giovedì 27 giugno 2019

Graves, Patai, e la degradazione della donna nei miti ebraici

Nella prefazione al volume ‹I miti ebraici› (1963), di Robert Graves e Raphael Patai, edito da Longanesi (1980) nella traduzione di Maria Vasta Dazzi, a p. 15 si legge:
Un tema inesauribile del mito greco è la graduale degradazione delle donne da esseri sacri in piante, uccelli o altro. Allo stesso modo Jehovah punisce Eva per la caduta dell’uomo. Inoltre, per mascherare l’originaria divinità di Eva, sopravvisse nella ‹Genesi› il suo titolo di madre di tutti i viventi e i mitografi la presentano come nata dalla costola di Adamo, aneddoto evidentemente basato sulla parola ‹tsela›, che significa tanto «costola» quanto «caduta». Più recentemente i mitografi insistettero col dire che è nata invece dall’irsuta coda di Adamo […]. Anche i Greci diedero alla donna la responsabilità della caduta dell’uomo con l’adottare la favola di Esiodo del vaso di Pandora, vaso che la stolta moglie di un titano lasciò sturato, liberando gli spiriti della malattia, della vecchiaia e del vizio. Non bisogna dimenticare che Pandora era il nome di una dea creatrice.

La Genesi biblica sembra rovesciare miti assai più antichi – risalenti forse al neolitico – in cui la donna, “grande madre”, o “madre di tutti i viventi” sarebbe precedente all’uomo (essendo quest’ultimo senza dubbio uno dei “viventi”); viene però il sospetto che per “viventi” si potessero intendere i non mortali, quindi gli dèi, ed Eva – l’Eva neolitica – sarebbe allora generatrice degli dèi (non solo di Adamo, quindi, ma addirittura dello stesso Yahweh prima della sua “carriera” monoteista).

«[…] i mitografi la presentano [Eva] come nata dalla costola di Adamo, aneddoto evidentemente basato sulla parola ‹tsela›, che significa tanto “costola” quanto “caduta”»: sembra che il gioco di parole sia stato una costante di questo “mitema”, malgrado abbia assunto forme diverse in diverse lingue e culture; ad esempio ‹ti› come “costola” e “vita” in sumerico (si veda il saggio di Fabio Della Pergola, ‹Dall’impuro al peccaminoso›, Licosia Edizioni 2018, e una nostra annotazione in proposito, qui); probabilmente il mito sumerico era ancora in circolazione tra gli scribi babilonesi all’epoca dell’esilio, quando i sacerdoti ebrei ne trassero ispirazione per la stesura della ‹Genesi›; è però ipotizzabile che nel frattempo avesse già subito modifiche e/o adattamenti ad opera degli scribi assiro-babilonesi?
NOTA: non avrebbe perciò del tutto ragione G. Semerano, quando afferma, nel suo ‹Le origini della cultura europea› – citato dallo stesso F. Della Pergola alla nota 218 – che «di questo gioco di parole nulla rimane, è ovvio, nel racconto biblico…»; gli estensori della ‹Genesi› avrebbero in verità sostituito il “gioco di parole” originario (sumerico) con uno nuovo – e assai più malevolo nei confronti della donna – in ebraico (con buona pace di Della Pergola). NB: questa interpretazione, ovviamente, presuppone che la versione del mito a noi pervenuta sia quella originaria degli “estensori della ‹Genesi›”, cioè che non sia stata manipolata in qualche epoca successiva.

«[…] Pandora era il nome di una dea creatrice»: in che senso “dea creatrice”? Val la pena di puntualizzare che una dea femmina può “generare”, e dunque non ha necessità di “creare”, a meno che questa sua “creatività” non vada intesa in senso non materiale; ma ci pare più verosimile che la confusione tra i due termini sia stata introdotta dagli autori, oppure che si sia insinuata in fase di traduzione del testo in italiano.
NOTA: nel 1° capitolo de ‹I miti ebraici›, al punto 10, a proposito della “creazione”, vengono contrapposti i concetti di “procreazione”, e di “fabbricazione” – con quest’ultimo termine che suona alquanto stridente – ma l’intento probabile è quello di evitare ogni riferimento al concetto di “creazione dal nulla” (‹creatio ex nihilo›), che aprirebbe, questa sì, un vero e proprio “vaso di Pandora”!

Il sommario del volume di Robert Graves e Raphael Patai è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯

martedì 18 giugno 2019

Simonetta Ponchia, gli Anunnaki e il dogma della trinità

Il volume di Simonetta Ponchia intitolato ‹Gilgamesh, il primo eroe. Antiche storie della Mesopotamia› (Nuove Edizioni Romane, 2000), è corredato da un utile Glossario, posto alla fine del volume, nel quale, alle pp. 150 e 151 si legge:
An: è il dio sumerico del cielo; in accadico è chiamato Anu. La parola ‹an› significa proprio “cielo” e il segno con cui è scritta si legge anche ‹dingir›, “dio”. An/Anu è il padre degli dei, sposo della dea Urash o Ki, la terra.

Anunnaki: in origine era il nome degli dei più antichi, gli dei primordiali, poi ha subito variazioni nell’estensione del suo significato, designando ora gli dei supremi, ora gli dei degli inferi, dato che gli dei primordiali erano connessi con le forze sotterranee della fertilità. Nel significato di dei supremi indica i sette dei: An, Enlil, Enki, Mami, Nanna, Utu, Inanna.

A prima vista, si direbbe vi sia una contraddizione, visto che An, il padre degli dei, era identificato col cielo; tuttavia coerenza e non contraddittorietà pare non fossero requisiti essenziali per un sistema politeistico. Perché mai, comunque, le “forze della fertilità” dovevano essere “sotterranee”?

Il segno ‹dingir› (𒀭), traslitterato talvolta come ‹diĝir› e trascritto come “ᵈ” (senza virgolette), rappresentava in origine una stella, “disegnata” mediante 4 “cunei” incrociati al centro; veniva anteposto come determinativo ai nomi propri per evidenziarne la natura divina, ad esempio ᵈEn-lil₂ per il dio Enlil.

Ci chiediamo inoltre che relazione ci fosse tra questi 7 Anunnaki intesi come dèi supremi (An, Enlil, Enki, Mami, Nanna, Utu e Inanna) e il sistema di numerazione tradizionale utilizzato in Mesopotamia, che era notoriamente a base sessagesimale. Si tenga presente che in tale sistema 7 è il minimo divisore di un generico intero che non dà (sempre) un risultato finito; proprio come il 3 nel nostro sistema decimale, che è suscettibile di produrre per divisione infinite cifre decimali. La divisione di una data quantità per 7 era un problema che uno scriba degno di tale qualifica doveva saper risolvere speditamente, magari per approssimazione.

NOTA 1: sarà per un motivo analogo che i cristiani hanno il dogma della trinità?

NOTA 2: ci sarebbe anche il sospetto che i 7 dèi supremi (An, Enlil, Enki, Mami, Nanna, Utu e Inanna) fossero legati ai 7 “pianeti” noti e osservabili con i mezzi disponibili all’epoca; e qualora questi fossero stati fatti corrispondere anche a giorni successivi (come avviene anche oggi, almeno in Occidente), si potrebbe avanzare l’ipotesi che la settimana non sia stata un’invenzione degli ebrei (sullo schema del mito della Creazione), ma che essa esistesse già nella cultura babilonese, e sia stata al contrario la ‹Genesi› ad averla presa in prestito. Da verificare.

Il sommario del volume di Simonetta Ponchia è consultabile qui.

Il glossario posto alla fine del volume, contenente diversi termini sumeri, accadici e assiro-babilonesi, nonché nomi di dèi, eroi e personaggi, è accessibile qui.

Uno schema cronologico della letteratura sumero-accadica, posto anch’esso alla fine del volume, è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯

lunedì 17 giugno 2019

FAQ: come eseguire ricerche nelle annotazioni

È possibile ricercare post che contengono termini specifici nel loro testo immettendo tali termini nel campo “Cerca nelle Annotazioni” che si trova in alto nella spalla a destra della pagina, sotto Informazioni personali. Ad esempio, immettendo “gnothi” (senza virgolette) si ottengono le annotazioni che contengono tale parola (eventualmente un solo post, o anche nessuno, nel caso in cui il termine non venga trovato).

Se si desidera un elenco dei post che contengono allo stesso tempo più parametri di ricerca, si possono semplicemente concatenare tali parametri mediante spazi. Ad esempio, immettendo “agostino erodoto” (senza virgolette) si ottengono quelle annotazioni che contengono entrambe le parole, anche in ordine diverso da quello immesso. Se invece si desidera una particolare sequenza, è sufficiente racchiudere la stringa cercata tra virgolette. Ad esempio, "tempio di Apollo" (con le virgolette, ed eventuale punteggiatura intermedia) estrarrà solo le annotazioni che contengono la sequenza indicata.

Se si desidera trovare le annotazioni contenenti sia “monoteismo”, sia “monoteismi” (ma non necessariamente tutti e due), è sufficiente cercare la parte comune alle due parole, cioè “monoteism” (senza virgolette e senza caratteri wildcards), ma attenzione: non sempre questa modalità di ricerca funziona. In alternativa, è possibile concatenare le parole cercate con la barra verticale (|); nella fattispecie “monoteismo|monoteismi” (senza virgolette). Questo secondo metodo, se attivo, consente di cercare anche occorrenze di termini che non hanno nulla in comune, ad esempio “humilitas|eudaimonistico” (senza virgolette) estrarrà quei post che contengono almeno uno dei 2 termini specificati.

_____
¯¯¯¯¯

martedì 11 giugno 2019

D’Agostino, Gilgameš e la saggia risposta di Siduri

Nel 7° capitolo del volume di Franco D’Agostino, ‹Gilgameš - Il re, l’uomo, lo scriba› (L’Asino d’oro edizioni, 2017), all’inizio del § 7.7: ‹La saggia risposta di Siduri›, alle pp. 172-174, ci colpisce l’accorato commento della taverniera all’angosciata ricerca del re di Uruk, sconvolto per la morte dell’amico fraterno Enkidu. Lo stesso D’Agostino mette in evidenza come quasi le stesse parole ricorrano anche nel ‹Qoelet›, un testo che fa parte sia del Tanakh ebraico sia – con il nome di ‹Ecclesiaste› (dal greco Ἐκκλησιαστής) – dell’Antico Testamento cristiano.
Nella sola recensione antico-babilonese di Sippar è riportata una risposta di Siduri a Gilgameš in grado di colpire anche noi scaltri ‘lettori moderni’, del tutto inaspettata per la verità anche nel panorama della verace e immediata letteratura antica, così spesso frammista di indicazioni sapienziali (frammento di Sippar, III, 1-14):

1.   «Gilgameš, (ma) dov’è che stai correndo?
      La vita che insegui non la troverai (mai)!
      Allorché gli dèi crearono l’umanità
      fu la morte che essi riservarono all’uomo,
5.   la vita (eterna) essi conservarono nelle loro mani.
      Per ciò che ti riguarda, Gilgameš, riempi la tua pancia!
      Divertiti il giorno e la notte,
      tutti i giorni fa festa!
      Balla e canta giorno e notte
10. (e) che le tue vesti siano (sempre) pulite!
      Lava la tua testa e fa’ abluzioni con l’acqua!
      Guarda teneramente il bambino che ti tiene la mano
      (e) che la tua sposa non cessi di gioire sul tuo petto!
      Questo è il destino [dell’umanità]!».

A parte una schiettezza che non ammette dubbi, non deve certo essere la morale pratica della saggia Siduri a stupirci. Nel panorama etico della Mesopotamia, infatti, come abbiamo già notato più volte, il giudizio sulla realtà non è mai aprioristico o fondato su considerazioni teoriche e astratte. Al contrario, la vita dell’uomo non era misurata dagli antichi abitanti della Terra tra i due Fiumi per ciò che essa rappresentava in se stessa (eccezion fatta, è ovvio, per re ed eroi), ma per i benefici che se ne potevano trarre: la ricchezza, la salute, la gioia anche sessuale e di una famiglia [29].

Del resto questi temi etico-morali passeranno, attraverso la grande diffusione della cultura mesopotamica, nella tradizione sapienziale di molti altri popoli, che li rielaboreranno sulla base delle loro esperienze ideologiche e culturali. Colpisce tuttavia che essi riecheggino quasi alla lettera ancora nel ‹Qoelet› 9, 7-10:
Va’, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere.
In ogni tempo le tue vesti siano bianche e il profumo non manchi sul tuo capo.
Godi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni della tua vita fugace che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua sorte nella vita e nelle pene che soffri sotto il sole.
Tutto ciò che trovi da fare, fallo finché ne sei in grado, perché non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né sapienza giù negli inferi, dove stai per andare [30].

Nelle note 29 e 30 D’Agostino precisa inoltre quanto segue:

[29]. Il benvolere stesso della divinità era caratterizzato ed evidenziato dal possesso di tutti questi positivi doni, così come la malattia e la povertà erano il segno dell’ira del dio su un uomo (cfr. in italiano P. Mander, ‹All’origine della scienza in Mesopotamia: medicina ed esorcistica›, Aracne Editore, Roma 2008). Incontreremo tra poco un testo in cui la condizione dell’uomo nell’oltretomba dipende dalla sua prole e da quello che ha raggiunto nella vita terrena.

[30]. Mi sembra di poter dire che ci sia qui qualcosa di più che una semplice coincidenza di tematiche. Comunque una tale morale, quotidiana e popolare, si ritrova ancora in Egitto: «Non si stanchi il tuo cuore di bere e di mangiare, di essere ebbro e di amare!» (cfr. E. Bresciani, S. Donadoni, ‹Letteratura e poesia dell’antico Egitto›, Einaudi, Torino 1969, p. 670 ‹et passim›) e, come è noto, in Grecia (Epicuro, con altre basi filosofiche, è chiaro) e a Roma (il celebre ‹carpe diem› di Orazio).

Allorché D’Agostino afferma (nella nota 30): «Mi sembra di poter dire che ci sia qui qualcosa di più che una semplice coincidenza di tematiche», intende senza dubbio che contenuti e concetti originari della Mesopotamia – e quindi inerenti a una concezione tipicamente politeista – sono stati fatti propri dai più tardi redattori del Tanakh e della Bibbia.

Il sommario del saggio di D’Agostino e ulteriori annotazioni al riguardo sono consultabili qui.

_____
¯¯¯¯¯

martedì 4 giugno 2019

D’Agostino, Sîn-leqi-unnīnī e la canonicità dei testi

Nel volume di Franco D’Agostino, ‹Gilgameš - Il re, l’uomo, lo scriba›, edito da L’Asino d’oro edizioni (2017), nel 3° capitolo, alle pp. 70-72 viene trattato il problema delle versioni multiple, e spesso differenti, di un testo quale il ‹Poema di Gilgameš›:
Considerando che il testo del ‹Poema di Gilgameš› di Ninive è in uno stato già definitivo e canonizzato nella tradizione, è chiaro che lo scriba deve essere vissuto tra la fine del periodo di regno cassita su Babilonia, quando ancora incontriamo redazioni non standardizzate, e l’inizio del I millennio a.C., orientativamente tra il 1200 e il 900 a.C. Ora, il momento più consono, da un punto di vista storico, sembra essere quello del periodo di regno di Nabuchodonosor I (1125-1104 a.C.): una volta liberatasi dal giogo cassita, infatti, Babilonia cerca di recuperare sia militarmente che politicamente e culturalmente il suo ruolo nella storia vicino-orientale. Nonostante questo esaltante momento della storia babilonese si sia di fatto scontrato con la nascita della potente e agguerrita macchina da guerra assira, che con Tiglat-Pileser I (1114-1076 a.C.) stava ponendo le basi che daranno i loro frutti più evidenti nei primi secoli del I millennio a.C., è più che probabile che molto del materiale letterario che possediamo dalla tradizione assira seguente sia stato di fatto rielaborato e definitivamente canonizzato proprio sotto il regno di Nabuchodonosor I nella città della Babilonia.
Ancora più difficile, poi, è per noi comprendere attraverso quali vie un testo, e il testo di Gilgameš in particolare, giungesse a essere considerato ‘canonico’. Lo stesso concetto di canonicità è invero piuttosto evanescente. Insomma, si tratta dell’azione culturale cosciente da parte degli autori della creazione di un testo standardizzato, che rielaborano una tradizione scegliendo la redazione che deve essere tramandata nelle accademie sulla base di argomenti eventualmente letterari o politici? O il prodotto che ritroviamo nella biblioteca di Assurbanipal non è invece altro che una scelta del caso, dovuta alla fortuna di un’innovazione o di un racconto rispetto a un altro? La mancanza di documentazione ci impedisce di dare una risposta definitiva a questo problema. Probabilmente è vera una soluzione intermedia: nella ‘canonizzazione’ di un testo giocava un ruolo sia, da un lato, la fortuna presso gli utenti di una tradizione rispetto a un’altra, sia la scelta che, per motivi che possiamo soltanto indovinare, una classe di scribi operava all’interno della tradizione stessa. Negare comunque del tutto un intervento cosciente della classe colta della società babilonese nella formazione del canone è impossibile, e il nome di Sîn-leqi-unnīnī, che vivrà così a lungo nella tradizione letteraria babilonese, è un esempio che non ammette dubbio.
A proposito della complessità del mondo intellettuale della società assiro-babilonese, che aveva dietro di sé oltre duemila anni di sviluppo e sovrapposizione culturale e dove lo scriba era spesso al contempo un esorcista, un medico, un musico, un lamentatore addetto al culto delle divinità, un astronomo e così via, si possono citare delle lettere di accademici assiri ai vari sovrani. In esse gli scribi davano risposte su questo o quel fenomeno celeste a precise domande del re, che ne chiedeva anche la relativa interpretazione mantica. Da queste lettere appare evidente come esistesse accanto alla tradizione ufficiale, che gli scribi chiamavano ‘basata sulle serie’, anche una conoscenza che essi desumevano da serie non canoniche (da loro definite ‘laterali, marginali’) e addirittura una conoscenza che trovava il suo fondamento nell’insegnamento orale, detta perciò ‘relativo alla parola dei maestri (antichi)’. Così troviamo frasi del tipo: «Questo ‹omen› relativo a Mercurio non è estratto dalle serie canoniche, ma è basato sull’insegnamento orale dei maestri». Oppure: «Ora confronterò, riunirò e copierò circa 20 o 30 tavolette, tra canoniche e non-canoniche» e via di questo passo.
La presenza di queste diverse tradizioni all’interno della stessa scuola permette forse di comprendere come sia possibile che provenga da Uruk un testo, datato all’ultimo periodo della storia babilonese (VI-V sec. a.C.) e relativo al racconto degli avvenimenti della Tavola V della serie ninivita, che ci presenta una versione effettivamente differente del racconto e cioè non canonica secondo il lavoro di Sîn-leqi-unnīnī. La lunga vita gloriosa della tradizione letteraria e scribale mesopotamica, che proprio in Uruk avrà il suo fulcro sino all’epoca seleucide e oltre, faceva sì che anche in epoca assai tarda redazioni differenti delle stesse opere si trovassero l’una accanto all’altra nella stessa biblioteca. Sottolineiamo però che era ben chiara, nella mente degli scribi, la differenza tra un testo standardizzato (nella documentazione spesso definito ‘buono’) e uno invece fuori della tradizione canonica.

Si direbbe dunque che la canonicità dei testi non fosse un problema limitato all’ambito religioso (e soprattutto al monoteismo), ambito nel quale tuttavia la fissazione del canone assunse una particolare rilevanza e una notevole rigidità; i testi valutati non “conformi” al canone venivano infatti scartati in quanto “apocrifi” o “corrotti”.

Il sommario del saggio di D’Agostino e ulteriori annotazioni al riguardo sono consultabili qui.

_____
¯¯¯¯¯

lunedì 3 giugno 2019

Erodoto, le Historiae e la descrizione di Babilonia

Nel volume di Franco D’Agostino, ‹Gilgameš - Il re, l’uomo, lo scriba›, edito da L’Asino d’oro edizioni (2017), nel 1° capitolo, a p. 6 sono riportati alcuni passi della descrizione di Babilonia tratta dalle ‹Historiae› di Erodoto:
Giace (Babilonia) in un’ampia pianura che ha un’estensione su ogni lato di 120 stadi (21.240 m) ed è a forma di quadrato; questi stadi del perimetro della città sono tutti insieme 480 (84.960 m) […]. Prima di tutto la circonda un fossato profondo e largo e pieno d’acqua, quindi un muro che ha la larghezza di 50 cubiti (26,25 m) e un’altezza di 200 cubiti (105 m) […].
Sopra il muro poi, lungo i margini, eressero delle costruzioni di un solo vano, rivolte l’una verso l’altra, e in mezzo a queste costruzioni lasciarono spazio sufficiente perché potesse passarvi una quadriga. Intorno al muro ci sono cento porte, tutte di bronzo, e stipiti e architravi uguali […].
La città vera e propria, che è piena di case a tre e quattro piani, è divisa da strade dritte, e particolarmente da strade trasversali che vanno verso il fiume (Eufrate) […].
Al centro di ciascuna delle due parti della città sorgono nell’una la reggia circondata da un recinto grande e unito, nell’altra il tempio di Zeus Belo (Marduk), dalle porte di bronzo […]. In mezzo al tempio si erge una torre massiccia, che misura uno stadio (177 m) sia di lunghezza sia di larghezza, e su questa è posta un’altra torre, e su questa un’altra, sino a otto torri. La strada che vi sale è costruita all’esterno a spirale, e circonda tutte le torri […].
Nell’ultima torre, poi, c’è un grande tempio, e nel tempio è posto un grande letto fornito di belle coperte e gli è accanto una tavola d’oro. Non c’è lì alcun simulacro di divinità e di notte nessuno degli uomini vi dimora, a eccezione di una sola donna del paese, quella che il dio ha scelto fra tutte.

Lo stesso D’Agostino precisa tuttavia, nella nota 2, che: «…secondo alcuni, Erodoto non si recò mai a Babilonia, descrivendola invece sulla base di informazioni di seconda mano (idea corrente già alla metà del XIX secolo)…», il che però non è sufficiente per concludere che la descrizione fornita dallo storico non sia attendibile.

NOTA: i “cubiti” di Erodoto risultano essere leggermente più corti di quelli di Gilgameš, che lo stesso D’Agostino dichiara (nel 5° capitolo) essere di circa 60 cm.

Il sommario del saggio di D’Agostino è consultabile qui.

_____
¯¯¯¯¯