giovedì 28 marzo 2019

La “rivelazione” di Parmenide

Da Mario Vegetti, ‹L’etica degli antichi›, Laterza (§ 1.3, p. 6):
Fra VI e V secolo, le correnti religiose e i messaggi sapienziali di salvezza si rivolgono al gruppo ristretto degli adepti, dei discepoli, con forme diverse di iniziazione. Non è raro che i sapienti di questa epoca identifichino il proprio allocutore con un «tu»; e Parmenide si presenta come destinatario di una rivelazione, che è anche iniziazione, personalmente rivoltagli da una dea. Ai sapienti, agli adepti, agli iniziati, si oppone qui la gran massa dei profani, dei «dormienti» di Eraclito, «anime barbare», dei «mortali dalla doppia testa» di Parmenide: tutti costoro sono, e devono restare, esclusi dalla sfera di luce della rivelazione sapienziale, anche se in certi casi dovranno sottostare alle sue leggi, come avrebbero voluto i Pitagorici nelle città in cui detenevano il potere.

«[…] Parmenide si presenta come destinatario di una rivelazione, che è anche iniziazione, personalmente rivoltagli da una dea»: ma questa è un’anteprima straordinaria! Secolo più, secolo meno, seppure a notevole distanza da lì, stava avvenendo un’altra rivelazione, altrettanto personale, da parte di un dio, che sarebbe stato chiamato Yahweh, a un leggendario capopopolo, o forse un sacerdote, di nome Mosè. La dea di Parmenide era invece ‹Dike› (Δίκη), la dea della giustizia; ma, in fondo, cosa cambia?

NOTA: Yahweh era noto per la sua “aniconicità”; la dea della giustizia aveva invece volto e figura?

Per l’indice del saggio di Mario Vegetti, e per altre annotazioni in proposito, si veda qui.

Sul carattere eudaimonistico piuttosto che deontologico dell’etica “antica”

Da Mario Vegetti, ‹L’etica degli antichi›, Laterza (§ 1.4, pp. 10-11):
È noto che l’etica antica si differenzia da quella moderna soprattutto per il suo carattere eudaimonistico anziché deontologico. In altri termini, alla domanda: «perché il bene è da preferire?, perché dovrei agire moralmente?», l’etica degli antichi risponde «perché così, e solo così, sarai felice (‹eudaimon›)», mentre quella dei moderni risponde con Kant: «perché è tuo dovere». Naturalmente, la promessa di felicità come scopo della condotta morale viene via via assumendo nella riflessione antica caratteri diversi e più complessi. Si va dalla gioia ingenua degli eroi omerici per la vittoria e la gloria conquistate sul campo di battaglia come premio per la loro virtù, alla felicità dell’anima ricompensata nell’oltretomba con la salvezza e il ritorno ad una condizione di divina beatitudine. Oppure, la felicità può consistere nel piacere epicureo, che pone fine ai bisogni del corpo e con ciò realizza la serenità dell’anima; nell’esercizio aristotelico della pura teoria che contempla la verità e l’ordine del mondo; nell’incrollabile autonomia e libertà del saggio stoico, al riparo da ogni seduzione o minaccia del mondo esterno. Quali che siano la forma assunta dall’‹eudaimonia›, la sua sede ultima e privilegiata (i piaceri del corpo o dell’anima, l’autorealizzazione sociale oppure intellettuale), essa costituirà sempre per l’etica antica il fine, la motivazione, la promessa dell’azione morale. È difficile d’altronde pensare ad un «dovere», scisso dalla felicità, che giochi lo stesso ruolo di norma e scopo dell’azione morale, a meno che esso sia imposto da una solida sanzione teologica, rimasta sostanzialmente estranea al pensiero antico.
In effetti, per l’aggettivo ‹eudaimon› e per il corrispondente sostantivo ‹eudaimonia›, il “Dizionario Greco Antico” (https://www.grecoantico.com/) fornisce la seguente gamma di significati:
eudaimon› (εὐδαίμων, -ον) = 1. (genitivo -ονος) assistito da un buon demone, quindi felice, beato, fortunato; 2. (riguardo ai beni estrinseci) agiato, ricco, opulento; 3. (di luoghi e campagne) dovizioso, fruttifero […].
eudaimonia› (εὐδαιμονία, εὐδαιμονίας, ἡ) = 1. felicità; 2. prosperità, agiatezza, benessere.
Si può constatare che entrambi i termini non fanno distinzione tra la “felicità” che riguarderebbe una realtà non materiale – mente, spirito o anima che sia – e il “benessere fisico” o addirittura la “prosperità” che può essere relativa a “luoghi e campagne”, realtà quindi implicitamente “abitate”, ma non per questo, di per sé, “animate”; la scissione tra materia e spirito era evidentemente, ai tempi considerati, ancora di là da venire, e questo certo non stupisce. Ma la stessa considerazione – pare logico – dovrebbe potersi applicare anche a quelle culture plurimillenarie, ad esempio quelle mesopotamiche e quella egizia, che in questo saggio Vegetti non considera. Esisteva un concetto analogo alla ‹eudaimonia› greca anche presso questi popoli?

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venerdì 15 marzo 2019

Vegetti, dallo gnothi sauton alla humilitas cristiana

Da Mario Vegetti, ‹L’etica degli antichi›, Laterza (§ 5.3, p. 124):
«[…] la ‹sophrosyne› […] non costituisce invece l’eccellenza di alcuna funzione. Essa ha piuttosto un ruolo censorio rispetto ai desideri irrazionali del terzo gruppo [i produttori], comporta l’interiorizzazione del consenso a uno stato di inferiorità e sudditanza; […] originata piuttosto dalla tradizione delfica del “conoscere se stessi” […] e destinata semmai a continuarsi nella ‹humilitas› dei cristiani».
In questo capoverso stimolante e chiarificatore, Vegetti collega la ‹sophrosyne› (temperanza), virtù politica (in quanto legata alla ‹polis›) per eccellenza, da un lato al famoso ‹gnothi sauton› (γνῶθι σαυτόν, o γνῶθι σεαυτόν) iscritto nel tempio di Apollo a Delfi (ma di origine verosimilmente orientale); dall’altro alla ‹humilitas› dei cristiani, che ne faranno un efficace strumento di controllo sociale nelle mani del potere politico tardo imperiale – arma a doppio taglio, però, perché metterà un enorme potere nelle mani del clero, potere che in buona misura detiene tuttora.

NOTA: il 5° capitolo, da cui è tratto il passo citato sopra, è quello dedicato all’esame della ‹Repubblica› di Platone (tit. orig. Πολιτεία); la suddivisione della popolazione in 3 gruppi – governanti, militari e produttori – cui si fa riferimento è quella prospettata da Platone in quell’opera.

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martedì 12 marzo 2019

Vegetti e l’Etica degli antichi

UN COMMENTO GENERALE ALL’OPERA, MA SOPRATTUTTO AL SUO TITOLO

Ma l’etica “degli antichi” è identificabile ‹tout-court› – come Vegetti sembra dare per scontato – con quella (dei filosofi) di lingua greca? Saranno pur esistite tematiche di tipo “etico” in altre civiltà, anche migliaia di anni più antiche di quella greca, che pure avevano visto l’affermarsi di grandi agglomerati di tipo urbano, com’era avvenuto in Mesopotamia e in Egitto, per non menzionare paesi ancora più orientali – oppure no?

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N.B.: Questa è una semplice annotazione di prova.