sabato 31 agosto 2019

“Ragazzino donne e sifilide”, una lettera di Massimo Fagioli pubblicata nel 1980 su Lotta Continua

Caro Luciano,
ho avuto la ventura, da ragazzino, di incontrare una donna assai brutta. A me parve bruttissima appena la vidi. Ho sempre bevuto molto, da tutti, le strade e le stradine percorse, deserte, salvo le molte puttane, molli di pioggia si trasformarono per me in uno di quei labirinti che fanno ogni istituto di psicologia, da un milione di anni, che servono per certi esperimenti sugli uomini: sull’istinto animale, la ripetizione, la rassegnazione, la passività.

Dentro quei vicoli mi muovevo con pochissima sicurezza, dapprima, che diventava, poi, sempre maggiore. Guidato da un desiderio forsennato e dalla certezza che le cose non potevano essere in quel modo. Era una sensazione dolorosa aumentata dalla mia nebbia di allora. E il mio corpo era in subbuglio. Penso che tu intenda cosa voglio dire. Quella donna, la realtà psichica umana, le cui labbra bellissime nascondevano spesso, troppo spesso i denti guasti dell’invidia e della rabbia.

Ne cercai di donne, anch’io avevo bisogno di quella sana che curasse la mia sifilide, il mio desiderio cieco, la negazione della realtà psichica umana.
[…]

Inizia con queste parole il testo di una lettera di Massimo Fagioli, pubblicata il 24 aprile 1980 da “Lotta Continua”, cui era stata inviata in risposta a un’altra lettera, pubblicata in precedenza sullo stesso giornale, firmata da Luciano Ardiccioni. Per questo motivo, la lettera di Fagioli, che ha per titolo ‹Ragazzino donne e sifilide›, è anche nota, tra gli appassionati di cose fagioliane, come ‹Risposta a Luciano›.

Non ci interessa tanto, in questa sede, commentare le implicazioni teoriche della lettera, né la qualità della dialettica che il testo esprime, quanto considerare l’immagine che la redazione prese l’iniziativa di associare al testo. Un tale abbinamento – anche considerando i richiami “classici” e mitologici evidenti dell’illustrazione – ci sembra poco abituale per quel giornale, soprattutto nella pagina riservata ai contributi dei lettori. Un’immagine più completa, di cui quella associata al titolo è un dettaglio, venne riprodotta in calce alla pagina, sotto il testo della lettera (e la firma di Fagioli):




In essa si possono distinguere, oltre al “ragazzino”, 4 donne più o meno abbigliate e in pose molto diverse – probabilmente riconducibili a figure mitiche – e, in alto a sinistra, un gruppo di 3 uccelli rapaci – forse aquile? In realtà, però, anche questa immagine più ampia è a sua volta un dettaglio di un’opera più complessa, che riproduciamo qui:




Si tratta di un’incisione (acquaforte?), del pittore e scultore tedesco Max Klinger (1857-1920), intitolata ‹Dedication (Widmung) to Arnold Böcklin› (1887). Quest’ultimo, Arnold Böcklin (1827-1901), pittore, disegnatore, scultore e grafico svizzero, fu uno dei principali esponenti del Simbolismo tedesco, ed è noto in particolare per ‹L’isola dei morti› (‹Die Toteninsel›), una serie di cinque dipinti realizzati tra il 1880 e il 1886.




Potrebbe venire il dubbio che vi fosse, nelle intenzioni della redazione di “Lotta continua”, un riferimento al titolo di ‹Istinto di morte e conoscenza›, il primo libro di Massimo Fagioli, nel quale sono esposti i fondamenti della teoria della nascita?

L’arco nelle mani della figura centrale starebbe forse a rappresentare la conoscenza? Oppure quel “saper fare”, così essenziale nell’arte medica (e anche in psichiatria), che può salvare la vita, ma anche uccidere?

AMBIGUITÀ: nella pagina di wikipedia dedicata a ‹L’isola dei morti› di Böcklin, si può leggere quanto segue (https://it.wikipedia.org/wiki/L’isola_dei_morti_(dipinto)):
[…] ‹L’isola dei morti› accese persino la fantasia di Adolf Hitler: senza dubbio affascinato dall’oscura simbologia del dipinto, il Führer acquistò la terza versione del dipinto nel 1933, per poi collocarla nel Berghof prima e nella Cancelleria del Reich poi. Esiste una foto raffigurante Hitler nel suo studio, in compagnia del Ministro degli Esteri sovietico Vjačeslav Michajlovič Molotov e del Ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop, uomini di stato che avevano sottoscritto il patto di mutua non aggressione tra Germania Nazista ed Unione Sovietica: ebbene, sulla parete è visibile proprio ‹L’isola dei morti›.
Ovviamente non possiamo essere sicuri che questo dettaglio fosse a conoscenza dei redattori di “Lotta continua”, si insinua tuttavia il sospetto che l’associazione dell’immagine alla lettera di Fagioli potesse celare un’allusione quantomeno ambivalente.


Il testo completo della ‹Risposta a Luciano› di M. Fagioli può essere letto qui.

La lettera di L. Ardiccioni, intitolata ‹Il medico, il carabiniere e il vicino di casa›, è consultabile qui.

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Georges Ifrah e il “prezzo della fidanzata”

Nel settimo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), Georges Ifrah evidenzia come la necessità di valutare i “beni” in modo “oggettivo”, cioè indipendente dalla comunità di appartenenza, non sia sorta soltanto per via dell’estendersi degli scambi commerciali, ma sia dovuta anche – e forse soprattutto – a cause di “natura giuridica”; a p. 114 possiamo leggere infatti:
Con l’intensificarsi dei contatti fra i diversi gruppi e la crescente importanza delle transazioni, lo scambio diretto — secondo cui le mercanzie sono spesso scambiate a capriccio dell’uno o dell’altro individuo o in virtù di un uso consacrato o magari dopo estenuanti contrattazioni — diventò scomodo. Si sentì presto la necessità di un sistema relativamente stabile di valutazione o equivalenza, fondato sulla definizione di campioni fissi, partendo dai quali fosse sempre possibile stimare valori differenti. Ciò valeva per operazioni economiche, ma anche — e forse soprattutto — per regolare problemi di natura giuridica, quali il ‹prezzo della fidanzata›, il ‹prezzo del sangue› (stime in beni per ferite gravi o per quelle seguite da morte), il ‹prezzo del furto›, ecc.
La prima unità di baratto introdotta nella Grecia pre-ellenica, e presso i romani del IV secolo a.C., pare sia stato il bue. Nell’‹Iliade› di Omero (VIII secolo a.C.), ‹una donna abile a mille lavori› era valutata 4 buoi (XXIII, 705); l’armatura in bronzo di Glauco, 9 buoi, e quella di Diomede, d’oro, 100 buoi (VI, 236). In una lista di ricompense, si succedono in ordine di valore decrescente una coppa di argento cesellato, un bue e mezzo talento aureo (XXIII, 749-751). Non dimentichiamo che la parola latina ‹pecunia›, che significa «fortuna, moneta, denaro», dalla quale derivano i nostri termini «peculio» e «pecuniario», proviene da ‹pecus›, cioè bestiame.

Ovviamente la dizione “prezzo della fidanzata” – ammesso che quest’ultimo termine sia appropriato – si riferisce a un ambito esplicitamente patriarcale (la “fidanzata” viene considerata alla stregua di un bene materiale). Pare poco verosimile che “problemi di natura giuridica” possano essere sorti soltanto con l’avvento del patriarcato; tuttavia ci si può chiedere se la necessità e l’opportunità di stabilire il valore “oggettivo” di un bene (la “fidanzata”), o di un danno (è il caso del “sangue” o del “furto”) si siano poste con particolare evidenza in tale contesto.

Del resto, anche l’adozione “iniziale”, quale campione o unità di valore, dei capi di bestiame (menzionata nel cpv. successivo) sembrerebbe rimandare a un contesto pastorale, e dunque implicitamente già patriarcale. Eppure ‹Homo sapiens› esiste da almeno 200 mila anni, mentre la “rivoluzione neolitica” (agricoltura e allevamento) ebbe luogo soltanto intorno al 10 mila a.e.v.; ci pare del tutto inverosimile che per i 200 mila anni precedenti non ci siano stati “scambi” tra gruppi diversi.

NOTA: oltretutto, il “prezzo della fidanzata” contrasta con l’antica usanza – tipica delle società matrilineari, se non vogliamo usare il termine “matriarcali” – che fosse l’uomo a “trasferirsi” presso la famiglia della donna, venendone in pratica “adottato”. Di questa antica usanza esisterebbero tracce sia nella mitologia greca, sia nei testi biblici; ad esempio, nell’Introduzione al suo volume ‹I miti greci› (1955, ed. Longanesi 1963-2011), a p. 11 Robert Graves scrive:
Le invasioni achee alla fine del XIII secolo avanti Cristo indebolirono notevolmente la tradizione matrilineare. Pare che il re riuscisse allora a regnare a vita e quando arrivarono i Dori, verso la fine del secondo millennio, la successione patriarcale divenne la regola. Il principe non abbandonava più la casa paterna quando sposava una principessa straniera, ma questa invece seguiva il marito, come fece Penelope con Odisseo. Anche la genealogia divenne patrilineare, sebbene un episodio citato dallo pseudo Erodoto nella ‹Vita di Omero› dimostri che, quando già la Apatoria o festa della Parentela Maschile aveva sostituito la festa della Parentela Femminile, i riti comprendevano ancora sacrifici alla dea Madre ai quali gli uomini non potevano assistere.

Pochi anni più tardi, nella Prefazione al volume ‹I miti ebraici› (1963), di Robert Graves e Raphael Patai (Longanesi 1980-1983), i due autori rilevano tracce di questa antichissima tradizione non solo nei miti greci, ma anche nei testi biblici; alle pagine 12-13 possiamo infatti leggere:
Altri accenni a un’antica civiltà matriarcale si incontrano nella ‹Genesi›: per esempio il diritto materno di dare il nome ai figli, ancora in uso tra gli Arabi, e i matrimoni matrilocali: «perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre per convivere con sua moglie» (‹Genesi› II 24). Questa usanza palestinese è provata da un paragrafo dei ‹Giudici› nel racconto del matrimonio di Sansone e Dalila; e spiega perché Abramo, il patriarca aramaico, che entrò in Palestina con le orde degli Hyksos, al principio del secondo millennio a.C., ordinò al suo servo Eliezer di andare a prendere una sposa per Isacco fra i suoi parenti paterni di Harran, piuttosto che sposasse una donna cananea e fosse adottato dalla tribù di lei […]. Abramo aveva già scacciato i figli nati dalle sue concubine, perché non dividessero l’eredità con Isacco […]. Il matrimonio matrilocale era una norma anche nei primitivi miti greci: un mitografo documenta che il primo a rompere quella tradizione fu Odisseo, che portò via Penelope da Sparta e la condusse a Itaca, e che ella ritornò poi a Sparta dopo il divorzio.
Dal che si evince che la storia di Ulisse (Odisseo) e Penelope ha diversi risvolti che di norma non vengono trattati nei programmi scolastici, ma che sarebbe nondimeno interessante approfondire.

Il sommario del volume di Robert Graves è consultabile qui.

Il sommario del volume di Robert Graves e Raphael Patai è consultabile qui.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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venerdì 30 agosto 2019

Georges Ifrah e la pratica del “baratto silenzioso”

Nel settimo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), Georges Ifrah menziona una pratica singolare, ma che deve aver avuto nel lontano passato una notevole diffusione, definendola “baratto silenzioso”; a p. 114 possiamo leggere:
Talvolta, trattandosi di gruppi con relazioni non amichevoli, gli scambi si facevano sotto forma di ‹baratto silenzioso›. Viaggiando per la Siberia, ad esempio, dove questo tipo di economia persistette fino a epoca recente, «il mercante straniero depositava le merci che voleva scambiare e le abbandonava; il giorno dopo, egli trovava al posto (o a lato) delle sue derrate, i prodotti del paese — soprattutto pellicce — proposti in cambio; se la cosa gli conveniva, li prelevava, altrimenti tornava il giorno dopo e trovava una quantità più consistente di prodotti a baratto, che egli prelevava o lasciava secondo la stima che ne faceva: la faccenda poteva durare parecchi giorni o andare a vuoto, se le parti non si accordavano» [*] (L. Hambis).

[*]. La nota rimanda al testo di L. Hambis, «La monnaie en Asie centrale et en Haute Asie», in ‹D.A.T.› (Dictionnaire Archéologique des Techniques), Ed. de l’Accueil, Paris 1963-64, tomo II, p. 711.

La pratica descritta ci sembra di qualche interesse perché non richiede né linguaggio parlato, né comunicazione gestuale, ma presuppone solamente una sorta di intesa tacita e a distanza. Rimane la curiosità di sapere come una tale usanza possa essere stata introdotta e mantenuta – a quanto pare – per millenni.

NOTA: essa implica inoltre l’esistenza di una sorta di senso “innato” dello “scambio equo” che smentisce tanto l’‹homo homini lupus› dei filosofi, quanto la ricerca del massimo guadagno dell’‹homo œconomicus›, tanto cara agli economisti.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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mercoledì 14 agosto 2019

Ifrah: ma allora perché contiamo per 10? (2ª parte)

Georges Ifrah, nel secondo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), dopo aver ricondotto la diffusione della base 10 in tantissimi sistemi di numerazione al banale fatto anatomico che gli esseri umani hanno 2 mani con 5 dita ciascuna, e su queste dita apprendono a contare, adduce a riprova della sua affermazione un esempio in cui 3 pastori devono contare le pecore del gregge senza profferir parola. Siamo alle pp. 46-48, e il racconto procede nel modo seguente:
Immaginiamo, per convincerci, una tribù temporaneamente costretta all’interdizione della parola (ad esempio per ragioni religiose), che possieda un gregge di pecore. Il capo tribù, circondatosi di subordinati nell’intento di censire i capi del gregge, ha immaginato la messa in scena qui rappresentata (fig. 13). Un primo aiutante alza un dito quando passa il primo animale, il secondo dito quando passa il secondo e così via finché non gli sfila davanti il decimo capo. In questo istante, un secondo collaboratore, gli occhi costantemente fissi sulle mani del primo, alza il primo dito mentre il primo subordinato abbassa le mani. Quando passa l’undicesima pecora, quest’ultimo alza nuovamente il primo dito e procede così fino al passaggio del ventesimo animale. Intanto il secondo addetto tiene alzato il primo dito finché si alza il decimo dito del collega. Allora egli alza il suo secondo dito, mentre il primo aiutante abbassa nuovamente le mani. Al passaggio del centesimo animale, un terzo addetto, i cui occhi sono fissi sulle mani del secondo assistente, alza il suo primo dito, mentre gli altri li abbassano tutti, e lo mantiene in tale posizione fino al passaggio della duecentesima pecora, allorquando stenderà il secondo dito.




Transitate ad esempio 627 bestie, si avrà la seguente situazione (fig. 13 e fig. 14):
  • l’aiutante n. 1 avrà sette dita alzate;
  • l’aiutante n. 2 avrà due dita alzate;
  • l’aiutante n. 3 avrà sei dita alzate;
le dita distese del primo addetto designeranno le unità, quelle del secondo le decine, quelle del terzo le centinaia.


Figura 14 (a p. 48).


L’autore conclude a questo punto con una certa sicumera:
La numerazione, effettuata per gruppi di dieci senza proferire parola, prova dunque che son proprio le dieci dita della mano ad aver imposto la base dieci, anziché, ad esempio, la dodici.

L’esempio, in realtà, non ci sembra del tutto convincente, e i conti tornano soltanto perché Ifrah dà per scontato che alcuni particolari numeri abbiano una doppia rappresentazione. Chiamiamo per semplicità i 3 aiutanti A, B e C, e indichiamo entro cerchietti il numero di dita alzate per ciascuno. Al passaggio della 10ª pecora avremo:
A⑩, B⓪, C⓪.
A questo punto, senza che passi alcun’altra pecora, Ifrah fa abbassare le 10 dita ad A per iniziare un nuovo conteggio, e alzare un dito a B; abbiamo così la configurazione:
A⓪, B①, C⓪
che esprime esattamente lo stesso numero di pecore della configurazione precedente; i 3 aiutanti non si stanno affatto comportando come le rotelle di un contatore, e di fatto per contare stanno utilizzando soltanto 9 dita. Possiamo comprendere meglio l’inganno osservando che ciascuno, stendendo o ripiegando le 10 dita, ha a disposizione 11 differenti “figure”:
⓪①②③④⑤⑥⑦⑧⑨⑩
e dunque senza valori duplicati dovremmo avere un conteggio a base 11!

Nel caso precedente, ad esempio,
A⑩, B⓪, C⓪ corrisponde alla 10ª pecora, mentre
A⓪, B①, C⓪ dovrebbe corrispondere alla 11ª.

Nel séguito dovremmo avere:
A⑩, B①, C⓪ che corrisponde alla 21ª pecora, e
A⓪, B②, C⓪ che conta il passaggio della 22ª.

A⑩, B⑩, C⓪ corrisponde adesso alla 120ª pecora, e
A⓪, B⓪, C① corrisponde di conseguenza alla 121ª.

A⓪, B⓪, C⑤ corrisponde quindi alla 605ª (605 = 121 × 5), e il totale sarà
A⓪, B②, C⑤ che corrisponde alle 627 bestie che compongono il gregge.

Vediamo dunque che il conteggio correttamente eseguito sulle 10 dita avrebbe dovuto portarci a scegliere come base 11 e non 10. Con grande soddisfazione di qualche importante personaggio della storia della matematica; Ifrah infatti fa seguire (a p. 49) questa citazione di un brano tratto da T. Dantzig:
Se un gruppo di esperti fosse incaricato di scegliere una base di numerazione, assisteremmo a un conflitto fra i pratici, che ne vorrebbero una col massimo numero di divisori, ad esempio dodici, e i matematici che invocherebbero un numero primo, sette o undici. Tanto che, alla fine del Settecento, il grande naturalista Buffon propose l’adozione del sistema duodecimale (base dodici), facendo notare che il dodici ha quattro divisori, mentre il dieci ne ha solo due. Egli affermava che la scomodità del sistema decimale era stata avvertita nel corso dei secoli, tanto che la maggior parte delle unità di misura avevano dodici unità secondarie, benché dieci fosse la base universale. Viceversa il grande matematico Lagrange dichiarava che un numero primo costituisce una base preferibile, perché in questo modo ogni frazione sarebbe indivisibile e rappresenterebbe il numero in un modo solo. Infatti nella numerazione attuale la frazione decimale 0,36, per fare un esempio, rappresenta tre frazioni: 36/100, 18/50 e 9/25, mentre simile ambiguità sparirebbe, se si adottasse come base un numero primo, come undici […] In ogni caso il gruppo di esperti da noi immaginato si sarebbe espresso a favore di un numero primo o di un multiplo a molti divisori, non certo per il numero dieci, che non è primo e possiede appena due divisori.

L’esempio di Ifrah potrebbe anche essere “recuperato” alla causa decimale, ma per questo occorre usare una sola mano per ridurre a 10 le possibili “figure” (diamo al solo pollice esteso il valore di 5):




In tal modo, 2 soli aiutanti, chiamiamoli A e B, disponendo in totale di 4 mani, saranno in grado di contare fino a 9.999 capi di bestiame:
A⑨⓪, B⓪⓪ corrisponde alla 9ª pecora,
A⓪①, B⓪⓪ corrisponde alla 10ª,
A⑨⑨, B⓪⓪ corrisponde alla 99ª pecora,
A⓪⓪, B①⓪ corrisponde alla 100ª pecora,
A⓪⓪, B⑥⓪ corrisponde alla 600ª pecora,
A⑦②, B⑥⓪ corrisponde alla 627ª pecora, cioè al conto totale dei capi del gregge.


NOTA: nella sua figura 14, Ifrah dà per scontato che esistesse, già agli albori dell’arte della conta, la “figura” con valore zero (la mano sx del 2° aiutante), il che pare sia tutt’altro che evidente; in effetti, dovettero passare diversi millenni prima che qualcuno pensasse di associare uno speciale simbolo alla semplice assenza! E questa è, con ogni probabilità, la spiegazione più plausibile dell’aporia di Ifrah: poiché lo zero non esisteva neppure concettualmente, non esisteva di conseguenza neppure il “doppio passaggio” utilizzato dall’autore nel suo esempio.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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Ifrah: contiamo per 10 perché abbiamo dieci dita?

All’inizio del secondo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), a p. 45, Georges Ifrah scrive:
Per simbolizzare la nozione del numero, due diversi principi si presentano alla mente. L’uno, detto «cardinale», consiste nell’adottare un simbolo campione che rappresenta l’unità, ripetendolo poi tante volte quante sono le unità contenute nel numero stesso. L’altro, detto «ordinale», consiste nel rappresentare i numeri interi consecutivi, inizianti con l’unità, con simboli diversi senza reciproca relazione […]. Pur semplice, il primo procedimento non porta lontano, perché richiede la ripetizione illimitata del simbolo campione. Il secondo sistema presenta una difficoltà: come concepire, nelle condizioni date dal principio ordinale della rappresentazione numerica, una rappresentazione di simboli numerici sempre nuovi?

Poco oltre, nel primo paragrafo dello stesso capitolo, a p. 46, per giustificare come mai la maggior parte dei moderni sistemi di numerazione siano a base 10 (i primi 10 numeri e le successive potenze di dieci hanno nomi propri, mentre i nomi di tutti gli altri numeri sono costruiti a partire da questi per addizione e moltiplicazione), Ifrah si esprime come segue:
In effetti, l’adozione quasi universale della base dieci è stata indubbiamente imposta […] da «quell’accidente della natura» costituito dall’anatomia delle mani, perché sulle dieci dita l’uomo ha imparato a contare. Nessuno dubita che, se la natura ci avesse dotato di sei dita per mano, la nostra numerazione sarebbe duodecimale, cioè su base dodici.
Figura 3.a [a p. 22]. Procedimento numerico
corporale usato da alcune popolazioni
delle isole dello stretto di Torres.

Quest’argomentazione però è valida solo se ci si basa esclusivamente sul “principio cardinale” definito sopra, se cioè associamo a ciascun dito lo stesso valore:
un dito = una unità

Essa si direbbe inoltre in contrasto con il “procedimento numerico corporale delle popolazioni dello stretto di Torres” illustrato dallo stesso Ifrah nel capitolo precedente; quest’ultimo risulta fondato, sulla base delle definizioni date sopra, soltanto sul “principio ordinale”, cioè su un ordinamento convenzionale di parti del corpo.

Sembrerebbe anche in contrasto col fatto che alcune lingue presentano “nomi” particolari anche per i numeri 11 e 12, e che sistemi di misura a base 12 sono stati in vigore in diversi Paesi – anche occidentali – fino a qualche secolo fa.


Sfruttando la grande indipendenza di movimento delle dita delle mani, si può agevolmente arrivare a contare fino a 12 con una sola mano, ad esempio assegnando al solo pollice il valore 5, e a pollice e mignolo (con qualche altro dito piegato) il valore 10; si ottengono in tal modo le 12 “figure” seguenti:




Segnando nello stesso modo le dozzine con le dita dell’altra mano, si può arrivare a contare con le sole dita delle mani fino a 13×12, cioè fino a 156 (e ci si può spingere fino a 168).

Il prevalere della base 10 deve quindi avere (anche) qualche altra ragione che non quella banalmente anatomica; motivazioni storiche? di egemonia economica e culturale? ragioni politiche? oppure addirittura teologiche?

Una domanda aggiuntiva è la seguente: in questo passo Ifrah si riferisce soprattutto ai “nomi dei numeri”, cioè a come essi vengono “enunciati” nel parlare; mentre però i primi 9 numeri (da 1 a 9) hanno un “nome” proprio e un “segno” caratteristico (ad esempio “cinque” indica sia un valore sia la “cifra” 5 usata per rappresentarlo), il 10 e le sue potenze hanno sì un “nome proprio”, ma vengono scritti utilizzando una delle altre 9 cifre (l’uno) “più” lo zero; sembra dunque esserci una certa differenza tra il sistema dei “nomi” e quello dei “segni”; i 2 sistemi sono relativamente indipendenti, oppure si influenzano a vicenda? E in quest’ultimo caso: quale dei 2 tende maggiormente a adeguarsi all’altro?

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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domenica 11 agosto 2019

Ifrah, l’origine dei numeri e quella del linguaggio

Nel primo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), a p. 28, all’inizio del paragrafo dedicato a ‹L’espressione gestuale e orale del numero›, Georges Ifrah scrive:
[…] in fatto di “numerazione” i popoli contemporanei rimasti ancora a uno stadio elementare usano piuttosto tecniche visuali e silenziose che vere espressioni orali dei numeri. In una conversazione relativa a una “transazione commerciale” o nella trasmissione di un messaggio concernente la data di celebrazione di una cerimonia, il “primitivo” non pronuncerà mai “nomi di numeri”, propriamente intesi, ma si limiterà a ‹enumerare›, in un ordine previamente convenuto, un certo numero di parti del proprio corpo, riferendosi simultaneamente alla successione dei gesti corrispondenti, il che obbligherà evidentemente gli interessati a tenere gli occhi sul “narratore”. Ci viene allora spontanea una domanda: la cruda numerazione delle parti del corpo non è dunque sufficiente a costituire una successione regolare di “nomi di numeri”, una vera serie aritmetica? […]

In precedenza, l’autore ha chiarito che molte popolazioni “primitive”, pur non disponendo che delle parole per nominare “uno” e “due”, pervengono in genere a nominare fino a 4 (“uno”, “due”, “uno-e-due”, “due-e-due”), dopodiché, per indicare quantità maggiori, possono ricorrere solo a un generico concetto di “molti”. Riescono tuttavia ad esprimere numeri più grandi di 4 utilizzando una tecnica gestuale, toccandosi prima le dita di una mano, le articolazioni del braccio, collo, naso bocca ecc. per scendere poi all’altra mano e, se necessario, proseguire con gambe e piedi, incluse le dita di entrambi questi ultimi. Possono giungere in tal modo a “contare” fino a 33 (vedi figura).

Figura 3 a [a p. 22]. Procedimento numerico
corporale usato da alcune popolazioni
delle isole dello stretto di Torres.
1. mignolo della mano destra
2. anulare destro
3. medio destro
4. indice destro
5. pollice destro
6. polso destro
7. gomito destro
8. spalla del lato destro
9. sterno
10. spalla del lato sinistro
11. gomito sinistro
12. polso sinistro
13. pollice sinistro
14. indice sinistro
15. medio sinistro
16. anulare sinistro
17. mignolo della mano sinistra
18. mignolo [sic!] del piede sinistro
19. anulare [sic!] del piede sinistro
20. medio [sic!] del piede sinistro
21. indice [sic!] del piede sinistro
22. alluce del piede sinistro
23. caviglia sinistra
24. ginocchio sinistro
25. anca sinistra
26. anca destra
27. ginocchio destro
28. caviglia destra
29. alluce del piede destro
30. indice [sic!] del piede destro
31. medio [sic!] del piede destro
32. anulare [sic!] del piede destro
33. mignolo [sic!] del piede destro

L’osservazione è senza dubbio interessante per la storia della matematica, ma ci suscita anche una domanda più generale, che riguarda l’evoluzione del linguaggio. Lo avrete già capito: la linguistica si occupa soprattutto (quasi esclusivamente) delle realizzazioni verbali – cioè “sonore”, o “acustiche” – del linguaggio, relegando in secondo piano tutte le altre modalità di comunicazione, a partire da quelle grafiche e gestuali (la lingua dei segni), che ritiene in qualche modo “derivate”.

Ma se per le popolazioni “primitive” di oggi – o, ahimè, di ieri, giacché Ifrah scriveva nel 1981 – il linguaggio gestuale era tanto più potente di quello verbale al fine di esprimere le quantità numeriche, perché non dovremmo immaginare che lo stesso valesse anche per altri ambiti di comunicazione?

Potremmo anche ipotizzare che nella preistoria un linguaggio gestuale si sia sviluppato assai prima di quello verbale, e che fosse anche più “universale” dell’espressione mediante suoni, nel senso che permettesse di comunicare anche tra specie diverse – ad esempio tra Neandertal e Sapiens – mentre il linguaggio sonoro era comprensibile soltanto all’interno di uno specifico gruppo, o della tribù.

NOTA: un simile “linguaggio gestuale”, pare di ricordare, era in uso tra gli indiani del Nord America per comunicare fra tribù diverse, prima che arrivassero i “visi pallidi” a sconvolgere i loro modi di vita.

Per ulteriori dettagli sulle antiche lingue dei segni in America e in Australia, vedi qui.

Prendendo per buona l’ipotesi formulata sopra, comunque, risulterebbero del tutto prive di fondamento quelle teorie linguistiche che legano la comparsa del “linguaggio” alle modificazioni dell’apparato fonatorio, e il “pensiero simbolico” potrebbe essersi sviluppato millenni prima delle sue variegate espressioni verbali prima, e scritte poi.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

La cronologia in appendice al volume di Ifrah è consultabile qui.

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