crisi un gran numero di patrie culturali tradizionali senza che tuttavia la integrazione nella nuova patria culturale avesse avuto il tempo di maturarsi. I rapidi processi di transizione, le lacerazioni e i vuoti che essi comportano, la perdita di modelli culturali in una situazione che non può più utilizzare quelli familiari, inducono crisi vistose e ripropongono nel modo più drammatico i problemi elementari del rapporto col mondo. Solo in questo quadro noi riusciamo a comprendere, per esempio, le riflessioni di un operaio francese come Navel, che nei suoi ‹Travaux› espone in forma autobiografica il passaggio dalla sua origine contadina alla condizione operaia esprimendo fra l’altro in modo ricorrente la riconquista del mondo e del proprio corpo che la vita di una fabbrica moderna ponevano in causa in modo radicale. A sera l’operaio Navel torna nella sua camera e si prepara la cena; ed ecco che egli si sorprende nell’atto di aprire lo sportello della credenza e di prendere la saliera per salare la minestra:
La mano, sensibile alle percezioni successive del legno della credenza, del ferro della maniglia, del vetro della saliera e del pizzico di sale, mi meraviglia: mi stupivo di trovare un tal tesoro di conoscenze nella semplice pelle delle dita. Cercavo di vivere completamente risvegliato, sempre cosciente del momento, della cosa, del gesto. L’adulto vive addormentato nelle sue abitudini. È sempre bello apprendere la vita, e tutto d’un tratto io apprendevo all’albero verde del contatto diretto. Non c’è che la vita di cui ci si meraviglia che vale la pena di essere vissuta. Mentre la mano teneva il suo pizzico di sale in minuti cristalli, io sapevo ch’essa era simile a quelle di tutte le nonne della terra quando fanno il gesto di aprire la saliera per salare la minestra, il gesto che avevo visto fare a mia madre; ed io dialogavo con lei nella rapidità del sogno: «Io salo la mia minestra, la mia mano è la tua, tu non sei morta». Ma al di là di mia madre, io entravo in rapporto con tutti i morti, tutte le presenze che mi avevano dato una mano come questa simile alle altre. L’uomo vive con le sue mani. La mia aveva appartenuto ad una generazione di servi. Aveva spesso riempito la sua solitudine sul fornello bruciante di una pipa, dopo la giornata passata sul manico di una scure nelle foreste coperte di neve. La vita è ciò che si tocca, le stesse sensazioni inducono gli stessi sogni. Boscaioli, vignaioli, contadini, dandomi la loro mano mi avevano dato anche quella che era passata nelle loro teste, rosse o bionde che fossero [3].

Mi accadde una volta, percorrendo in macchina una strada della Calabria, di chiedere a un vecchio pastore alcune indicazioni su un certo bivio di cui andavo in cerca: e poiché le sue informazioni erano poco chiare, gli proposi di accompagnarmi in macchina sino al bivio in questione, per poi riportarlo sino al punto in cui ci eravamo incontrati. Il vecchio pastore accettò con estrema diffidenza il mio invito, e durante il percorso guardava con crescente agitazione attraverso il finestrino, come per cercare qualche cosa di molto importante. D’un tratto gridò: «Dov’è il campanile di Marcellinara? Non lo vedo più!» Effettivamente il campanile di questo villaggio era scomparso all’orizzonte, ma con ciò si era profondamente alterato il mondo familiare, lo spazio domestico, di questo arcaico pastore, il quale per tale scomparsa esperiva angosciosamente il crollo della sua angustissima patria culturale, con l’abituale paesaggio che faceva da scenario quotidiano ai suoi spostamenti col gregge. Accadde così che non fu possibile andar oltre in compagnia del nostro pastore, e fu necessario riportarlo indietro al punto di partenza, dove salutò con gioia il riapparire del campanile smarrito. È questo un esempio estremo, e quasi caricaturale, del legame con una patria culturale come condizione di operabilità del mondo: ma tale legame è ben noto allo studioso delle civiltà umane, e risalta in modo particolare nelle civiltà arcaiche.

Che cosa può succedere quando in una situazione coloniale una determinata corrente migratoria muta improvvisamente di ‹habitat› e passa da condizioni tribali di vita a una civiltà di tipo industriale è stato più volte segnalato: qui ricorderò il caso di cui ha avuto occasione di occuparsi l’etnologo Rouch ad Accra, nella Costa d’Oro, quando vi era ancora il regime coloniale britannico; un caso particolarmente interessante, documentato fra l’altro anche da un documentario dello stesso Rouch, che fu proiettato alcuni anni or sono al festival internazionale del film etnografico di Firenze [4]. Si tratta di una corrente migratoria dei negri Bambara dal medio Niger [5] — dove vivevano di pesca e di agricoltura — verso le molto più civilizzate regioni della costa. I Bambara erano attratti dai favolosi guadagni che si prospettavano nella nascente civiltà industriale della costa dove trovarono di fatto condizioni materiali di vita certamente molto migliori di quelle della loro patria tribale. Senonché nella nuova sede si verificò un duplice fatto: da un lato tutto il dispositivo culturale di cui gli emigrati disponevano in patria per far fronte ai momenti critici della loro vita di agricoltori e di pescatori, cioè il loro pantheon, i loro riti, le loro cerimonie, non erano pili utilizzabili nella nuova sede, legati com’erano ad un ‹habitat› ormai abbandonato, a momenti critici che avevano perduto il loro senso, e a rapporti tribali ormai in dissoluzione; dall’altro lato i Bambara erano colpiti da una serie di episodi traumatizzanti della loro vita di emigrati. Il governatore inglese, l’esercito, la polizia, la burocrazia, le macchine, il treno, ecc., costituivano un insieme di elementi che essi non riuscivano ad inserire in nessun orizzonte culturale e che rappresentavano il risultato terminale di un processo storico a cui essi restavano sostanzialmente estranei. In questa situazione si verificarono ben presto nella comunità Bambara di Accra una serie di disordini psichici di notevole gravità, caratterizzati dall’insorgere di impulsi inconsci che non potevano essere né controllati né sublimati in determinati orizzonti culturali. La comunità di Accra fu così colpita da una vera epidemia di disordini psichici, che mise in allarme le autorità, tanto più che medici e psichiatri non riuscivano ad intervenire efficacemente nella situazione, che sfuggiva ai quadri nosologici della medicina e della psichiatria europee. Riuscì invece a risolvere questa situazione un bambara, che era uomo di larga esperienza e aveva maggiori capacità degli altri emigrati. Costui prese alcuni elementi del vecchio dispositivo culturale — per esempio l’altare conico al centro di una radura — modificandoli in funzione della nuova situazione. Divise così l’altare tradizionale in varie sezioni, la più alta delle quali ospitava il governatore come nuova divinità del pantheon industriale e coloniale, e poi via via il medico, il capo della polizia, la moglie del medico, eccetera. Alla base di questo altare conico, che rappresentava in un certo senso un’immagine mitica della situazione coloniale, vi era il magazzino delle offerte sacrificali. Ma ciò che rendeva di particolare interesse questo riadattamento della religione tribale alla nuova situazione erano i riti e le cerimonie. I Bambara, mantenendo i vecchi riti di possessione caratteristici della loro tradizione magico-religiosa, si lasciavano ora possedere dalle divinità del nuovo pantheon: essi erano così posseduti, nel corso delle cerimonie celebrate presso l’altare, dallo spirito del governatore inglese, o del capo della polizia o del macchinista delle ferrovie, e adoperavano come formule liturgiche le formule burocratiche che costituivano un altro elemento traumatizzante della loro nuova vita cittadina. In tal modo i traumi e i conflitti accumulati quotidianamente, e che prima esplodevano in disordini psichici veri e propri, venivano ora fatti defluire nell’ordine rituale della possessione e ricevevano orizzonte in figurazioni mitiche definite. Così il nuovo dispositivo culturale poté assolvere una funzione riequilibratrice e reintegratrice, e i disordini psichici trovarono la loro più appropriata modalità di controllo.

Questo singolare episodio stimola alcune osservazioni. Senza dubbio la scienza e la tecnica dell’occidente, nate da un ethos culturale particolare che è frutto di una lunga storia, costituiscono valori non soltanto universali, ma universalizzabili: tuttavia sono valori universalizzabili nella misura in cui non restano un al di là rispetto ai mondi umani che entrano con un ritmo crescente nel processo di occidentalizzazione, e nella misura in cui scienza e tecnica svolgano interamente l’ethos adeguato al tipo di umanesimo integrale e di integrale democrazia che certamente scienza e tecnica racchiudono almeno potenzialmente. A questo proposito non va dimenticato che molto cammino resta ancora da fare, e che come vi è una magia nera vi è anche un modo di intendere la scienza come tecnicismo moralmente indifferente, e quindi compatibile per esempio col segreto atomico e con la guerra nucleare. Il problema centrale del ‹mondo di oggi› appare dunque la fondazione di un nuovo ethos culturale non più adeguato al «campanile di Marcellinara», ma all’intero pianeta terra che ormai gli astronauti contemplano dalle solitudini cosmiche e che sta di fatto diventando, per quanto attraverso contraddizioni e resistenze, la nostra patria culturale fondamentalmente unitaria, con tutta la ricchezza delle sue memorie e delle sue prospettive. Nella misura in cui questo nuovo ethos si renderà realmente operante e unificante, raccogliendo in una consapevole ecumenicità di valori comuni la originaria dispersione e divisione delle genti e delle culture, il mondo che «non deve» finire uscirà vittorioso dalla ricorrente tentazione del mondo che «può» finire, e la fine di «un mondo» non significherà la fine «del mondo» ma, semplicemente, «il mondo di domani».


_____
NOTE
¯¯¯¯¯

[1]. E. De Martino, ‹Il problema della fine del mondo›, in P. Prini (a cura di), ‹Il mondo di domani›, Abete, Roma 1964, pp. 225-31.

[2]. Allusione al testo di D.H. Lawrence, ‹Apocalypse›. Cfr. in questo volume il cap. 5, par. 3.

[3]. De Martino attribuisce questa citazione a ‹Parcours›. Correggiamo: G. Navel, ‹Travaux›, Gallimard (coll. «Folio»), Paris 1995, p. 208.

[4]. J. Rouch, ‹Les maîtres fous›, 1955, 36 minuti. Primo premio per il film documentario al festival di Venezia del 1957; partecipazione al festival dei Popoli di Firenze del 1959.

[5]. Non si tratta dei Bambara, ma della setta degli Haouka, nata all’interno delle popolazioni Songhaï nella metà degli anni Venti del Novecento.


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯

lunedì 25 novembre 2019

Marcello Massenzio, de Martino e la crisi della presenza

Nella sua introduzione alla nuova edizione del saggio postumo di Ernesto de Martino, ‹La fine del mondo - Contributo all’analisi delle apocalissi culturali› (ed. Einaudi 2019), Marcello Massenzio, a p. 34, scrive:
Le civiltà dette primitive, il cui insieme costituisce ciò che De Martino chiama «il mondo magico», sono caratterizzate dal «dramma storico» che le pervade, e che coinvolge la presenza umana, l’essere al mondo, un concetto, questo, che De Martino elabora a partire dalla nozione heideggeriana di ‹Dasein›. L’ordine culturale esiste nella misura in cui la presenza umana, in quanto soggetto, è capace di opporsi al mondo esterno, per forgiarlo. Il rischio permanente della sua scomparsa, qualora si radicalizzi, implica la disgregazione di questo legame: ciò si verifica quando la presenza umana defluisce nel mondo esterno o, al contrario, quando quest’ultimo invade la presenza. Le istituzioni magiche, nate per contrastare tale eventualità, si propongono di garantire il ruolo attivo della presenza umana, in permanente equilibrio fra esserci e non esserci; esse testimoniano dell’esigenza primaria d’impedire alla presenza, alla cultura e alla storia di sprofondare nel nulla. È in questo retroterra che affonda le radici il progetto di ricerca sulle apocalissi.

La dinamica storica del mondo magico si misura al vaglio di criteri che non sono quelli dell’Occidente; essa riposa sulla tensione che oppone la ricerca della salvezza alla minaccia della caduta, la volontà di esserci della presenza al rischio di non poter essere in nessun mondo culturale possibile. Il dramma magico è contenuto interamente nel contrasto dialettico fra queste due polarità. Il mondo magico è «diverso» dal nostro, nella misura in cui non gli appartiene la «presenza che sta garantita in cospetto di un mondo trattenuto nei suoi cardini» [6]:
Un’altra epoca, un mondo storico diverso dal nostro, il mondo magico, furono impegnati appunto nello sforzo di fondare la individualità, l’esserci nel mondo, la presenza, onde ciò che per noi è un dato o un fatto, in quell’epoca, in quell’età storica, stava come compito e maturava come risultato [7].

Entrambe le note rimandano al saggio ‹Il mondo magico› – composto da Ernesto de Martino durante gli anni di guerra, ma pubblicato soltanto nel 1948 – si veda la pagina dedicata allo studioso da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Ernesto_de_Martino):

[6]. E. De Martino, ‹Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo›, Boringhieri, Torino 1997, 4ª ed., p. 151.

[7]. 𝐼𝑏𝑖𝑑., p. 161.


Ci soffermiamo sulle parole (di Massenzio): «[…] la presenza umana, in quanto soggetto, è capace di opporsi al mondo esterno, per forgiarlo. […] la disgregazione di questo legame […] si verifica quando la presenza umana defluisce nel mondo esterno o, al contrario, quando quest’ultimo invade la presenza». Non ci sembra ben chiaro se il “mondo esterno” sia quello naturale oppure quello umano (per quanto il verbo “forgiarlo” farebbe propendere per il primo, tuttavia un fastidioso dubbio ci resta). Mentre è facilmente intuibile come la realtà esterna possa influire sulla presenza (basti pensare a come reagiamo alle sollecitazioni esterne: dalla superstizione, al timore del contagio, vuoi fisico vuoi mentale, fino alla possessione, ai limiti quella “demoniaca”), ci riesce invece oscuro il “defluire” della presenza nel mondo esterno. Il concetto sarà approfondito nel secondo capitolo del volume, dedicato a ‹Le apocalissi psicopatologiche›.

Ad ogni modo, ci pare che la “crisi della presenza” sia indiscutibilmente legata alla precaria separazione tra ciò che consideriamo il Sé e ciò che è invece “esterno”, o “estraneo”. E ci tornano in mente le parole di Freud ne ‹La negazione› (1925):
«Per l’Io ciò che è male, ciò che è estraneo all’Io, ciò che si trova al di fuori, sono in un primo momento identici […]. Il contrasto fra soggettivo e oggettivo non esiste fin dall’inizio. Tuttavia, il compimento delle funzioni di giudizio è reso possibile soltanto dal fatto che la creazione del simbolo della negazione ha consentito al pensiero un primo livello d’indipendenza dagli effetti della rimozione e con ciò anche dalla costrizione esercitata dal principio del piacere».
Parole puntualmente rovesciate da Massimo Fagioli nello scritto ‹Una depressione› (1993):
«Per l’Io ciò che è male, ciò che è estraneo all’Io, ciò che si trova al di fuori, ‹non› sono in un primo tempo identici […]. Il contrasto tra soggettivo e oggettivo esiste fin dall’inizio […]».

Ovvero: Freud sostiene che la mancata distinzione tra il Sé e l’esterno a sé è naturale, congenita, quindi – e non potrebbe essere diversamente – di origine biologica; Fagioli afferma invece che essa è patologia, che si instaura in séguito a rapporti interumani deludenti, e questa concezione si lega alla convinzione che sia possibile ripristinare la sanità originaria sia direttamente con la cura psicoterapica, sia modificando i rapporti sociali mediante la lotta politica.

De Martino sembra invece ritenere che questa distinzione, da lui intesa come necessario preupposto dell’operare umano nel mondo, sia in quanche modo insita nella natura umana stessa, ma per qualche motivo – da lui non chiarito – sia precaria, cioè continuamente soggetta al rischio di perdersi, e necessiti pertanto di uno sforzo continuo, la produzione culturale, per mantenerla.

Tornando al saggio demartiniano, in cui vengono contrapposti il mondo occidentale (a derivazione dal cristianesimo e dal ‹logos› greco) e il “mondo magico” (che accomunerebbe in un unico calderone tutte le altre e precedenti culture), da alcuni passi sembrerebbe che in verità neppure nella cultura occidentale la presenza sia poi talmente garantita; quest’essere garantita sarebbe più che altro apparenza, illusione, risultante dalla messa in atto di strategie che forse non saranno propriamente “magiche”, purtuttavia non se ne discostano più di tanto.

A questo punto potremmo anche chiederci che ruolo abbiano la scienza, il linguaggio e la conoscenza “scientifici”, la ricerca e la divulgazione, non sempre corretta, dei suoi risultati, nel mettere al sicuro la “presenza” dal rischio demartiniano di non esserci.

Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯

lunedì 18 novembre 2019

Hilary Gatti, Giordano Bruno, lo scienziato e il filosofo

Il terzo capitolo del saggio di Hilary Gatti, ‹Giordano Bruno e la scienza del Rinascimento› (1999, ed. Raffaello Cortina 2001), è dedicato ad esaminare le implicazioni cosmologiche di stampo copernicano ne ‹La cena de le ceneri›, il primo dei dialoghi italiani del Nolano, composto e pubblicato nel 1584, durante il suo soggiorno in Inghilterra; alle pp. 60-62 possiamo leggere:
[…] Qui Bruno sta identificando, già agli inizi della rivoluzione scientifica, due diverse discipline come connesse ma distinte: quella perseguita dallo scienziato vero e proprio (che, nella nostra era postkuhniana, definiremmo “scienza normale”) e la filosofia della scienza. Come esponente di quest’ultima, Bruno riconosce che la propria riflessione deve in ultima analisi dipendere dai dati rilevati e analizzati dagli scienziati. Allo stesso tempo, però, rivendica la libertà di interpretare tali scoperte in un ambito molto più vasto di quello in cui opera la scienza “normale”, secondo una modalità che richiede il dono dell’ispirazione e dell’immaginazione, nonché una capacità di illuminazione profetica in grado di interpretare la natura secondo leggi o paradigmi universali. In tal senso, questa pagina bruniana può essere confrontata con il brano conclusivo della ‹Nuova Atlantide› di Bacone, in cui l’autorità più alta all’interno della Casa di Salomone verrà assegnata a coloro ai quali, sebbene in termini meno individualistici di quelli in cui Bruno concepisce il compito del filosofo, spetta la responsabilità di ordinare e interpretare le informazioni fornite dagli scienziati “normali”:
Poi, dopo diversi incontri e consultazioni prese in assemblea plenaria, allo scopo di prendere in considerazione e valutare i precedenti lavori e le raccolte, ve ne sono tre che si prendono cura di guidare nuovi esperimenti, tratti dai precedenti, e dotati di un più alto grado di luce, per penetrare ancora di più entro la natura. Essi sono chiamati “Lampade”.
Ve ne sono altri tre che eseguono gli esperimenti così guidati, e ne riferiscono. Li chiamiamo “inoculatori”.
Infine, ve ne sono tre che innalzano le precedenti scoperte, mediante esperimenti, portandole a convergere verso più grandi osservazioni, assiomi, aforismi. Li chiamiamo “interpreti della natura” [18].

Bruno suggerisce, qui, che le nuove ricerche scientifiche, in particolare quelle concernenti un nuovo modello di universo, abbiano implicazioni talmente profonde che non si può lasciare agli scienziati stessi il compito di trarne tutte le relative conseguenze concettuali, una responsabilità che spetterebbe, piuttosto, al filosofo della scienza. Si tratta, in definitiva, di un’intuizione di carattere estremamente avanzato, che prefigura non solo la filosofia razionalistica su base scientifica di un René Descartes (Cartesio) o di un John Locke, ma anche il pensiero postkantiano del periodo romantico, con il suo orientamento soggettivo e idealistico. Oltre a ciò, si noterà come l’interesse dimostrato da Bruno nei confronti degli aspetti tecnici dell’arte della memoria e della logica di Ramon Lull (Raimondo Lullo) possa essere visto in termini dello studio della logica della ricerca scientifica, un tema di particolare attualità in un’epoca, quale la nostra, che ha visto la diffusione delle teorie di Karl Popper.

[18]. La nota rimanda al 1° volume degli ‹Scritti politici giuridici e storici› di Francis Bacon (1561-1626) nella traduzione italiana.


Sorvoliamo sulla “ispirazione” e soprattutto sulla “illuminazione profetica” della Gatti. La studiosa afferma in sostanza che Bruno avesse già intuito, alla fine del Cinquecento, l’enorme portata delle nuove scoperte, e lo sconvolgimento che esse avrebbero provocato nella concezione del mondo e, di riflesso, nell’organizzazione sociale e politica. Per questo motivo non riteneva – a quanto pare insieme a Bacone – che gli indirizzi, i metodi e i mezzi della ricerca, quelli che Kuhn chiamerebbe “programmi di ricerca”, potessero essere lasciati alla discrezione degli scienziati stessi.

Ai tempi di Bruno, e nei secoli immediatamente successivi, non esisteva ancora la distinzione tra scienza “teorica” e scienza “sperimentale” – in effetti, questa distinzione, che si affermerà soltanto nell’Ottocento, sembra non esistere neppure per la Gatti – per cui si potrebbe anche pensare di interpretare la differenza di ruoli, ritenuta necessaria da Bruno, in termini moderni, non come complementarità di “scienza” e “filosofia della scienza” – come afferma la Gatti – bensì come interazione tra “scienza teorica” e “scienza sperimentale”.

C’è da dire che il prodigioso sviluppo della scienza ha superato di gran lunga le aspettative – ma anche e soprattutto i timori – dei due filosofi citati, rendendo accessibili tecniche dalla potenza micidiale assolutamente impensabili al loro tempo: ne sono esempi eclatanti gli esplosivi ad alto potenziale, l’impiego bellico della chimica e della biologia, la stessa bomba atomica che pose fine alla Seconda guerra mondiale; si pensi anche, in un ambito più pacifico, all’impatto sulla vita quotidiana dei nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, o alle opportunità di controllo sociale offerte dall’informatica.

Dai tempi di Bruno, a dire il vero, non pare che il problema di chi sia in grado di gestire responsabilmente i risultati delle ricerche scientifiche sia stato risolto. Escluderemmo possano essere i “filosofi”, che oggi non dispongono delle competenze tecnico-scientifiche, ma neppure del necessario potere decisionale; e ancor meno potrebbero essere i politici, affetti come sono da una crescente miopia, e spesso, perlomeno in ambito scientifico, da una vera e propria, crassa e sfrontata ignoranza.

La globalizzazione – anche nell’ambito della ricerca scientifica – ha reso del resto inefficace il controllo dei singoli Stati, e il loro ruolo non è stato assunto da organismi internazionali di adeguata autorevolezza. Le opportunità offerte dalle nuove tecnologie verranno prima o poi utilizzate da coloro che hanno meno scrupoli morali, e allora… ‹Homo homini lupus›? Il progresso scientifico richiede indubbiamente la ricerca e la realizzazione di una nuova identità umana, e i giovani di oggi sembrano essere i più sensibili a questa esigenza.

Ma la fine che fece Giordano Bruno, il 17 febbraio del 1600, ci ammonisce che gli ostacoli che si frapporranno a questa realizzazione non saranno facili da superare.

Il sommario del volume di Hilary Gatti è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯

martedì 29 ottobre 2019

Fagioli, la mente dell’animale e il pensiero umano

Le lezioni che Massimo Fagioli tenne a Chieti nel 2003 sono raccolte nel volume ‹Das Unbewusste - L’inconoscibile› (L’Asino d’oro 2019). Durante la 1ª lezione, tenuta il 7 marzo, in un passo riportato nel volume alle pp. 36-37, il docente, affrontando il problema della relazione tra “mente” e “pensiero”, afferma:
Proprio poche ore fa c’è stato un altro dibattito [10]. Qui non si finisce mai. Qualcuno di voi ha chiesto: «Ma che cos’è la mente?». E lì appunto – visto? – di fronte a quello stimolo una dolce fanciulla è stata invasata da Apollo e ha risposto una cosetta abbastanza carina. C’è da pensare una cosa interessante, cioè che in genere per il pensiero umano si fa una similitudine, un sinonimo: parlare di mente è come parlare di pensiero. Dice: “No, mica vero, mica vero. Qui bisogna vedere che il discorso della mente si può estendere anche agli animali”. Eh, infatti gli animali hanno… verrebbe da dire delle idee; quando vanno a caccia: “Mo’ mi frego ’sto cerbiatto…”. E poi fanno tutti studi, si nascondono, no? vanno piano, si mettono controvento… Quello non è automatismo del corpo, lì una mentaccia c’è. E poi dice: “Ma mi spieghi perché le piante che tieni in casa dove non c’è molta luce non crescono, invece quelle che tieni al sole, fuori, un sacco di fiori, foglie, si sviluppano?”. Perché c’è il processo clorofilliano! Ma cos’è il processo clorofilliano? Voi lo sapete che l’ultima scoperta di vent’anni, venticinque anni fa è che l’acqua non c’entra niente. Prima si diceva che le piante crescono perché succhiano l’acqua: non è vero niente. No, l’acqua è solo un fattore, quello che è importante è il processo clorofilliano, cioè la foglia. “Perché la foglia produce la clorofilla”. Certo, ma perché produce la clorofilla? Perché è stimolata dalla luce. “Come, è stimolata dalla luce? Ma la luce non è mica materia! Che stimolo è?”. Già, il fotone non ha massa, però reagisce alla massa. «E se si potesse estendere…», geniale la fanciulla! «la parola “mente” anche a questo fenomeno?». Come reazione allo stimolo, che il mondo vegetale ha a modo suo, il mondo animale ha a modo suo, la specie umana ha a modo suo, ma comunque è sempre una reazione allo stimolo. E questo vale per la mente.
_____
[10]. La nota fa riferimento alle lezioni di Psicologia generale tenute da Andrea Masini alla Facoltà di lettere e filosofia della stessa Università di Chieti.


Qui, in effetti, abbiamo 2 fenomeni a livello differente: la dinamica stimolo-reazione è tipica di tutte le realtà biologiche – quindi anche delle piante – però nel mondo vegetale, dove forse non è del tutto appropriato parlare di “comportamento”, ci è difficile immaginare che le piante abbiano “idee”; del resto, anche laddove si possa parlare di “comportamento”, è chiaro che ne esistono diversi gradi di complessità, lungo una scala che parte dagli organismi unicellulari per giungere fino a quelli dotati di un sistema nervoso sofisticato come quello dei primati.

Il nesso tra la sintesi clorofilliana e le raffinate tecniche di caccia di grandi felini – dietro i quali si nasconde l’essere umano, non dimentichiamo che fino a 12 mila anni fa eravamo tutti cacciatori-raccoglitori – sta appunto nel fotone, che proprio Fagioli ha individuato nella sua teoria della nascita (‹Istinto di morte e conoscenza›, 1972) come lo stimolo che alla nascita dà avvio alla reazione pulsionale e al pensiero dell’essere umano; il suo argomentare sembrerebbe quindi all’inizio più che altro una provocazione, ma ad ogni modo il suo discorso prosegue:
Allora il problema è — appunto, ha provocato molto i filosofi, perché lì stavamo a filosofia, non a psicologia — che nell’uomo va aggiunta un’altra parola che è “pensiero”. Cioè, la reazione della specie umana non si limita alla formazione di una mente, alla reazione come quella vegetale e quella animale, ma ha un qualcosa in più, il pensiero, che poi si dice va a finire nel pensiero verbale, nel linguaggio verbale. E tutti hanno sempre detto che quello viene fuori a tre anni di vita, per non dire a sette, per non dire a quattordici: la ragione. E invece no, che il pensiero ci sia prima del pensiero e linguaggio verbale articolato, comunicabile? A parte che chiarissimamente comunicano anche le api, comunicano anche gli uccelli, senza avere il linguaggio articolato, ma nella specie umana c’è il linguaggio articolato legato a una cosa proprio specifica che è il pensiero umano. Una possibilità di articolazione della parola con la bocca e di scrivere mediante la mano. Nessun animale scrive. E pare che non scrivano, non abbiano scritto nemmeno i primitivi, perché nelle caverne noi troviamo un sacco di figure, splendide figure di cavalli, di donne stilizzate — sembra arte moderna! —, mai una scrittura. Non si trova mai una scrittura. Quindi sembra che il pensiero verbale non ce l’abbiano avuto. Il primitivo aveva le immagini, che rappresentava, chiaramente — se andate a Porto Badisco, in Spagna eccetera, vedete tutto quello che vi pare di immagini anche molto belle, sulle rocce —, ma mai una scrittura. Come se la scrittura fosse venuta dopo questo primitivismo e questa possibilità, esatto. E allora ecco che lì ci dev’essere qualche cosa per cui nemmeno la mente è comune all’uomo e all’animale, non credo. Voi mi potreste dire, fino al linguaggio articolato, fino all’anno e mezzo di vita, due anni, la mente è uguale anche negli animali, per cui le emozioni sono uguali. No. Perché? Perché gli animali non fanno sculture e non dipingono. E non fanno nemmeno musica. Anche se le gru ballano, però ballano senza la musica. Non c’è nessuna gru che suona la chitarra, niente! Quindi evidentemente anche questa realtà preverbale, averbale, fuori dal linguaggio articolato non è uguale fra gli animali e l’uomo. D’accordo?

D’accordo, tuttavia non si può mettere sullo stesso piano il linguaggio articolato e la scrittura, che a livello biografico individuale – e anche storico – è successiva, come è del resto comprovato dagli indiani d’America e dagli aborigeni australiani, che pur non conoscendo la scrittura comunicavano mediante lingue ben definite – diverse per ogni tribù – e quindi mediante linguaggio articolato.

La scrittura – simultaneamente alle prime notazioni matematiche, e questo non può essere un caso – sembra essere stata elaborata all’epoca in cui si formarono i primi agglomerati urbani, forse per le esigenze di una società complessa, e già articolata in “classi”.

Fagioli, ad ogni modo, prosegue:
E allora bisogna cercare che succede — questo è difficile — quando si realizza una realtà umana. Che pensate? Come i cattolici, che si realizza alla prima cellula, detta “zigote”? Un po’ difficile pensare che lì ci sia una mente. Perché? Perché non c’è reazione. Chiarissimo. Mentre c’è nelle foglie, perché c’è reazione, cioè le foglie non si producono da sole, se non c’è lo stimolo della luce non vengono fuori; invece lo zigote si moltiplica per cavoli suoi, non c’è nessuno stimolo. Interessante, vero? Quindi lì la mente non ci può stare, deve venire quando c’è uno stimolo. Voi sapete come va la gravidanza, no? È ultraprotetta. È ultraprotetta dal liquido amniotico, è ultraprotetta dalla parete dell’utero di 8 o 9 centimetri, è ultraprotetta dalla parete addominale, quindi stimoli praticamente non ci sono, però il feto si sviluppa, come ben sapete, fino a tre chili. Gli stimoli vengono alla nascita. Interessante, no? Lì, sì: caldo, freddo, luce. Luce! Come le foglie. E certamente non si può pensare che non ci sia una reazione. Per i vostri studi, anzi, bisogna pensare che lì ci sia una reazione particolarissima nella specie umana rispetto a quella animale, per cui magari nell’animale viene una certa mente. Difficile, perché quelli non ci raccontano niente. Quindi, se fanno immagini — tutto lascia pensare che le immagini le facciano, perché si dice che l’elefante ha una grandissima memoria e poi riconoscono… quindi forse le immagini, la memoria c’è —, ma io credo che non fanno immagini come quelle della specie umana.
Ne sparo una grossa? Così l’interessata ci farà una tesi. Forse hanno solo la memoria cosciente, per cui riconoscono l’antilope rispetto all’elefante: un’immagine che è memoria cosciente, un’immagine come quando vi ricordate la macchina che avete, quando vi ricordate casa, quando vi ricordate la mamma, il babbo e l’amante. È una memoria cosciente, non hanno la memoria inconscia. La caratteristica della specie umana è di avere un inconscio, che non è idee innate, non è il Male, no, non è la perversione originaria, non è la cattiveria originaria, come diceva Platone e poi… la Bibbia: tutti siamo discendenti da Caino il cattivo, perché il povero Abele che era buono è stato ammazzato: favolette, non c’entrano, chiaro. Ha una memoria inconscia perché evidentemente, quando inizia questo stimolo, la reazione sarà in un certo modo per cui indubbiamente è diversa da quella animale. E allora fa immagini che sono diverse, quelle immagini che poi si trovano, quando farete gli psicoterapeuti, nei sogni, che non sono la riproduzione dell’oggetto percepito, come si ha nella memoria cosciente. Se voi pensate alla vostra macchina, ve la ricordate com’è, se invece sognate, vi ricordate una Jaguar, cioè è un linguaggio. Inizia un pensiero umano che poi diventerà linguaggio articolato. Il linguaggio articolato non viene dallo spirito santo, dalla Pentecoste, viene perché alla nascita c’è un’immagine interna diversa da quella degli animali, perché gli animali possono avere immagini, ma non diventano mai linguaggio articolato e pensiero. Ecco che torna: negli animali c’è la mente, ma non il pensiero. La specie umana ha una mente che però poi diventa pensiero, o deve diventare pensiero. Può essere abbastanza interessante. Perché? Ma perché forse una matrice, un elemento, un fattore della malattia mentale è che i malati non riescono a raggiungere il livello di fare il pensiero. Come se le immagini fossero al livello non umano, ovviamente non perché sono animali, ma per malattia, magari hanno soltanto la memoria cosciente e non riescono a fare quelle immagini oniriche che poi, doverosamente, uno psicoterapeuta deve saper interpretare.

Probabilmente parlando di “animali”, Fagioli intende i mammiferi; è difficile credere che le specie animali – dai molluschi agli aracnidi agli insetti ai rettili agli uccelli ecc. – abbiano tutte la stessa percezione e concezione del mondo; dispongono di sistemi nervosi assai diversi (le meduse ad esempio non ne hanno affatto, eppure sono formidabili cacciatrici), e sono diverse le modalità con cui vengono al mondo. La differenza per così dire grammaticale tra “mente” e “pensiero” può essere fuorviante giacché “mente” è un sostantivo che dà l’idea di una realtà stabile e forse persino statica (un po’ come “anima” e “spirito”), mentre “pensiero”, pur essendo anch’esso un sostantivo, sottintende un soggetto pensante e un pensato, indica dunque un’attività, non esiste “pensiero” se non c’è un qualcosa di pensato (e corrispondentemente qualcuno che lo pensa), è dunque l’equivalente di un verbo, “pensare”. Il nesso tra pensiero (magari “inconscio”) e “pensiero verbale” indubbiamente esiste, ma non è automatico né immediato, dato che (al genere ‹Homo›, o almeno alla specie detta ‹Homo sapiens›) ci sono volute centinaia di migliaia di anni per svilupparlo, e al bambino moderno occorre qualche anno per arrivarci. Inoltre il regno del “pensiero inconscio” è la notte, il sonno, mentre il pensiero verbale si ha solo di giorno, cioè in stato di veglia.

NOTA 1: “mente” è una di quelle parole che non esistono in tutte le lingue, ad esempio il francese ricorre a ‹esprit› (spirito)… e il tedesco? La situazione è complessa e contorta, esiste ‹der Gedanke› (pensiero, dal verbo ‹denken›, pensare), ma “mente” è ‹der Geist› (spirito), oppure ‹die Gedanken› (plurale di ‹Gedanke›, e dunque “pensieri”); per cui non sembrano esistere 2 aree semantiche ben differenziate.

NOTA 2: abbastanza illogicamente, il francese ha invece conservato il suffisso -‹ment› per formare avverbi da aggettivi, ad es. ‹hautement› da ‹haut› (XI sec.), ‹largement› da ‹large› (XII sec.), ecc. Si trovano, d’altronde, l’aggettivo ‹mental›, il sostantivo astratto – da questo derivato – ‹mentalité›, e persino l’avverbio ‹mentalement›!


Curiosità linguistiche a parte, sembra ovvio che tanto gli “animali” (in senso fagioliano) quanto i malati di mente, la notte, dormano; e dormendo qualche forma di pensiero – si chiami, con Fagioli, “mente”, oppure immagini – debbano pur averla, altrimenti sarebbero morti (stiamo seguendo le argomentazioni dello stesso Fagioli); la differenza – non solo tra animale e umano, ma anche tra malato e sano – dev’essere allora nella “qualità” di queste immagini; ci si pone allora il problema di comprendere se la parola chiave sia “deformazione” (dall’utilitaria alla Jaguar, in un attacco onirico di megalomania), “trasformazione” (il cavallo come simbolo di vigore fisico, o di vitalità), oppure “creatività” (un’immagine inventata per rappresentare qualcosa d’altro, magari di non percepibile).

Una ulteriore considerazione potrebbe essere il diverso rapporto col tempo: l’animale non può comunicare qualcosa relativo al passato o al futuro – e forse non ne ha neppure l’esigenza – ma soltanto qualcosa che riguarda la situazione presente; oltre a non fare sculture e a non suonare la chitarra, non può neppure invitare a cena né raccontare il sogno fatto la notte prima. Perché l’essere umano ha invece questa insopprimibile necessità e ha inventato, per poterla soddisfare, il linguaggio articolato? Potremmo ipotizzare che soltanto l’essere umano ha questa esigenza di rendere l’altro uguale a sé o di rendersi uguale all’altro, e questo è legato al concetto di “investimento” ovvero, in definitiva, alla “pulsione”, che sarebbe dunque all’origine della specifica socialità umana.

Il sommario del volume di Massimo Fagioli è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯