martedì 30 giugno 2020

Della Pergola, i Ṛgveda, il culto di Zeus e i guasti prodotti dal logos

Nel saggio di Fabio Della Pergola, ‹Dall’impuro al peccaminoso› (Licosia Edizioni, 2018), ci ha colpito anche un passo del 5° capitolo, intitolato ‹L’intolleranza del monoteismo›. Dopo aver criticato il concetto stesso di “tolleranza” – di cui “intolleranza” costituisce evidentemente la negazione, o l’opposto – e aver comunque evidenziato il diverso grado di “violenza” insito nell’intolleranza che caratterizza i monoteismi rispetto ai politeismi che li avevano preceduti, a p. 130 l’autore scrive:
È d’obbligo ricordare anche come “intolleranza” sia un termine che non è utilizzabile solo nel confronto con altri (popoli, religioni, culture) ma anche all’interno della propria tradizione. In questo caso non si può dimenticare la violenza di una cultura decisamente politeista come quella induista, in cui però la suddivisione in caste, in cui vige anche una rigida endogamia sociale, rivela una intolleranza interna tanto implacabile quanto persistente [293]. Secondo la tradizione induista derivante dai Ṛgveda, le categorie sociali emergono da un essere primordiale divinizzato, ‹Puruṣa[294], ma da parti diverse del suo corpo: dalla bocca la casta ‹Brāhmaṇa›, sacerdoti e insegnanti; dalle braccia la ‹Kṣatriya› dei re, nobili e guerrieri; dalle cosce la ‹Vaiśya›, commercianti e artigiani; dai piedi, la ‹Śūdra›, casta dei servi. Poi ci sono gli ‹achuta›, gli intoccabili (‹paria› o ‹dalit›), che costituiscono una categoria a sé perché l’essere primordiale non ne rivendicò la paternità: secondo un testo più tardo, il codice legislativo di Manu, essi derivano dalla polvere che copriva i piedi di Brahma. Sono, potremmo dire, privi di “immagine divina” non essendo stati generati da parti corporee della divinità.

Riportiamo qui di séguito anche le note, che precisano riferimenti cronologici alle fonti e accennano agli attuali tentativi di superamento di una atavica condizione di discriminazione, evidentemente non più sentita come accettabile:

[293]. Attualmente in India vige una legge contro la classificazione in caste e la discriminazione dei fuoricasta. Ma la tradizionale ostilità sociale verso gli intoccabili (circa 160 milioni di persone) è tuttora diffusa.

[294]. Inno ‹Puruṣasukta› che si suppone composto tra la fine del secondo e l’inizio del primo millennio a.C.


In verità, a noi sembra che l’impiego del termine “intolleranza” sia, in questo caso, almeno discutibile; esistono infatti termini più specifici, come “discriminazione” – l’“apartheid” di sudafricana memoria (rimasto in vigore fino al 1991) – o il più generale “segregazione”, che sia su base razziale – o “etnica” che dir si voglia – e/o sociale, come appunto si verifica nella divisione della società in caste, tuttora praticata in India. Non si dovrebbe dimenticare neppure la discriminazione di genere, attiva e apparentemente ineliminabile persino nella maggior parte delle società che si ritengono attualmente più “progredite”.

Come testimoniano tragicamente anche recenti fatti di cronaca, si tratta di fenomeni ampiamente diffusi (anche tra noi e oggi, non solo altrove e nel passato), comunque fondati sulla sostanziale negazione del concetto di uguaglianza originaria tra tutti gli esseri umani, i quali sarebbero invece – si sostiene – “per natura” diversi. È chiaro che siccome “intolleranza” compare nel titolo del capitolo, l’autore “forza” il concetto per farvi rientrare diversi tipi di discriminazione, forse anche con l’intento di rendere meno rigida l’associazione con l’altro termine del titolo: “monoteismo”.

Superato questo iniziale inciampo, però, ci è sembrata piuttosto curiosa l’analogia tra questa «tradizione induista derivante dai Ṛgveda» e il notissimo “apologo di Menenio Agrippa”, narrato da Tito Livio nel II libro della sua Storia di Roma ‹Ab Urbe condita› (si veda ad esempio su wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Apologo_di_Menenio_Agrippa), apologo nel quale le due classi dei patrizi e dei plebei venivano equiparate a stomaco e braccia di uno stesso corpo. Che Menenio Agrippa, o Tito Livio, o entrambi, avessero letto i Ṛgveda?




Secondo indagini filologiche e linguistiche, la composizione dei Ṛgveda sarebbe avvenuta nella zona a nordest del subcontinente indiano (Punjab) tra il 1700 e il 1100 a.e.v. (si veda ad esempio la sezione introduttiva della pagina di wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Rigveda, mentre la pagina corrispondente in italiano riferisce dati cronologici leggermente diversi, per quanto sempre compresi nel II millennio a.e.v.).

Ma la pagina di wikipedia in italiano menzionata qui sopra di sfuggita a proposito dell’epoca di composizione dei Ṛgveda (https://it.wikipedia.org/wiki/Ṛgveda_Saṃhitā) riporta, alla fine della sezione “Generalità”, il passo seguente:
Il ‹Ṛgveda› descrive un sistema di credenze basato su riti sacrificali trasmesso oralmente per secoli secondo una linea denominata ‹śākhā›.
Oltre ai culti sacrificali, il ‹Ṛgveda› contiene molti altri elementi della religiosità indoeuropea. Le divinità principali in questi inni sono Indra, Agni e Soma, mentre l’antico dio del cielo (Dyaus, corrispondente al dio greco Zeus e a quello romano Iupiter) non ha lo stesso rilievo che presenta nel pantheon greco o romano.

I due capoversi sono troppo ghiotti per non essere qui citati per esteso; fin dai tempi in cui si studiava greco antico al liceo ci eravamo chiesti, increduli, come mai il nominativo ‹Zeus› (Ζεύς) potesse fare al genitivo ‹Dios› (Διός), radice – apparentemente secondaria – che sembra però aver originato il moderno “dio”, mentre il greco ‹theos› (θεός) avrebbe prodotto una sfilza di vocaboli composti e sofisticati, come “teologia”, “teogonia”, “teosofia” ecc. e persino nomi propri di persona come “Teodoro” o “Timoteo”, e tuttavia sembra da “dio” piuttosto lontano – le parole provenienti da ‹theos› hanno infatti mantenuto in altre lingue la ‘h’ dopo la ‘t’, residuo dell’aspirazione del ‹theta› greco (θ), che in italiano si è persa. Dopo decenni, in modo del tutto casuale e inatteso, troviamo nei Ṛgveda la risposta all’enigma!

Questa “rivelazione” – sia detto per inciso – rende meno peregrina la nostra ipotesi (scherzosamente espressa) “che Menenio Agrippa, o Tito Livio, o entrambi, avessero letto i Ṛgveda”. Deve essere esistita già in tempi antichissimi una sostanziale permeabilità delle culture alla diffusione di favole, miti e credenze, e una loro reciproca influenza su estensioni che andavano almeno dall’India orientale al Mediterraneo; diffusione oscurata e mascherata dall’esaltazione della cultura greca (e del λόγος) quale momento di radicale innovazione del pensiero, che avrebbe dato luogo, praticamente da solo – pur con qualche non trascurabile contributo ebraico – alla cultura occidentale.

NOTA: sulle origini non propriamente greche del culto di Zeus, suggeriamo di consultare anche la sezione “Etimologia ed elementi del culto” nella pagina di wikipedia dedicata a quel dio (https://it.wikipedia.org/wiki/Zeus).


Il sommario del saggio di F. Della Pergola è consultabile qui.

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domenica 15 marzo 2020

Heidegger, Hamann, il reale e l’irrazionale

In una conferenza tenuta da Martin Heidegger il 7 dicembre 1950 a Bühlerhöhe e ripetuta il 14 febbraio 1951, a Stoccarda, nella sede della «Württembergische Bibliothekgesellschaft», il cui testo costituisce il primo capitolo del saggio ‹In cammino verso il Linguaggio› (1959, trad. it. Mursia 1973-1990), il filosofo tenta una sua interpretazione del linguaggio (il capitolo, così come la conferenza, è intitolato appunto semplicemente ‹Il linguaggio›) a partire dall’interpretazione filosofica di un breve quanto enigmatico componimento del poeta tedesco Georg Trakl. Nella parte introduttiva, prima di esporre la poesia di Trakl di cui intende trattare, Heidegger riporta alcune teorie correnti sul linguaggio, dalle quali intende peraltro discostarsi; in particolare, alle pagine 28-29 possiamo leggere:
Il 10 agosto del 1784 Hamann scriveva a Herder: «Fossi anche eloquente quanto Demostene, non potrei far altro che ripetere tre volte una sola e unica parola: la ragione è linguaggio, λόγος. Quest’osso io vado rodendo e continuerò ostinatamente a rodere. Ma resta pur sempre buio sopra questa profondità per me, sì che io rimango sempre in attesa di un angelo apocalittico con la chiave di questo abisso» (Hamanns ‹Schriften›. Ed. Roth VII, pp. 151-2).
Per Hamann questo abisso consiste nel fatto che la ragione è linguaggio. Hamann si rifà al linguaggio nel tentativo di dire che cosa sia la ragione. Volgendosi alla ragione, lo sguardo cade nella profondità di un abisso. Consiste, questo, solo nel fatto che la ragione ha il suo fondamento nel linguaggio o è proprio il linguaggio stesso l’abisso? Parliamo di abisso, quando, verificandosi il distacco da una base di appoggio e venendoci meno un punto di appoggio, ne andiamo ricercando uno su cui riporre piede. Noi però ora non ci chiediamo che cosa sia la ragione, bensì riflettiamo subito sul linguaggio, prendendo come cenno conduttore la strana affermazione: il linguaggio è linguaggio. Tale affermazione non ci porta a un fondamento del linguaggio estrinseco al linguaggio, e nulla ci dice riguardo al problema se il linguaggio sia per caso il fondamento di altro da sé. L’affermazione «il linguaggio è il linguaggio» ci lascia sospesi sopra un abisso, finché noi reggiamo a intenderne il senso.
Il linguaggio è il linguaggio. Il linguaggio parla. Se ci lasciamo cadere nell’abisso evocato da questa affermazione, non precipitiamo nel vuoto. Cadiamo in un’altezza, la cui altitudine apre una profondità. L’una e l’altra costituiscono lo spazio e la sostanza di un luogo nel quale vorremmo farci di casa per trovare una dimora per l’essenza dell’uomo.
Riflettere sul linguaggio significa pervenire al parlare del linguaggio in modo che questo parlare avvenga come ciò in cui all’essere dei mortali è dato ritrovare la propria dimora.
Che significa parlare? L’opinione corrente risponde, sicura, in proposito: il parlare è l’attività degli organi della fonazione e dell’udito. Parlare significa esprimere fonicamente e comunicare moti dell’animo umano. Questi sono guidati da pensieri. In base a tale definizione del linguaggio tre cose si danno per certe: in primo luogo, e innanzitutto, il parlare è un esprimere. L’idea del linguaggio come espressione è la più corrente. Essa presuppone l’idea di un’interiorità che si estrinseca. Considerare il linguaggio come espressione significa vederlo nella sua esteriorità, e ciò proprio nell’atto che si spiega l’espressione con il rimando a un’interiorità.
In secondo luogo, il linguaggio è considerato come un’attività dell’uomo. Consequenzialmente a tale principio dobbiamo dire: l’uomo parla, e parla sempre una lingua determinata. Non possiamo pertanto dire: il linguaggio parla; perché ciò tanto varrebbe quanto affermare: è il linguaggio che fa essere l’uomo. Pensato così, l’uomo sarebbe una promessa del linguaggio.
Da ultimo, l’esprimere attuato dall’uomo consiste nel dare presenza e figura al reale e all’irreale.

«Parlare significa esprimere fonicamente e comunicare moti dell’animo umano»: questa sarebbe in sostanza l’impostazione di Aristotele (‹De interpretatione›), ma tale concezione svaluta il necessariamente complementare aspetto recettivo del linguaggio, giacché non avrebbe alcun senso parlare (esprimere), se l’altro (l’ascoltatore) non intendesse quanto detto. Parlando, ci attendiamo sempre che l’interlocutore ci dia un segno di aver inteso e compreso quanto abbiamo espresso; l’assenza di tale attesa (il circuito della ‹parole› del de Saussure) è un potenziale indice di patologia, “parlare da soli”.




NOTA: ci si potrebbe allora chiedere: perché mai invece lo scrivere – che richiede in genere una situazione quantomeno materiale di solitudine – non è patologia?


«[…] l’esprimere attuato dall’uomo consiste nel dare presenza e figura al reale e all’irreale»: ma cosa intende Heidegger per “reale” e per “irreale”? Sulla scorta di quanto affermato da Hamann, “reale” sarebbe solo quanto corrisponde a una realtà materiale percepibile dai sensi fisici, ossia, hegelianamente, la ragione che ha rapporto esclusivamente con i fatti materiali (il reale è razionale); “irreale” sarebbe, di conseguenza, quanto esula da un tale rapporto diretto: la fantasia, il sogno, il mito ecc. Hamann afferma però che la ragione è linguaggio, e forse l’abisso in cui teme di cadere significa che si rende conto che non vale l’inverso, non tutto il linguaggio è ragione.

Heidegger, per contro, non teme di gettarsi nell’abisso, ma confida nelle ali fornitegli da qualcosa di ultraterreno: il suo “linguaggio” – ‹die Sprache› – di origine non umana, sarebbe infatti un manifestarsi del misterioso “essere”. Questo è probabilmente quanto lo spinge a tentare un’interpretazione filosofica della poesia (scegliendo però, non a caso, quella di Trakl, intrisa com’è di sfumature religiose).

NOTA: raccontare e interpretare un sogno sarebbe dunque per Heidegger “dare presenza e figura all’irreale”, ed in effetti potremmo convenire che raccontare e interpretare un sogno significa rendere percepibile (tramite la parola) ciò che di per sé non sarebbe percepibile, tuttavia non possiamo accettare l’equazione non percepibile = irreale, altrimenti anche le onde radio, o i virus, per fare solo due esempi, sarebbero “irreali”; il pensiero è – in generale – “realtà” (per quanto “realtà non materiale”, come la definisce Fagioli nei suoi scritti); ma allora cos’è “irreale”? Si potrebbe ipotizzare che “irreale” sia il pensiero falso, la bugia, la negazione? Però la malattia, non solo quella fisica, ma anche quella psichica, è ben “reale”, allora il compito del terapeuta sarebbe rendere “irreale” (ovvero passato, non più presente) il pensiero “falso”, cioè “malato”?

Si potrebbe forse anche rovesciare l’assunto iniziale di Hamann – condiviso, in fondo, anche da Heidegger, per quanto tenti di superarlo – e proporre che il pensiero “reale” non è affatto quello razionale che si limita a rispecchiare la realtà materiale (è un pensiero monco, per non dire una negazione della realtà umana, una falsità); il pensiero autenticamente “umano” (e quindi “reale”) è al contrario proprio quello fantasioso, trasformativo, creativo.


Il sommario del volume di Martin Heidegger può essere consultato qui.

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martedì 10 marzo 2020

Eva Cantarella, Pandora, l’Eva biblica e il peccato originale

Nel suo saggio ‹L’amore è un dio› (Feltrinelli 2007), Eva Cantarella tratta delle varie concezioni dell’amore presso gli antichi greci. All’inizio dell’undicesimo capitolo, intitolato ‹Sprazzi di misoginia›, alle pp. 133-135, così riassume il mito di Pandora, da lei definita “la prima donna, l’Eva greca”:
Di Pandora Esiodo parla sia nella ‹Teogonia› sia ne ‹Le opere e i giorni›. Chi era esattamente Pandora? Come, quando, perché giunse sulla terra? Cominciamo dal perché: per cambiare la vita dell’umanità, rendendola per sempre infelice. Un tempo, infatti, gli uomini vivevano senza guai, senza malattie, senza problemi. Ma un giorno Prometeo rubò il fuoco agli dèi e lo diede agli esseri umani: grazie a lui, la stirpe dei mortali possedeva lo strumento che le avrebbe consentito di intraprendere la strada del progresso, accorciando la distanza che la separava dagli immortali.
Prometeo meritava una punizione, e Zeus gliela inflisse. Nella ‹Teogonia›, legato a una colonna, egli viene tormentato da un avvoltoio che ogni giorno gli mangia il fegato; e poiché ogni notte il fegato ricresce, il suo supplizio non ha mai fine. Nel ‹Prometeo incatenato› di Eschilo (o comunque a questi attribuito), per ordine di Zeus egli viene condotto da Kratos e Bie (“Forza” e “Violenza”) ai confini del mondo, per essere incatenato a una roccia, immobilizzato con catene di ferro che lo serrano ai piedi, alle caviglie, alle ginocchia, ai fianchi, alle braccia; e in questa incomoda posizione viene abbandonato a una sofferenza eterna.
Ma la punizione di Prometeo non era sufficiente, bisognava che non solo lui, personalmente, ma l’intero genere umano, soffrisse. Ed ecco Zeus all’opera con la collaborazione degli altri dèi per costruire un essere dotato di tutte le caratteristiche adatte allo scopo: Pandora (da ‹pan›, “tutto” e ‹doron›, “dono”).
Fatta di terra e acqua, Pandora è costruita da Efesto “simile” a una casta vergine; Afrodite le regala grazia, capacità di sedurre (‹charis›), “desiderio struggente”, “affanni che fiaccano le membra”; Ermes le dona “mente sfrontata”, “indole ambigua”, “menzogne” e “discorsi ingannatori”. Nessuna sorpresa se questo “male così bello” è un “terribile flagello”, “una trappola alla quale non si sfugge”. Quando giunge fra gli uomini, questi imparano a conoscere l’infelicità, che resterà in eterno con loro. Pandora è, in sé, per la sua stessa natura, un male dalle conseguenze funeste: da lei nasce “il genere maledetto”, “le tribù delle donne”.
Ma non è tutto: nelle ‹Opere e i giorni› Esiodo ci racconta anche un’altra storia.
Pandora, egli dice, fu mandata da Zeus nella casa di Epimeteo, il fratello di Prometeo. A differenza di questi, che prevedeva (questo è il significato del suo nome), Epimeteo vedeva dopo, capiva in ritardo: nonostante Prometeo lo avesse avvertito di non accettare doni da Zeus, accoglie Pandora e sedotto dalla sua bellezza la sposa: e qui cominciano i guai.
Nella casa di Epimeteo c’è un vaso dal contenuto misterioso. Dono di Zeus a Pandora, il vaso — ermeticamente chiuso — non deve essere aperto per nessuna ragione. Inutile a dirsi, Pandora, non resistendo alla curiosità, lo scoperchia, facendone uscire quello che vi è contenuto: tutte le calamità del mondo. Atterrita, la donna lo richiude precipitosamente. Ma è troppo tardi, i mali sono già volati via, disperdendosi fra gli uomini, ovunque essi abitino. Sul fondo rimane solo Elpis, la speranza. Dopo l’intervento di Pandora, è tutto quel che resta all’umanità.

La proibizione – “il vaso - ermeticamente chiuso - non deve essere aperto per nessuna ragione” – nel racconto ha implicitamente la sua origine nello stesso Zeus, e richiama alla mente quella che nella Bibbia viene presentata come occasione del peccato originale: il “frutto proibito”. Pandora non si limiterebbe dunque ad essere, come afferma la Cantarella, in quanto prima donna, l’Eva greca, ma lo stesso mito greco sarebbe una versione parallela (e a dire il vero un po’ più stuzzicante) della storia di Adamo ed Eva.

A questo punto, dato che Esiodo visse nel VII sec. a.e.v., potrebbe essere interessante stabilire una cronologia: potrebbe anche darsi che dobbiamo considerare Eva come “la Pandora ebraica”, anziché l’inverso; oppure le due storie – dato che non risultano contatti diretti tra Esiodo e gli ebrei – potrebbero aver avuto una comune origine in una qualche “terza” tradizione mitologica, ancor più antica. Lo stesso epiteto di Eva quale “madre di tutti i viventi” (Genesi 3,20) tradirebbe secondo diversi studiosi la sua discendenza da un’antichissima divinità generatrice, addirittura madre di tutti gli dèi (i “viventi”, cioè i “non mortali”): Belet-ili, “Signora degli dei”, era detta una divinità mesopotamica originaria. Sarebbero poi stati gli estensori del testo biblico, nell’intento di ridimensionare il ruolo femminile – Yahweh, per quanto se ne sappia, è un dio maschio – a rovesciare l’antico mito, non solo facendo di Eva una creatura, ma attribuendole persino l’origine di tutti i mali sulla terra. Però non furono gli unici, come dimostra il mito greco di Pandora.

È inoltre interessante constatare come la distribuzione delle responsabilità sia alquanto differente nelle 2 versioni: in quella greca la “colpa” non sarebbe né degli uomini né delle donne, bensì solo di Prometeo – una sorta di proto-Cristo? – mentre la donna (Pandora) sarebbe solo lo strumento della punizione (premeditata) da parte di Zeus (complici gli altri dèi dell’Olimpo); in quella biblica non è dio (Yahweh) che tende un tranello ad Adamo ed Eva; la proibizione non si sa bene quale motivo abbia, ed è il diavolo (il serpente, che però secondo alcuni sarebbe il “lato oscuro” di dio) a ingannare Eva per prima e, per suo tramite, anche Adamo; poi però è dio a punire Adamo ed Eva (ma la seconda più del primo) cacciando entrambi dal paradiso terrestre. In questo caso la disobbedienza è “causa” della punizione, mentre nel caso greco essa era un semplice “strumento” dell’astuzia divina, il “mezzo” per realizzare una sanzione che era già stata decisa.

Potremmo anche spingerci oltre, e considerare che il contenitore sigillato da non aprire assolutamente è un elemento in comune con la 4ª prova di Psiche, nella celebre favola di Apuleio; anche in quel caso alla giovane viene raccomandato di consegnare la scatola della bellezza senza aprirla… e sappiamo come va a finire, ma è solo Psiche a subirne le conseguenze, ed è Amore (Eros, il dio alato) che deve accorrere a salvarla dal sonno mortale con il bacio rivitalizzante rappresentato in forme tanto splendide dal Canova.




Con l’occasione, ci si potrebbe anche chiedere come mai in un volume che tratta dell’amore al tempo degli antichi greci non si trovi neppure un accenno alla favola di Amore e Psiche. È vero che Apuleio, che ce l’ha tramandata, era uno scrittore “latino” (del II sec. e.v. e di origini berbere), tuttavia il nome della protagonista, Psiche, tradisce senza possibilità di equivoco la provenienza greca del mito.

Che poi la favola possa avere origini ancor più remote, non ci pare affatto sia da escludere…


Il sommario del volume di Eva Cantarella è consultabile qui.

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giovedì 5 marzo 2020

Heidegger, l’uomo, la lingua e il linguaggio

Il primo capitolo del saggio di Martin Heidegger, ‹In cammino verso il Linguaggio› (1959, trad. it. Mursia 1973-1990) è intitolato semplicemente ‹Il linguaggio›; il testo è tratto – secondo quanto afferma l’autore nella ‹Nota al testo› posta al termine del volume stesso – da una conferenza tenuta il 7 dicembre 1950 a Bühlerhöhe e ripetuta il 14 febbraio 1951, a Stoccarda, nella sede della «Württembergische Bibliothekgesellschaft». Nel capoverso introduttivo (a p. 27 del volume), che appare staccato dal testo principale e potrebbe esservi stato aggiunto per la pubblicazione, possiamo leggere alcune affermazioni – divenute ormai celebri – sul linguaggio:
L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente. Parliamo, perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà. Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l’uomo, a differenza della pianta e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola. Dicendo questo, non s’intende affermare soltanto che l’uomo possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del parlare. S’intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla. È la lezione di Wilhelm von Humboldt. Resta però da riflettere che cosa significhi: l’uomo.

Dobbiamo innanzitutto rilevare che il tedesco sembra non distinguere, usando in entrambi i casi ‹die Sprache›, tra “linguaggio” e “lingua” – quest’ultima con evidente riferimento alla lingua parlata, perché come parte del corpo si dice invece ‹die Zunge›, e d’altra parte ‹die Sprache› è evidentemente legato al verbo ‹sprechen›, parlare; il titolo tedesco del volume è infatti ‹Unterwegs zur Sprache›, in cui ‹Sprache› è tradotto, per i motivi illustrati nella premessa di Alberto Caracciolo, come “Linguaggio” con la elle maiuscola.

«L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola…», però Heidegger dimentica – come fa del resto una buona parte dei filosofi – che l’essere umano non parla appena nato, deve svilupparsi e, crescendo, imparare una lingua; dunque, per un anno o più – dobbiamo dedurne – o non pensa, oppure, se pensa, lo fa senza parole. A meno che per “parlare” H. non intenda qualcosa di diverso da ciò che s’intende di norma, e in effetti “parliamo nella veglia e nel sonno” lascerebbe intendere che anche i sogni siano un “parlare”.

Ma i commentatori ci dicono che l’iniziale di “Linguaggio” è maiuscola perché non si tratterebbe di una creazione dell’essere umano; al contrario, sarebbe l’essere umano ad esistere ‹perché› esiste il linguaggio, e ci torna in mente quel λόγος che, secondo l’evangelista Giovanni, era “presso Dio”: «In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio…». Il pensiero verbale, linguaggio di origine divina, esisterebbe da prima della creazione del mondo e dell’uomo, e renderebbe quest’ultimo, fra tutte le creature, quella più vicina al suo creatore.

Al testo di Heidegger fa riferimento – ma con ben altra impostazione di pensiero – Massimo Fagioli nel suo articolo ‹In cammino / verso la verità umana›, pubblicato sul settimanale “Left” (n. 10) del 21 marzo 2015:
[…] Sento lo stridore di due penne di ferro freddo che si incrociano come due spade: ‹In cammino verso il linguaggio› e ‹Ritorno al prerazionale›. Vedo di nuovo le nuvole grigio scurissimo e il vento che le spinge contro la mente umana con l’arma che fa impazzire. Il “non è” si forgia come acciaio incorruttibile nell’essere cattolico per essere nazista. La mano scompare, resa niente dal forno crematorio che rende il linguaggio esistente per l’inesistenza della realtà materiale del corpo. E la parola, privata dal rapporto interumano e la sua storia, diventa creazione mostruosa di un non essere, non riuscendo neppure ad essere preumana o animale. E dissi che nel forno crematorio, che aveva l’idea di realizzare l’essere con la non esistenza del corpo dell’altro, c’era la creatività che non può mai esistere, ovvero l’oltre la creatività del dio che aveva creato la materia ovvero l’esistenza dell’universo. Creare il nulla che è esistito soltanto nella mente umana che, perdendo la vitalità, trasforma la nascita e l’essere umano diverso dall’animale in un senza corpo, per essere soltanto anaffettività e pulsione di annullamento.
La scoperta dell’esistenza dei ‹Quaderni neri› fu una tempesta che nell’anno trascorso divenne bufera e, con l’anno nuovo, uragano. Dopo i primi quaderni in cui si discusse sulla verità del nazismo di Heidegger con l’ipotesi di opportunismo, o stupidità per non aver capito la tragedia politica che stava accadendo, si lesse un antisemitismo delirante e feroce fin dal 1916, quando era fervente cattolico ed il fascismo ed il nazismo non esistevano. Torna la memoria di quando, sempre, mi chiedevo: gli ebrei sono uguali agli europei, perché la persecuzione che aveva l’idea della loro eliminazione? Sembra impossibile comprendere.

Ritorno / al prerazionale› è il titolo dell’articolo di Fagioli pubblicato la settimana precedente, sul n. 9 di “Left”, del 14 marzo 2015.

Entrambi gli articoli di Fagioli sono stati ripubblicati in ‹Left 2015›, L’Asino d’oro 2018.

Il sommario del volume di Martin Heidegger può essere consultato qui.

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domenica 23 febbraio 2020

Caracciolo, l’Essere di Heidegger e il dio del monoteismo

Un passo della ‹Presentazione› di Alberto Caracciolo, posta all’inizio del volume di Martin Heidegger, ‹In cammino verso il Linguaggio› (1959, trad. it. Mursia 1973-1990), chiarisce assai bene il rapporto tra il concetto heideggeriano dell’Essere e quello filosofico-religioso di Dio, tipico del monoteismo e della tradizione greco-ebraico-cristiana in particolare. Alle pp. 10-12, Caracciolo riporta dapprima una serie di affermazioni tratte da varie opere di Heidegger; procede quindi nel cpv. successivo a darne una coerente interpretazione:
«Ma l’Essere — che è dunque l’Essere? È se stesso. Questo il pensiero a venire deve imparare a esperire e a dire. L’Essere non è Dio e non è un fondamento del mondo. L’Essere è più lontano di ogni essente ed è, tuttavia, più vicino all’uomo di ogni essente, sia questo una roccia, un animale, un’opera d’arte, una macchina, sia un angelo o Dio. L’Essere è ciò che è più vicino. E tuttavia la vicinanza rimane per l’uomo lontanissima» [13]. Ma, poiché questo ‹Sein›, che non è Dio, evidentemente richiama cose delle quali pur eravamo abituati a sentir ragionare in collegamento con quel nome, cerchiamo di raccogliere qualche altro dato sul rapporto tra ‹Sein› e ‹Gott›. «Solo in questa vicinanza [𝑠𝑐. dell’Essere] può accadere si compia la decisione se Dio e gli Dei si neghino [all’uomo] e rimanga la notte, se e come albeggi il giorno del Sacro, se e come con il sorgere del Sacro possano riapparire Dio e gli Dei. Ma il Sacro che per sé è soltanto lo spazio del Divino, il quale per sé è a sua volta solo la dimensione per gli Dei e per Dio — il Sacro appare solo quando prima e in lunga preparazione l’Essere stesso è venuto a tralucere ed è esperito nella sua verità» [14]. «Con la determinazione esistenziale dell’essenza dell’uomo nulla è ancora deciso sull’“esistenza” o sulla “inesistenza” di Dio, come pure sulla possibilità o impossibilità di Dei. È pertanto non solo affrettato, ma già in partenza erroneo l’affermare che l’interpretazione dell’essenza dell’uomo sulla base del rapporto di questa essenza con la verità dell’Essere sia ateismo…» [15]. E a proposito del Dio della filosofia (o della metafisica), del Dio come ‹Causa sui›: «Questa è la causa come ‹Causa sui›. Così suona il termine esatto di Dio nella filosofia. Di fronte a questo Dio l’uomo non può pregare, né può offrire sacrifici. Dinanzi alla ‹Causa sui› l’uomo non può cadere sgomento in ginocchio, né può, di fronte a un simile Dio, ‹musizieren und tanzen›. Per conseguenza il pensare senza Dio, il pensare che si trova nella necessità di abbandonare il Dio della filosofia, il Dio come ‹Causa sui›, è forse più vicino al Dio veramente divino. Questo significa qui soltanto: quel pensiero è più libero per il Dio vero di quanto vorrebbe ammettere la onto-teologia» [16].
I passi riportati consentono alcune precisazioni [17]. Innanzitutto la conferma del carattere religioso dell’Essere heideggeriano: se l’Essere si pone in contrasto soprattutto col «Dio dei filosofi» (il Dio ente realissimo, il Dio Causa, il Dio Valore supremo) ma anche col Dio delle religioni (il Dio Tu, della preghiera), ciò accade non perché i problemi esistentivi e filosofici connessi con quel Dio non abbiano senso, ma perché il respiro, l’orizzonte, il modo di porsi e di risolversi di quei problemi si sono rivelati ristretti e inadeguati. Se l’Essere non è il Creatore e Signore del mondo, se non è il Legislatore o il Giudice morale, se non è il Dio che assicura l’immortalità, se non è il Tu cui l’uomo può rivolgere una preghiera «formulata», ciò accade non perché il religioso sia venuto meno nell’uomo, ma proprio perché si è approfondito, e perché — con e per tale approfondimento — si sono rese problematiche la metafisica e l’etica connesse a quelle figure di Dio. È facile intuire il rapporto che esiste tra la crisi del concetto di Dio Causa e la raggiunta coscienza della natura finitizzante e strumentale della ‹Vergegenständlichung›; oppure il rapporto che intercorre tra la crisi del concetto di Dio Legislatore e Giudice e la critica dell’etica nella sua figura tradizionale quale è brevemente ma potentemente abbozzata in ‹SZ› e nello ‹Humanismusbrief›. E come il Dio della preghiera (nel senso corrente del termine) sia diventato anch’esso problematico, risulta pur sufficientemente chiaro, quando si legga con attenzione un passo del ‹Nachwort› a ‹Was ist Metaphysik?[18]. La critica alle ricordate figure di Dio e la critica alla metafisica e all’etica sono dunque tutt’uno: e non sono propriamente una critica «filosofica»: sono, fondamentalmente, le conseguenze, filosoficamente esplicitate, di un approfondimento religioso, che è, sì, di un pensatore, ma di un pensatore in cui confluisce un’amplissima eredità storica. Quanta memoria religiosa e filosofica nella potenza critica che si raccoglie nell’idea del ‹Sein› heideggeriano! Certo, solo chi riesca a realizzare la densità di tale memoria, può rendersi conto come l’idea dell’Essere sia ben altro che una «estenuazione» del concetto di Dio.

Riportiamo qui di séguito anche le note relative al brano; tanto nel testo quanto nelle note, Caracciolo ricorre alle seguenti abbreviazioni:
  • HB› = ‹Über den Humanismus› (‹Humanismusbrief›);
  • ID› = ‹Identität und Differenz›;
  • PLW› = ‹Platons Lehre von der Wahrheit›;
  • SZ› = ‹Sein und Zeit›;
  • WM› = ‹Was ist Metaphysik?›.

[13]. ‹HB› in ‹PLW›, p. 76.

[14]. 𝐼𝑏𝑖𝑑., pp. 85-6.

[15]. 𝐼𝑏𝑖𝑑., p. 101.

[16]. ‹ID›, pp. 70-71.

[17]. Per il problema del rapporto Essere-Dio e per i problemi connessi, particolarmente utile sotto l’aspetto informativo e orientativo: James M. Robinson, ‹Die deutsche Auseinandersetzung mit dem späteren Heidegger›, in ‹Der spätere Heidegger und die Theologie›, Hrsg. von James M. Robinson - J. Cobb Jr., Zürich-Stuttgart, 1964. Cfr. pure: ‹Heidegger und die Theologie. Beginn und Fortgang der Diskussion›. Hrsg. von G. Noller, München, 1967; Helmut Danner, ‹Das Göttliche und der Gott bei Heidegger›, Meisenheim, 1971; W. Weischedel, ‹Der Gott der Philosophen›. 2Bde, Darmstadt 1971-2 (I, pp. 458-495; II, 𝘱𝑎𝑠𝑠𝑖𝑚).

[18]. ‹WM›, p. 50.


La bibliografia riportata nella nota 17 è ormai chiaramente datata, e una grandissima polemica sulle affinità ideologiche tra il filosofo e il nazismo venne sollevata dalla pubblicazione, avvenuta a partire dal 2014, dei suoi ‹Quaderni neri› (‹Schwarze Hefte›); tuttavia non è chiaro come molti intellettuali, anche dichiaratamente di sinistra, possano avere per lungo tempo sottovalutato le radici cristiane delle teorizzazioni heideggeriane.

Volendo andare oltre, si potrebbe anche ipotizzare che il vero fine delle elaborazioni teoriche di Heidegger fosse quello di rafforzare i legami tra il pensiero filosofico occidentale e la tradizione religiosa di matrice greco-ebraico-cristiana, “ipercristianizzare” – potremmo dire – il pensiero occidentale, modificandone il vocabolario e la sintassi in senso velatamente ma profondamente religioso, e superando persino, in tal modo, quanto già perseguito nel corso dei secoli dalle istituzioni religiose ufficiali.

Può risultare allora inquietante, ma anche chiarificatore, considerare che un tale “indirizzo di pensiero” si sia legato storicamente, seppure in modo controverso, all’ideologia e alla pratica politica nazista; potrebbe quantomeno spiegare come mai talune aberrazioni ideologiche siano tuttora presenti e attive, dopo quasi un secolo, nonostante le enormi sofferenze e gli innumerevoli lutti che hanno causato.


Il sommario del volume di Martin Heidegger è consultabile qui.

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martedì 28 gennaio 2020

Ellenberger, la psichiatria dinamica e la cerimonia dello “zar”

Nel primo capitolo della sua notissima opera sulla Storia della psichiatria dinamica, intitolata ‹La scoperta dell’inconscio› (1970; edizione italiana Universale scientifica Boringhieri 1976, 1986), Henri F. Ellenberger passa in rassegna i metodi di terapia e guarigione usati dalla medicina primitiva e nei riti tradizionali, con l’intento di mostrare come da essi si sia sviluppata gradualmente la moderna psicoterapia; fra gli altri esempi, riporta la descrizione di una cerimonia, chiamata ‹zar›, tradizionalmente usata in Egitto per lenire – così almeno parrebbe – la cronica insoddisfazione sessuale di donne appartenenti alle “classi sociali più basse”. Alle pp. 29-30 possiamo leggere quanto segue:

Probabilmente l’appagamento di desideri frustrati svolge una funzione decisiva in taluni esorcismi e in altre procedure terapeutiche. Bruno Lewin ha mostrato come l’appagamento per sostituzione di desideri sessuali possa spiegare i successi terapeutici dello ‹zar› egiziano.
La cerimonia dello ‹zar› è eseguita in Egitto, tra le classi sociali più basse, come trattamento per donne nevrotiche e isteriche. È organizzata da una donna, la ‹kudya›, che è aiutata da tre altre donne che cantano, danzano, e suonano il tamburo. La partecipazione è limitata esclusivamente a donne. Dopo alcuni riti la paziente, vestita da sposa, è portata nella stanza della ‹kudya›. Si sacrifica un animale, si brucia dell’incenso, poi la paziente viene svestita e indossa una camicia bianca. Allora la ‹kudya› inizia a danzare come in trance; i suoi movimenti aumentano gradualmente d’intensità finché cade al suolo, esausta. Dopo un poco, la musica riprende, dapprima con tono lento e gentile; la ‹kudya› evoca lo ‹djinn› che si suppone sia il suo amante. Musica e danza ridiventano frenetiche e nella trance la ‹kudya› cede al suo amante immaginario, con movimenti orgiastici, e cade a terra una seconda volta, invitando altri demoni a venire. La paziente si unisce alla ‹kudya› nella danza frenetica e le altre donne si uniscono a loro, finché tutte buttano via le vesti e, nella trance, sono possedute sessualmente dagli ‹djinn›. Lewin afferma che una parte considerevole delle pazienti ottengono effettivamente qualche giovamento da tali cerimonie. Alcune donne ricorrono allo ‹zar› ogni mese. La maggior parte di queste donne sono frigide, sposate infelicemente, e lo ‹zar› fornisce loro l’unica gratificazione sessuale da esse provata [49].
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Dalla data indicata nella nota (riportata qui sotto) si direbbe che la pratica fosse ancora in uso a metà del secolo scorso, e ciò potrebbe suggerire una curiosa analogia con il tarantismo pugliese studiato da Ernesto de Martino:

[49]. B. Lewin, ‹Der Zar, ein ägyptischer Tanz zur Austreibung böser Geister bei Geisteskrankheiten, und seine Beziehungen zu Heiltanzzeremonien anderer Völker und der Tanzwut des Mittelalters›, Confinia psychiat., vol. 1, 177-200 (1958).

Il titolo dell’articolo citato fa riferimento al Medioevo (‹Mittelalter›), ma sarebbe interessante sapere se le origini di questo tipo di “cerimonia” siano antecedenti all’avvento dell’Islam, e se essa sia potuta sopravvivere nei secoli rimanendo inglobata nelle pratiche religiose dominanti, proprio come accadde per il tarantismo nella tradizione cristiana.

NOTA: in effetti, la ‹Tanzwut des Mittelalters› era un’ondata epidemica di ballo compulsivo che imperversò nell’Europa continentale tra il XIV e il XVII sec., nota anche come ‹Chorea› (questo nome le fu dato da Paracelso), “ballo di san Giovanni battista” oppure “di san Vito”; si veda wikipedia in inglese (https://en.wikipedia.org/wiki/Dancing_mania), o anche la pagina in tedesco (https://de.wikipedia.org/wiki/Tanzwut); quest’ultima menziona anche la “Tarantella” pugliese; curiosamente non esiste invece una pagina in italiano dedicata all’argomento.


Come mostrato dal dipinto di Pieter Brueghel il Giovane riportato qui sopra, della musica veniva abitualmente suonata durante le crisi, perché si riteneva potesse attenuarne l’intensità.


Il sommario dell’opera di H.F. Ellenberger è consultabile qui.

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domenica 5 gennaio 2020

De Martino, l’‹atai› dei melanesiani e l’anima occidentale

Nel secondo capitolo del suo saggio ‹Il mondo magico› (ed. Bollati Boringhieri 1997), Ernesto de Martino riporta la descrizione da parte di un certo Codrington (un missionario anglicano che operò per oltre vent’anni in Melanesia) del concetto di ‹atai› presso gli indigeni di Mota, e chiarisce come la pervasiva convinzione che esista un’‹anima›, ormai costitutiva della cultura occidentale, abbia impedito al missionario antropologo di comprendere il vero significato di ‹atai›. Alle pp. 77-79 possiamo leggere quanto segue:
Il tema della presenza personale che rischia di perdersi e che si riscatta da questo rischio può essere assai bene illustrato attraverso l’analisi dell’‹atai› degli indigeni di Mota. «La parola ‹atai›, — scrive Codrington — sembra aver avuto a Mota il senso proprio e originario di designare qualche cosa legata in modo particolare e intimo a una persona, e sacro per essa, ‹qualche cosa che ha colpito la sua immaginazione nel momento in cui è stata percepita›, in guisa che le è apparsa meravigliosa, o che altri le abbiano fatto apparire la cosa come tale. Quale che sia questa cosa, l’uomo ha creduto trattarsi del riflesso (‹reflection›) della propria persona: essa e il suo ‹atai› prosperano, patiscono, vivono e muoiono insieme. Ma non bisogna supporre che la parola presa dapprima in questo senso sia stata presa a prestito, e quindi utilizzata come derivato per designare l’anima. Questa parola porta in sé un senso applicabile parimenti a questo secondo io, l’oggetto visibile così misteriosamente legato all’individuo, e all’altro secondo io che noi bianchi chiamiamo anima» [17]. Il documento è viziato dal presupposto dogmatico che gli indigeni di Mota abbiano una esperienza interna della loro persona affatto identica a quella del missionario cristiano che si prova a descrivere le loro credenze. Codrington si pone davanti ai suoi Melanesiani senza le dovute garanzie metodologiche per assicurarsi una presenza mediata e garantita nell’oggetto della ricerca, e tende quindi a far valere, nella interpretazione del dato, il bagaglio di esperienze della propria formazione culturale, non escluso il concetto di «anima», così ricco di risonanze storiche. Ma appunto per questo il documento, sottoposto a una nuova interpretazione da parte di un etnologo storicamente orientato, può offrire alla comprensione un aiuto prezioso. Se infatti noi consideriamo come vero documento non già ciò che Codrington riferisce sul significato del termine ‹atai›, ma il modo col quale la formazione culturale del missionario Codrington reagisce innanzi al complesso di fatti culturali designati dal termine ‹atai›, potremo trarre conclusioni che illuminano, contemporaneamente, i due mondi culturali dal cui incontro è nato il documento [18].
Secondo quanto riferisce Codrington l’‹atai›, come esperienza e come rappresentazione, si costituirebbe in occasione della percezione di una cosa che «colpisce l’immaginazione», che desta «meraviglia» e che comunque suscita nel percipiente una vivace reazione affettiva. Ma questa presunta genesi psicologica dell’‹atai› non spiega nulla, non è individuante. Cose che «colpiscono l’immaginazione», che ci sorprendono o ci meravigliano, ne incontriamo spesso nella nostra giornata: ma non per questo ne facciamo il nostro ‹atai›. Tra il sentimento della meraviglia e l’‹atai› c’è un jato, che appare incolmabile fin quando seguiteremo, come fa il Codrington, a partire dal dogmatico presupposto di un «ci sono» magico deciso e garantito, che si meraviglia o si spaventa senza rischiare di diventare la cosa che meraviglia o che spaventa.
Per la comprensione dell’‹atai› come istituto culturale noi siamo dunque rinviati all’angoscia esistenziale magica, e al dramma del riscatto che in essa affonda le sue radici. La possibilità di diventare immediatamente un certo oggetto emozionante (sorprendente, pauroso e simili), avvertita angosciosamente come rischio, esige compenso e riscatto. La presenza è fascinata, rischia di smarrirsi, di restar polarizzata nell’oggetto, senza possibilità di andar oltre di esso, e per ciò senza potersi mantenere come presenza. Il riscatto sta nello sperimentare e nel rappresentare l’oggetto come ‹alter ego›, col quale si stabiliscono rapporti regolati e durevoli. La presenza non ha ancora la forza di «gettare davanti a sé» l’oggetto, vincendo la carica emozionale con cui esso si istituisce come contenuto della presenza: il processo di obiettivazione si compie quindi a metà, nella forma di un compromesso, nel quale la presenza che rischia di perdere ogni orizzonte si riconquista fissando la propria problematica unità nella problematica unità della cosa. Attraverso questo compromesso paradossale e in virtù del rapporto che ne segue, viene resa possibile una vera e propria pedagogia dell’esserci come presenza unitaria. Il rischioso processo di annientamento, il mero abdicare, sono qui arrestati in virtù di una creazione culturale suscettibile di sviluppo e di significato, e che fa valere, nel modo che può, il momento della presenza che vuole esserci nel mondo. Il prodotto di questa creazione (cioè il rapporto fra l’‹ego› e l’‹alter ego›) porta tutti i segni del dramma esistenziale di cui costituisce la problematica lisi: l’‹atai› è legato all’individuo da una intima solidarietà di destino, entrambi «prosperano, patiscono e muoiono insieme», e al tempo stesso (come Codrington rileva) è l’individuo, sebbene si tratti di un essere problematico, ancora incluso nella decisione umana. Da ciò deriva l’impossibilità di penetrare anche di poco col nostro concetto di «anima» l’esperienza e la rappresentazione dell’‹atai›. Il concetto di anima presuppone già scontato il processo storico del costituirsi del «ci sono», e sorge come riflessione ulteriore sul dato garantito e consolidato dell’esserci come presenza unitaria. L’‹atai› invece diventa comprensibile solo per entro un mondo storico in cui la individuazione è ancora un compito, ed esprime il dramma della presenza che, davanti al rischio di annientarsi nel mondo, si ritrova e si possiede nell’‹alter ego[19].

Riportiamo qui di séguito anche le note relative al brano, tra le quali l’ultima (la 19) ci sembra di particolare interesse:

[17]. R.H. Codrington, ‹The Melanesians›, 1871, p. 250. Il corsivo non è nel testo. Per rappresentazioni analoghe, vedi Lévy-Bruhl, ‹L’âme primitive› cit., 𝘱𝑎𝑠𝑠𝑖𝑚.

[18]. Sulla estensione della «‹wechselseitige Erhellung›» del Dilthey alla ricerca etnologica, vedi Mühlmann, ‹Methodik der Völkerkunde› cit., pp. 96-100.

[19]. Sono noti gli equivoci e i malintesi che nascono dall’impiego del «presupposto» anima da parte dei missionari. Un missionario europeo disse una volta ad alcuni indigeni australiani: — Io non sono uno, come credete, ma due —. E poiché gli indigeni a questa uscita si misero a ridere, il missionario incalzò: — Potete ridere come vi piace, ma vi dico che sono due in uno; il grande corpo che vedete è uno; in esso ve ne è un altro piccolo, invisibile. Il corpo grande muore ed è sepolto, il piccolo vola via quando quello grande muore —. E gli indigeni: — Sì, sì. Anche noi siamo due, anche noi abbiamo un piccolo corpo nel petto —. («Journal of the Anthropological Institute», VII, 1878, p. 282). Occorre dire che l’accordo è qui meramente verbale, e che l’equivoco nasce dal fatto che il missionario non ha percorso l’intervallo storico e culturale che lo separa dagli indigeni?


I due volumi già citati da EdM nello stesso capitolo sono i seguenti:
  • Lévy-Bruhl, ‹L’âme primitive›, Alcan, Paris 1927 (nota 13);
  • W.E. Mühlmann, ‹Methodik der Völkerkunde›, Stuttgart 1938 (nota 8).

Quanto a Robert Henry Codrington (1830-1922), egli fu il primo a studiare la società e la cultura dei melanesiani, e dal 1867 al 1887 fu a capo della scuola della locale missione (fonte: wikipedia, https://en.wikipedia.org/wiki/Robert_Henry_Codrington); fra le sue opere, quella dal titolo più simile a quello citato nella nota 17 risulta essere la seguente:
  • R.H. Codrington, ‹The Melanesians: Studies in their Anthropology and Folk-Lore› (1891);
la data indicata da EdM sarebbe dunque errata di una ventina d’anni.


Ci eravamo chiesti, allorché EdM aveva introdotto il suo concetto di “crisi della presenza”, come mai in Occidente la “presenza” demartiniana non fosse affetta da una tale labilità – eccettuati casi patologici – neppure tra i bambini e gli infanti, prima cioè che nella vita individuale si sia formato un ‹ego› stabile e consolidato. In altre parole: perché, nel corso dell’evoluzione dell’individuo non si passa per una “fase magica”, quando invece, secondo EdM, l’intera umanità sarebbe passata per una sorta di “epoca magica”?

Ora, questa esigenza dei melanesiani di porre la propria “presenza” in un oggetto esterno per averla in qualche modo garantita, insieme al termine “riflesso” (‹reflection›) usato da Codrington, ci richiama alla mente la “fase giubilatoria” che segue la visione di sé allo specchio, quando il bambino, tra gli 8 e i 10 mesi di età, riconosce se stesso nella figura veduta. Potrebbe essere questa immagine – la memoria di questa immagine – successivamente stabilizzata dal pensiero “sono io” (il “ci sono” di EdM), cioè dal pensiero verbale, che rende non necessario, superandolo in certezza e in affidabilità, l’‹atai› dei melanesiani?

Se così fosse, quale sarebbe il ruolo svolto dal concetto di ‹anima›, introdotto nella filosofia greca da Platone, e successivamente fatto proprio dal cristianesimo? Ovvero: siamo proprio sicuri che sia stata l’anima platonica ad assicurare e garantire la “presenza” dell’uomo occidentale? E le millenarie civiltà precedenti: i sumeri, i babilonesi, gli egizi, gli stessi ebrei che avrebbero introdotto il monoteismo (per non parlare dei cinesi o degli aztechi), non disponendo del concetto di anima, come avrebbero fatto a “garantirsi la presenza”?


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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