mercoledì 27 novembre 2019

Ernesto de Martino e la fine del mondo nel 1964

A Perugia, nel maggio del 1964, Ernesto de Martino partecipa a un convegno internazionale che ha per tema “Il mondo di domani”, organizzato dal filosofo cristiano Pietro Prini, che all’epoca insegna a Perugia e che quello stesso anno ottiene la cattedra di Storia della filosofia all’Università “La Sapienza” di Roma. Al convegno partecipano intellettuali di diversa provenienza, scientifica e artistica, invitati a definire i contorni della civiltà contemporanea a partire dalle discipline di cui ciascuno di loro è un eminente rappresentante. Per la Francia, ad esempio, sono presenti Paul Ricœur, Jean Wahl, Gabriel Marcel, Octave Mannoni e Pierre Schaeffer; per l’Italia, Guido Calogero per la filosofia e Umberto Eco per l’estetica. In questo contesto, de Martino decide di intervenire con una relazione che – come egli stesso farà rilevare nelle battute iniziali – a più d’un ascoltatore potrebbe sembrare “impertinente”.

Il suo intervento è infatti intitolato “Il problema della fine del mondo”, ed è riportato nel saggio postumo ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), alle pp. 69-76; le informazioni fornite sopra sono liberamente tratte dalla premessa di Giordana Charuty, a p. 67.

Riproduciamo qui il testo (incluse le note ad esso relative) perché ci sembra descrivere in modo conciso e avvincente la ricerca nella quale de Martino era impegnato in quegli anni; perché sotto diversi aspetti le sue considerazioni ci sembrano ancora straordinariamente attuali; e anche perché vi sono menzionati i nessi con alcuni concetti tuttora ricorrenti come il ‹Dasein› (il noto “esserci” degli esistenzialisti) e la ‹Geworfenheit› di Heidegger, oppure l’istinto di morte (che de Martino attribuisce a Freud).


Il problema della fine del mondo

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Quando il prof. Prini ha annunziato l’argomento di questo mio intervento si è diffusa nella sala una reazione che nei vecchi resoconti parlamentari era indicata con la parola ‹sensazionale›. Fra l’altro deve esser sembrato a molti che in un convegno sulle prospettive del mondo di domani fosse almeno impertinente (nel duplice senso di non pertinente e di monellescamente provocatorio) chiedere la parola per ricordare ai convenuti che «domani» il mondo, in quanto mondo culturale umano, può finire e che una qualsiasi risposta a come possa e debba essere «domani» il mondo comporta la domanda preliminare se «domani» vi sarà un mondo e se oggi non vi sia il rischio che almeno certe forze cospirano alla sua fine. Altri ancora fra i convenuti avranno addirittura pensato che il solo porsi un problema del genere è leggermente ‹iettatorio›, nel senso napoletano del termine: e che il portare l’attenzione su tale possibilità estrema ha l’unico effetto di deprimere gli animi con sinistre evocazioni, e di indurre a quei comportamenti di difesa tra il serio e il faceto che costituiscono gli scongiuri adoperati in questa circostanza. Debbo però invitare i presenti a superare queste reazioni immediate, rassicurandoli al tempo stesso che il mio intervento non ha nessuna intenzione di deprimere gli animi, ma, semplicemente, di portare un contributo sia pure modesto alla giusta impostazione di un problema che proprio se ignorato o leggermente accantonato può comportare soluzioni catastroficamente negative per l’intera umanità.

In fondo come problema preliminare rispetto a quello del «mondo di domani» sta il rapporto uomo-mondo così come esso si configura nella moderna consapevolezza culturale. Io credo che questo rapporto si articola in due momenti distinti e congiunti, di cui il mondo contemporaneo mostra di avere una sensibilità particolarmente acuta. Per un verso il mondo, cioè, la società degli uomini attraversata da valori umani e operabile secondo questi valori, non ‹deve› finire, anche se — ed anzi proprio perché — i singoli individui fruiscono di una esistenza finita; per un altro verso il mondo ‹può› finire, e non tanto nel senso naturalistico di una catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta terra, ma proprio nel senso che l’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la stessa possibilità della cultura. Se dovessi individuare la nostra epoca nel suo carattere fondamentale, direi che essa vive come forse non mai è accaduto nella storia nella drammatica consapevolezza di questo ‹deve› e di questo ‹può›: nell’alternativa che il mondo ‹deve› continuare ma che ‹può› finire, che la vita deve avere un senso ma che può anche perderlo per tutti e per sempre, e che l’uomo, solo l’uomo, porta intera la responsabilità di questo deve e di questo può, non essendo garantito da nessun piano della storia universale operante indipendentemente dalle decisioni reali dell’uomo in società.

Senza dubbio nella coscienza culturale della nostra epoca il rapporto fra ciò che potremmo chiamare l’ethos del trascendimento della vita nei valori intersoggettivi e ciò che invece rappresenta il crollo di questo ethos con la correlativa perdita di senso e di operabilità del mondo, presenta una grande varietà di concrete manifestazioni che una ricerca sistematica dovrebbe mettere in evidenza e sottoporre al giudizio. La manifestazione estrema, in cui il rischio si palesa nel modo più radicale, acquista aspetti nettamente psicopatologici, come per esempio nel ‹Weltuntergangserlebnis› schizofrenico: ma anche senza giungere a questi casi-limite, sfumature morbose del genere si avvertono copiose nel crollo dei linguaggi artistici, così come in certe correnti esistenzialiste e in certe modalità del costume. Quando Heidegger in ‹Sein und Zeit› teorizza la ‹Geworfenheit› dell’esserci, quando Sartre in ‹La nausée› illustra il mondo indigesto spalancantesi sul nulla, quando D.H. Lawrence lamenta che abbiamo perduto il sole, i pianeti, e il Signore con le sette stelle dell’orsa ricevendo in cambio il «povero, piatto, meschino mondo della scienza e della tecnica» [2], quando Moravia in ‹La noia› descrive «la malattia degli oggetti», noi ravvisiamo in queste espressioni culturali pur così diverse una ‹Stimmung› comune, la segnalazione di uno stesso rischio radicale, e cioè la possibilità di un mondo che crolla in quanto crolla lo stesso ethos culturale che lo condiziona e lo sostiene. D’altra parte espressioni culturali così eterogenee come l’istinto di morte di Freud o il crollo dell’occidente di Spengler sembrano accennare alla stessa direzione.

Non è improbabile che una così acuta coscienza culturale del finire del mondo nell’epoca moderna abbia tratto alimento anche dalla possibilità della guerra nucleare o dai terrificanti episodi di genocidio dei campi di morte nazisti. Ma già il fatto che abbiamo avuto bisogno dei 200.000 di Hiroshima o dei 6.000.000 di ebrei periti nei campi di sterminio ci indica quanto profonde siano le radici della nostra crisi. Dovrebbe infatti bastare l’immagine di un solo volto umano che porta i segni della violenza e della offesa subita da un altro uomo, per porre in movimento, in chi guarda quel volto, la drammatica tensione del mondo che «può» ma «non deve» finire. Che i volti perduti per colpa umana siano 200.000 o 6.000.000 non aggiunge nulla allo scandalo di quel solo volto, e non occorre altro che quel solo volto per mettere in causa il mondo e per mobilitare l’ethos culturale umano che sempre di nuovo è chiamato a rendere più abitabile e più familiare il pianeta terra per ciascuno e per tutti. Ma, a parte Hiroshima e i campi di sterminio, vi sono altri aspetti del mondo moderno che hanno reso particolarmente acuta la nostra sensibilità per il rischio della fine. Le rapidissime trasformazioni nei generi di vita introdotte dal diffondersi del progresso tecnico, le correnti migratorie dalla campagna alla città, da regioni sottosviluppate a regioni industriali, il salto improvviso da economie più o meno arretrate o addirittura da società tribali a economie e società ormai inserite nel mondo occidentale, hanno condotto alla crisi un gran numero di patrie culturali tradizionali senza che tuttavia la integrazione nella nuova patria culturale avesse avuto il tempo di maturarsi. I rapidi processi di transizione, le lacerazioni e i vuoti che essi comportano, la perdita di modelli culturali in una situazione che non può più utilizzare quelli familiari, inducono crisi vistose e ripropongono nel modo più drammatico i problemi elementari del rapporto col mondo. Solo in questo quadro noi riusciamo a comprendere, per esempio, le riflessioni di un operaio francese come Navel, che nei suoi ‹Travaux› espone in forma autobiografica il passaggio dalla sua origine contadina alla condizione operaia esprimendo fra l’altro in modo ricorrente la riconquista del mondo e del proprio corpo che la vita di una fabbrica moderna ponevano in causa in modo radicale. A sera l’operaio Navel torna nella sua camera e si prepara la cena; ed ecco che egli si sorprende nell’atto di aprire lo sportello della credenza e di prendere la saliera per salare la minestra:
La mano, sensibile alle percezioni successive del legno della credenza, del ferro della maniglia, del vetro della saliera e del pizzico di sale, mi meraviglia: mi stupivo di trovare un tal tesoro di conoscenze nella semplice pelle delle dita. Cercavo di vivere completamente risvegliato, sempre cosciente del momento, della cosa, del gesto. L’adulto vive addormentato nelle sue abitudini. È sempre bello apprendere la vita, e tutto d’un tratto io apprendevo all’albero verde del contatto diretto. Non c’è che la vita di cui ci si meraviglia che vale la pena di essere vissuta. Mentre la mano teneva il suo pizzico di sale in minuti cristalli, io sapevo ch’essa era simile a quelle di tutte le nonne della terra quando fanno il gesto di aprire la saliera per salare la minestra, il gesto che avevo visto fare a mia madre; ed io dialogavo con lei nella rapidità del sogno: «Io salo la mia minestra, la mia mano è la tua, tu non sei morta». Ma al di là di mia madre, io entravo in rapporto con tutti i morti, tutte le presenze che mi avevano dato una mano come questa simile alle altre. L’uomo vive con le sue mani. La mia aveva appartenuto ad una generazione di servi. Aveva spesso riempito la sua solitudine sul fornello bruciante di una pipa, dopo la giornata passata sul manico di una scure nelle foreste coperte di neve. La vita è ciò che si tocca, le stesse sensazioni inducono gli stessi sogni. Boscaioli, vignaioli, contadini, dandomi la loro mano mi avevano dato anche quella che era passata nelle loro teste, rosse o bionde che fossero [3].

Mi accadde una volta, percorrendo in macchina una strada della Calabria, di chiedere a un vecchio pastore alcune indicazioni su un certo bivio di cui andavo in cerca: e poiché le sue informazioni erano poco chiare, gli proposi di accompagnarmi in macchina sino al bivio in questione, per poi riportarlo sino al punto in cui ci eravamo incontrati. Il vecchio pastore accettò con estrema diffidenza il mio invito, e durante il percorso guardava con crescente agitazione attraverso il finestrino, come per cercare qualche cosa di molto importante. D’un tratto gridò: «Dov’è il campanile di Marcellinara? Non lo vedo più!» Effettivamente il campanile di questo villaggio era scomparso all’orizzonte, ma con ciò si era profondamente alterato il mondo familiare, lo spazio domestico, di questo arcaico pastore, il quale per tale scomparsa esperiva angosciosamente il crollo della sua angustissima patria culturale, con l’abituale paesaggio che faceva da scenario quotidiano ai suoi spostamenti col gregge. Accadde così che non fu possibile andar oltre in compagnia del nostro pastore, e fu necessario riportarlo indietro al punto di partenza, dove salutò con gioia il riapparire del campanile smarrito. È questo un esempio estremo, e quasi caricaturale, del legame con una patria culturale come condizione di operabilità del mondo: ma tale legame è ben noto allo studioso delle civiltà umane, e risalta in modo particolare nelle civiltà arcaiche.

Che cosa può succedere quando in una situazione coloniale una determinata corrente migratoria muta improvvisamente di ‹habitat› e passa da condizioni tribali di vita a una civiltà di tipo industriale è stato più volte segnalato: qui ricorderò il caso di cui ha avuto occasione di occuparsi l’etnologo Rouch ad Accra, nella Costa d’Oro, quando vi era ancora il regime coloniale britannico; un caso particolarmente interessante, documentato fra l’altro anche da un documentario dello stesso Rouch, che fu proiettato alcuni anni or sono al festival internazionale del film etnografico di Firenze [4]. Si tratta di una corrente migratoria dei negri Bambara dal medio Niger [5] — dove vivevano di pesca e di agricoltura — verso le molto più civilizzate regioni della costa. I Bambara erano attratti dai favolosi guadagni che si prospettavano nella nascente civiltà industriale della costa dove trovarono di fatto condizioni materiali di vita certamente molto migliori di quelle della loro patria tribale. Senonché nella nuova sede si verificò un duplice fatto: da un lato tutto il dispositivo culturale di cui gli emigrati disponevano in patria per far fronte ai momenti critici della loro vita di agricoltori e di pescatori, cioè il loro pantheon, i loro riti, le loro cerimonie, non erano pili utilizzabili nella nuova sede, legati com’erano ad un ‹habitat› ormai abbandonato, a momenti critici che avevano perduto il loro senso, e a rapporti tribali ormai in dissoluzione; dall’altro lato i Bambara erano colpiti da una serie di episodi traumatizzanti della loro vita di emigrati. Il governatore inglese, l’esercito, la polizia, la burocrazia, le macchine, il treno, ecc., costituivano un insieme di elementi che essi non riuscivano ad inserire in nessun orizzonte culturale e che rappresentavano il risultato terminale di un processo storico a cui essi restavano sostanzialmente estranei. In questa situazione si verificarono ben presto nella comunità Bambara di Accra una serie di disordini psichici di notevole gravità, caratterizzati dall’insorgere di impulsi inconsci che non potevano essere né controllati né sublimati in determinati orizzonti culturali. La comunità di Accra fu così colpita da una vera epidemia di disordini psichici, che mise in allarme le autorità, tanto più che medici e psichiatri non riuscivano ad intervenire efficacemente nella situazione, che sfuggiva ai quadri nosologici della medicina e della psichiatria europee. Riuscì invece a risolvere questa situazione un bambara, che era uomo di larga esperienza e aveva maggiori capacità degli altri emigrati. Costui prese alcuni elementi del vecchio dispositivo culturale — per esempio l’altare conico al centro di una radura — modificandoli in funzione della nuova situazione. Divise così l’altare tradizionale in varie sezioni, la più alta delle quali ospitava il governatore come nuova divinità del pantheon industriale e coloniale, e poi via via il medico, il capo della polizia, la moglie del medico, eccetera. Alla base di questo altare conico, che rappresentava in un certo senso un’immagine mitica della situazione coloniale, vi era il magazzino delle offerte sacrificali. Ma ciò che rendeva di particolare interesse questo riadattamento della religione tribale alla nuova situazione erano i riti e le cerimonie. I Bambara, mantenendo i vecchi riti di possessione caratteristici della loro tradizione magico-religiosa, si lasciavano ora possedere dalle divinità del nuovo pantheon: essi erano così posseduti, nel corso delle cerimonie celebrate presso l’altare, dallo spirito del governatore inglese, o del capo della polizia o del macchinista delle ferrovie, e adoperavano come formule liturgiche le formule burocratiche che costituivano un altro elemento traumatizzante della loro nuova vita cittadina. In tal modo i traumi e i conflitti accumulati quotidianamente, e che prima esplodevano in disordini psichici veri e propri, venivano ora fatti defluire nell’ordine rituale della possessione e ricevevano orizzonte in figurazioni mitiche definite. Così il nuovo dispositivo culturale poté assolvere una funzione riequilibratrice e reintegratrice, e i disordini psichici trovarono la loro più appropriata modalità di controllo.

Questo singolare episodio stimola alcune osservazioni. Senza dubbio la scienza e la tecnica dell’occidente, nate da un ethos culturale particolare che è frutto di una lunga storia, costituiscono valori non soltanto universali, ma universalizzabili: tuttavia sono valori universalizzabili nella misura in cui non restano un al di là rispetto ai mondi umani che entrano con un ritmo crescente nel processo di occidentalizzazione, e nella misura in cui scienza e tecnica svolgano interamente l’ethos adeguato al tipo di umanesimo integrale e di integrale democrazia che certamente scienza e tecnica racchiudono almeno potenzialmente. A questo proposito non va dimenticato che molto cammino resta ancora da fare, e che come vi è una magia nera vi è anche un modo di intendere la scienza come tecnicismo moralmente indifferente, e quindi compatibile per esempio col segreto atomico e con la guerra nucleare. Il problema centrale del ‹mondo di oggi› appare dunque la fondazione di un nuovo ethos culturale non più adeguato al «campanile di Marcellinara», ma all’intero pianeta terra che ormai gli astronauti contemplano dalle solitudini cosmiche e che sta di fatto diventando, per quanto attraverso contraddizioni e resistenze, la nostra patria culturale fondamentalmente unitaria, con tutta la ricchezza delle sue memorie e delle sue prospettive. Nella misura in cui questo nuovo ethos si renderà realmente operante e unificante, raccogliendo in una consapevole ecumenicità di valori comuni la originaria dispersione e divisione delle genti e delle culture, il mondo che «non deve» finire uscirà vittorioso dalla ricorrente tentazione del mondo che «può» finire, e la fine di «un mondo» non significherà la fine «del mondo» ma, semplicemente, «il mondo di domani».


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NOTE
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[1]. E. De Martino, ‹Il problema della fine del mondo›, in P. Prini (a cura di), ‹Il mondo di domani›, Abete, Roma 1964, pp. 225-31.

[2]. Allusione al testo di D.H. Lawrence, ‹Apocalypse›. Cfr. in questo volume il cap. 5, par. 3.

[3]. De Martino attribuisce questa citazione a ‹Parcours›. Correggiamo: G. Navel, ‹Travaux›, Gallimard (coll. «Folio»), Paris 1995, p. 208.

[4]. J. Rouch, ‹Les maîtres fous›, 1955, 36 minuti. Primo premio per il film documentario al festival di Venezia del 1957; partecipazione al festival dei Popoli di Firenze del 1959.

[5]. Non si tratta dei Bambara, ma della setta degli Haouka, nata all’interno delle popolazioni Songhaï nella metà degli anni Venti del Novecento.


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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lunedì 25 novembre 2019

Marcello Massenzio, de Martino e la crisi della presenza

Nella sua introduzione alla nuova edizione del saggio postumo di Ernesto de Martino, ‹La fine del mondo - Contributo all’analisi delle apocalissi culturali› (ed. Einaudi 2019), Marcello Massenzio, a p. 34, scrive:
Le civiltà dette primitive, il cui insieme costituisce ciò che De Martino chiama «il mondo magico», sono caratterizzate dal «dramma storico» che le pervade, e che coinvolge la presenza umana, l’essere al mondo, un concetto, questo, che De Martino elabora a partire dalla nozione heideggeriana di ‹Dasein›. L’ordine culturale esiste nella misura in cui la presenza umana, in quanto soggetto, è capace di opporsi al mondo esterno, per forgiarlo. Il rischio permanente della sua scomparsa, qualora si radicalizzi, implica la disgregazione di questo legame: ciò si verifica quando la presenza umana defluisce nel mondo esterno o, al contrario, quando quest’ultimo invade la presenza. Le istituzioni magiche, nate per contrastare tale eventualità, si propongono di garantire il ruolo attivo della presenza umana, in permanente equilibrio fra esserci e non esserci; esse testimoniano dell’esigenza primaria d’impedire alla presenza, alla cultura e alla storia di sprofondare nel nulla. È in questo retroterra che affonda le radici il progetto di ricerca sulle apocalissi.

La dinamica storica del mondo magico si misura al vaglio di criteri che non sono quelli dell’Occidente; essa riposa sulla tensione che oppone la ricerca della salvezza alla minaccia della caduta, la volontà di esserci della presenza al rischio di non poter essere in nessun mondo culturale possibile. Il dramma magico è contenuto interamente nel contrasto dialettico fra queste due polarità. Il mondo magico è «diverso» dal nostro, nella misura in cui non gli appartiene la «presenza che sta garantita in cospetto di un mondo trattenuto nei suoi cardini» [6]:
Un’altra epoca, un mondo storico diverso dal nostro, il mondo magico, furono impegnati appunto nello sforzo di fondare la individualità, l’esserci nel mondo, la presenza, onde ciò che per noi è un dato o un fatto, in quell’epoca, in quell’età storica, stava come compito e maturava come risultato [7].

Entrambe le note rimandano al saggio ‹Il mondo magico› – composto da Ernesto de Martino durante gli anni di guerra, ma pubblicato soltanto nel 1948 – si veda la pagina dedicata allo studioso da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Ernesto_de_Martino):

[6]. E. De Martino, ‹Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo›, Boringhieri, Torino 1997, 4ª ed., p. 151.

[7]. 𝐼𝑏𝑖𝑑., p. 161.


Ci soffermiamo sulle parole (di Massenzio): «[…] la presenza umana, in quanto soggetto, è capace di opporsi al mondo esterno, per forgiarlo. […] la disgregazione di questo legame […] si verifica quando la presenza umana defluisce nel mondo esterno o, al contrario, quando quest’ultimo invade la presenza». Non ci sembra ben chiaro se il “mondo esterno” sia quello naturale oppure quello umano (per quanto il verbo “forgiarlo” farebbe propendere per il primo, tuttavia un fastidioso dubbio ci resta). Mentre è facilmente intuibile come la realtà esterna possa influire sulla presenza (basti pensare a come reagiamo alle sollecitazioni esterne: dalla superstizione, al timore del contagio, vuoi fisico vuoi mentale, fino alla possessione, ai limiti quella “demoniaca”), ci riesce invece oscuro il “defluire” della presenza nel mondo esterno. Il concetto sarà approfondito nel secondo capitolo del volume, dedicato a ‹Le apocalissi psicopatologiche›.

Ad ogni modo, ci pare che la “crisi della presenza” sia indiscutibilmente legata alla precaria separazione tra ciò che consideriamo il Sé e ciò che è invece “esterno”, o “estraneo”. E ci tornano in mente le parole di Freud ne ‹La negazione› (1925):
«Per l’Io ciò che è male, ciò che è estraneo all’Io, ciò che si trova al di fuori, sono in un primo momento identici […]. Il contrasto fra soggettivo e oggettivo non esiste fin dall’inizio. Tuttavia, il compimento delle funzioni di giudizio è reso possibile soltanto dal fatto che la creazione del simbolo della negazione ha consentito al pensiero un primo livello d’indipendenza dagli effetti della rimozione e con ciò anche dalla costrizione esercitata dal principio del piacere».
Parole puntualmente rovesciate da Massimo Fagioli nello scritto ‹Una depressione› (1993):
«Per l’Io ciò che è male, ciò che è estraneo all’Io, ciò che si trova al di fuori, ‹non› sono in un primo tempo identici […]. Il contrasto tra soggettivo e oggettivo esiste fin dall’inizio […]».

Ovvero: Freud sostiene che la mancata distinzione tra il Sé e l’esterno a sé è naturale, congenita, quindi – e non potrebbe essere diversamente – di origine biologica; Fagioli afferma invece che essa è patologia, che si instaura in séguito a rapporti interumani deludenti, e questa concezione si lega alla convinzione che sia possibile ripristinare la sanità originaria sia direttamente con la cura psicoterapica, sia modificando i rapporti sociali mediante la lotta politica.

De Martino sembra invece ritenere che questa distinzione, da lui intesa come necessario preupposto dell’operare umano nel mondo, sia in quanche modo insita nella natura umana stessa, ma per qualche motivo – da lui non chiarito – sia precaria, cioè continuamente soggetta al rischio di perdersi, e necessiti pertanto di uno sforzo continuo, la produzione culturale, per mantenerla.

Tornando al saggio demartiniano, in cui vengono contrapposti il mondo occidentale (a derivazione dal cristianesimo e dal ‹logos› greco) e il “mondo magico” (che accomunerebbe in un unico calderone tutte le altre e precedenti culture), da alcuni passi sembrerebbe che in verità neppure nella cultura occidentale la presenza sia poi talmente garantita; quest’essere garantita sarebbe più che altro apparenza, illusione, risultante dalla messa in atto di strategie che forse non saranno propriamente “magiche”, purtuttavia non se ne discostano più di tanto.

A questo punto potremmo anche chiederci che ruolo abbiano la scienza, il linguaggio e la conoscenza “scientifici”, la ricerca e la divulgazione, non sempre corretta, dei suoi risultati, nel mettere al sicuro la “presenza” dal rischio demartiniano di non esserci.

Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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lunedì 18 novembre 2019

Hilary Gatti, Giordano Bruno, lo scienziato e il filosofo

Il terzo capitolo del saggio di Hilary Gatti, ‹Giordano Bruno e la scienza del Rinascimento› (1999, ed. Raffaello Cortina 2001), è dedicato ad esaminare le implicazioni cosmologiche di stampo copernicano ne ‹La cena de le ceneri›, il primo dei dialoghi italiani del Nolano, composto e pubblicato nel 1584, durante il suo soggiorno in Inghilterra; alle pp. 60-62 possiamo leggere:
[…] Qui Bruno sta identificando, già agli inizi della rivoluzione scientifica, due diverse discipline come connesse ma distinte: quella perseguita dallo scienziato vero e proprio (che, nella nostra era postkuhniana, definiremmo “scienza normale”) e la filosofia della scienza. Come esponente di quest’ultima, Bruno riconosce che la propria riflessione deve in ultima analisi dipendere dai dati rilevati e analizzati dagli scienziati. Allo stesso tempo, però, rivendica la libertà di interpretare tali scoperte in un ambito molto più vasto di quello in cui opera la scienza “normale”, secondo una modalità che richiede il dono dell’ispirazione e dell’immaginazione, nonché una capacità di illuminazione profetica in grado di interpretare la natura secondo leggi o paradigmi universali. In tal senso, questa pagina bruniana può essere confrontata con il brano conclusivo della ‹Nuova Atlantide› di Bacone, in cui l’autorità più alta all’interno della Casa di Salomone verrà assegnata a coloro ai quali, sebbene in termini meno individualistici di quelli in cui Bruno concepisce il compito del filosofo, spetta la responsabilità di ordinare e interpretare le informazioni fornite dagli scienziati “normali”:
Poi, dopo diversi incontri e consultazioni prese in assemblea plenaria, allo scopo di prendere in considerazione e valutare i precedenti lavori e le raccolte, ve ne sono tre che si prendono cura di guidare nuovi esperimenti, tratti dai precedenti, e dotati di un più alto grado di luce, per penetrare ancora di più entro la natura. Essi sono chiamati “Lampade”.
Ve ne sono altri tre che eseguono gli esperimenti così guidati, e ne riferiscono. Li chiamiamo “inoculatori”.
Infine, ve ne sono tre che innalzano le precedenti scoperte, mediante esperimenti, portandole a convergere verso più grandi osservazioni, assiomi, aforismi. Li chiamiamo “interpreti della natura” [18].

Bruno suggerisce, qui, che le nuove ricerche scientifiche, in particolare quelle concernenti un nuovo modello di universo, abbiano implicazioni talmente profonde che non si può lasciare agli scienziati stessi il compito di trarne tutte le relative conseguenze concettuali, una responsabilità che spetterebbe, piuttosto, al filosofo della scienza. Si tratta, in definitiva, di un’intuizione di carattere estremamente avanzato, che prefigura non solo la filosofia razionalistica su base scientifica di un René Descartes (Cartesio) o di un John Locke, ma anche il pensiero postkantiano del periodo romantico, con il suo orientamento soggettivo e idealistico. Oltre a ciò, si noterà come l’interesse dimostrato da Bruno nei confronti degli aspetti tecnici dell’arte della memoria e della logica di Ramon Lull (Raimondo Lullo) possa essere visto in termini dello studio della logica della ricerca scientifica, un tema di particolare attualità in un’epoca, quale la nostra, che ha visto la diffusione delle teorie di Karl Popper.

[18]. La nota rimanda al 1° volume degli ‹Scritti politici giuridici e storici› di Francis Bacon (1561-1626) nella traduzione italiana.


Sorvoliamo sulla “ispirazione” e soprattutto sulla “illuminazione profetica” della Gatti. La studiosa afferma in sostanza che Bruno avesse già intuito, alla fine del Cinquecento, l’enorme portata delle nuove scoperte, e lo sconvolgimento che esse avrebbero provocato nella concezione del mondo e, di riflesso, nell’organizzazione sociale e politica. Per questo motivo non riteneva – a quanto pare insieme a Bacone – che gli indirizzi, i metodi e i mezzi della ricerca, quelli che Kuhn chiamerebbe “programmi di ricerca”, potessero essere lasciati alla discrezione degli scienziati stessi.

Ai tempi di Bruno, e nei secoli immediatamente successivi, non esisteva ancora la distinzione tra scienza “teorica” e scienza “sperimentale” – in effetti, questa distinzione, che si affermerà soltanto nell’Ottocento, sembra non esistere neppure per la Gatti – per cui si potrebbe anche pensare di interpretare la differenza di ruoli, ritenuta necessaria da Bruno, in termini moderni, non come complementarità di “scienza” e “filosofia della scienza” – come afferma la Gatti – bensì come interazione tra “scienza teorica” e “scienza sperimentale”.

C’è da dire che il prodigioso sviluppo della scienza ha superato di gran lunga le aspettative – ma anche e soprattutto i timori – dei due filosofi citati, rendendo accessibili tecniche dalla potenza micidiale assolutamente impensabili al loro tempo: ne sono esempi eclatanti gli esplosivi ad alto potenziale, l’impiego bellico della chimica e della biologia, la stessa bomba atomica che pose fine alla Seconda guerra mondiale; si pensi anche, in un ambito più pacifico, all’impatto sulla vita quotidiana dei nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, o alle opportunità di controllo sociale offerte dall’informatica.

Dai tempi di Bruno, a dire il vero, non pare che il problema di chi sia in grado di gestire responsabilmente i risultati delle ricerche scientifiche sia stato risolto. Escluderemmo possano essere i “filosofi”, che oggi non dispongono delle competenze tecnico-scientifiche, ma neppure del necessario potere decisionale; e ancor meno potrebbero essere i politici, affetti come sono da una crescente miopia, e spesso, perlomeno in ambito scientifico, da una vera e propria, crassa e sfrontata ignoranza.

La globalizzazione – anche nell’ambito della ricerca scientifica – ha reso del resto inefficace il controllo dei singoli Stati, e il loro ruolo non è stato assunto da organismi internazionali di adeguata autorevolezza. Le opportunità offerte dalle nuove tecnologie verranno prima o poi utilizzate da coloro che hanno meno scrupoli morali, e allora… ‹Homo homini lupus›? Il progresso scientifico richiede indubbiamente la ricerca e la realizzazione di una nuova identità umana, e i giovani di oggi sembrano essere i più sensibili a questa esigenza.

Ma la fine che fece Giordano Bruno, il 17 febbraio del 1600, ci ammonisce che gli ostacoli che si frapporranno a questa realizzazione non saranno facili da superare.

Il sommario del volume di Hilary Gatti è consultabile qui.

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