martedì 28 gennaio 2020

Ellenberger, la psichiatria dinamica e la cerimonia dello “zar”

Nel primo capitolo della sua notissima opera sulla Storia della psichiatria dinamica, intitolata ‹La scoperta dell’inconscio› (1970; edizione italiana Universale scientifica Boringhieri 1976, 1986), Henri F. Ellenberger passa in rassegna i metodi di terapia e guarigione usati dalla medicina primitiva e nei riti tradizionali, con l’intento di mostrare come da essi si sia sviluppata gradualmente la moderna psicoterapia; fra gli altri esempi, riporta la descrizione di una cerimonia, chiamata ‹zar›, tradizionalmente usata in Egitto per lenire – così almeno parrebbe – la cronica insoddisfazione sessuale di donne appartenenti alle “classi sociali più basse”. Alle pp. 29-30 possiamo leggere quanto segue:

Probabilmente l’appagamento di desideri frustrati svolge una funzione decisiva in taluni esorcismi e in altre procedure terapeutiche. Bruno Lewin ha mostrato come l’appagamento per sostituzione di desideri sessuali possa spiegare i successi terapeutici dello ‹zar› egiziano.
La cerimonia dello ‹zar› è eseguita in Egitto, tra le classi sociali più basse, come trattamento per donne nevrotiche e isteriche. È organizzata da una donna, la ‹kudya›, che è aiutata da tre altre donne che cantano, danzano, e suonano il tamburo. La partecipazione è limitata esclusivamente a donne. Dopo alcuni riti la paziente, vestita da sposa, è portata nella stanza della ‹kudya›. Si sacrifica un animale, si brucia dell’incenso, poi la paziente viene svestita e indossa una camicia bianca. Allora la ‹kudya› inizia a danzare come in trance; i suoi movimenti aumentano gradualmente d’intensità finché cade al suolo, esausta. Dopo un poco, la musica riprende, dapprima con tono lento e gentile; la ‹kudya› evoca lo ‹djinn› che si suppone sia il suo amante. Musica e danza ridiventano frenetiche e nella trance la ‹kudya› cede al suo amante immaginario, con movimenti orgiastici, e cade a terra una seconda volta, invitando altri demoni a venire. La paziente si unisce alla ‹kudya› nella danza frenetica e le altre donne si uniscono a loro, finché tutte buttano via le vesti e, nella trance, sono possedute sessualmente dagli ‹djinn›. Lewin afferma che una parte considerevole delle pazienti ottengono effettivamente qualche giovamento da tali cerimonie. Alcune donne ricorrono allo ‹zar› ogni mese. La maggior parte di queste donne sono frigide, sposate infelicemente, e lo ‹zar› fornisce loro l’unica gratificazione sessuale da esse provata [49].
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Dalla data indicata nella nota (riportata qui sotto) si direbbe che la pratica fosse ancora in uso a metà del secolo scorso, e ciò potrebbe suggerire una curiosa analogia con il tarantismo pugliese studiato da Ernesto de Martino:

[49]. B. Lewin, ‹Der Zar, ein ägyptischer Tanz zur Austreibung böser Geister bei Geisteskrankheiten, und seine Beziehungen zu Heiltanzzeremonien anderer Völker und der Tanzwut des Mittelalters›, Confinia psychiat., vol. 1, 177-200 (1958).

Il titolo dell’articolo citato fa riferimento al Medioevo (‹Mittelalter›), ma sarebbe interessante sapere se le origini di questo tipo di “cerimonia” siano antecedenti all’avvento dell’Islam, e se essa sia potuta sopravvivere nei secoli rimanendo inglobata nelle pratiche religiose dominanti, proprio come accadde per il tarantismo nella tradizione cristiana.

NOTA: in effetti, la ‹Tanzwut des Mittelalters› era un’ondata epidemica di ballo compulsivo che imperversò nell’Europa continentale tra il XIV e il XVII sec., nota anche come ‹Chorea› (questo nome le fu dato da Paracelso), “ballo di san Giovanni battista” oppure “di san Vito”; si veda wikipedia in inglese (https://en.wikipedia.org/wiki/Dancing_mania), o anche la pagina in tedesco (https://de.wikipedia.org/wiki/Tanzwut); quest’ultima menziona anche la “Tarantella” pugliese; curiosamente non esiste invece una pagina in italiano dedicata all’argomento.


Come mostrato dal dipinto di Pieter Brueghel il Giovane riportato qui sopra, della musica veniva abitualmente suonata durante le crisi, perché si riteneva potesse attenuarne l’intensità.


Il sommario dell’opera di H.F. Ellenberger è consultabile qui.

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domenica 5 gennaio 2020

De Martino, l’‹atai› dei melanesiani e l’anima occidentale

Nel secondo capitolo del suo saggio ‹Il mondo magico› (ed. Bollati Boringhieri 1997), Ernesto de Martino riporta la descrizione da parte di un certo Codrington (un missionario anglicano che operò per oltre vent’anni in Melanesia) del concetto di ‹atai› presso gli indigeni di Mota, e chiarisce come la pervasiva convinzione che esista un’‹anima›, ormai costitutiva della cultura occidentale, abbia impedito al missionario antropologo di comprendere il vero significato di ‹atai›. Alle pp. 77-79 possiamo leggere quanto segue:
Il tema della presenza personale che rischia di perdersi e che si riscatta da questo rischio può essere assai bene illustrato attraverso l’analisi dell’‹atai› degli indigeni di Mota. «La parola ‹atai›, — scrive Codrington — sembra aver avuto a Mota il senso proprio e originario di designare qualche cosa legata in modo particolare e intimo a una persona, e sacro per essa, ‹qualche cosa che ha colpito la sua immaginazione nel momento in cui è stata percepita›, in guisa che le è apparsa meravigliosa, o che altri le abbiano fatto apparire la cosa come tale. Quale che sia questa cosa, l’uomo ha creduto trattarsi del riflesso (‹reflection›) della propria persona: essa e il suo ‹atai› prosperano, patiscono, vivono e muoiono insieme. Ma non bisogna supporre che la parola presa dapprima in questo senso sia stata presa a prestito, e quindi utilizzata come derivato per designare l’anima. Questa parola porta in sé un senso applicabile parimenti a questo secondo io, l’oggetto visibile così misteriosamente legato all’individuo, e all’altro secondo io che noi bianchi chiamiamo anima» [17]. Il documento è viziato dal presupposto dogmatico che gli indigeni di Mota abbiano una esperienza interna della loro persona affatto identica a quella del missionario cristiano che si prova a descrivere le loro credenze. Codrington si pone davanti ai suoi Melanesiani senza le dovute garanzie metodologiche per assicurarsi una presenza mediata e garantita nell’oggetto della ricerca, e tende quindi a far valere, nella interpretazione del dato, il bagaglio di esperienze della propria formazione culturale, non escluso il concetto di «anima», così ricco di risonanze storiche. Ma appunto per questo il documento, sottoposto a una nuova interpretazione da parte di un etnologo storicamente orientato, può offrire alla comprensione un aiuto prezioso. Se infatti noi consideriamo come vero documento non già ciò che Codrington riferisce sul significato del termine ‹atai›, ma il modo col quale la formazione culturale del missionario Codrington reagisce innanzi al complesso di fatti culturali designati dal termine ‹atai›, potremo trarre conclusioni che illuminano, contemporaneamente, i due mondi culturali dal cui incontro è nato il documento [18].
Secondo quanto riferisce Codrington l’‹atai›, come esperienza e come rappresentazione, si costituirebbe in occasione della percezione di una cosa che «colpisce l’immaginazione», che desta «meraviglia» e che comunque suscita nel percipiente una vivace reazione affettiva. Ma questa presunta genesi psicologica dell’‹atai› non spiega nulla, non è individuante. Cose che «colpiscono l’immaginazione», che ci sorprendono o ci meravigliano, ne incontriamo spesso nella nostra giornata: ma non per questo ne facciamo il nostro ‹atai›. Tra il sentimento della meraviglia e l’‹atai› c’è un jato, che appare incolmabile fin quando seguiteremo, come fa il Codrington, a partire dal dogmatico presupposto di un «ci sono» magico deciso e garantito, che si meraviglia o si spaventa senza rischiare di diventare la cosa che meraviglia o che spaventa.
Per la comprensione dell’‹atai› come istituto culturale noi siamo dunque rinviati all’angoscia esistenziale magica, e al dramma del riscatto che in essa affonda le sue radici. La possibilità di diventare immediatamente un certo oggetto emozionante (sorprendente, pauroso e simili), avvertita angosciosamente come rischio, esige compenso e riscatto. La presenza è fascinata, rischia di smarrirsi, di restar polarizzata nell’oggetto, senza possibilità di andar oltre di esso, e per ciò senza potersi mantenere come presenza. Il riscatto sta nello sperimentare e nel rappresentare l’oggetto come ‹alter ego›, col quale si stabiliscono rapporti regolati e durevoli. La presenza non ha ancora la forza di «gettare davanti a sé» l’oggetto, vincendo la carica emozionale con cui esso si istituisce come contenuto della presenza: il processo di obiettivazione si compie quindi a metà, nella forma di un compromesso, nel quale la presenza che rischia di perdere ogni orizzonte si riconquista fissando la propria problematica unità nella problematica unità della cosa. Attraverso questo compromesso paradossale e in virtù del rapporto che ne segue, viene resa possibile una vera e propria pedagogia dell’esserci come presenza unitaria. Il rischioso processo di annientamento, il mero abdicare, sono qui arrestati in virtù di una creazione culturale suscettibile di sviluppo e di significato, e che fa valere, nel modo che può, il momento della presenza che vuole esserci nel mondo. Il prodotto di questa creazione (cioè il rapporto fra l’‹ego› e l’‹alter ego›) porta tutti i segni del dramma esistenziale di cui costituisce la problematica lisi: l’‹atai› è legato all’individuo da una intima solidarietà di destino, entrambi «prosperano, patiscono e muoiono insieme», e al tempo stesso (come Codrington rileva) è l’individuo, sebbene si tratti di un essere problematico, ancora incluso nella decisione umana. Da ciò deriva l’impossibilità di penetrare anche di poco col nostro concetto di «anima» l’esperienza e la rappresentazione dell’‹atai›. Il concetto di anima presuppone già scontato il processo storico del costituirsi del «ci sono», e sorge come riflessione ulteriore sul dato garantito e consolidato dell’esserci come presenza unitaria. L’‹atai› invece diventa comprensibile solo per entro un mondo storico in cui la individuazione è ancora un compito, ed esprime il dramma della presenza che, davanti al rischio di annientarsi nel mondo, si ritrova e si possiede nell’‹alter ego[19].

Riportiamo qui di séguito anche le note relative al brano, tra le quali l’ultima (la 19) ci sembra di particolare interesse:

[17]. R.H. Codrington, ‹The Melanesians›, 1871, p. 250. Il corsivo non è nel testo. Per rappresentazioni analoghe, vedi Lévy-Bruhl, ‹L’âme primitive› cit., 𝘱𝑎𝑠𝑠𝑖𝑚.

[18]. Sulla estensione della «‹wechselseitige Erhellung›» del Dilthey alla ricerca etnologica, vedi Mühlmann, ‹Methodik der Völkerkunde› cit., pp. 96-100.

[19]. Sono noti gli equivoci e i malintesi che nascono dall’impiego del «presupposto» anima da parte dei missionari. Un missionario europeo disse una volta ad alcuni indigeni australiani: — Io non sono uno, come credete, ma due —. E poiché gli indigeni a questa uscita si misero a ridere, il missionario incalzò: — Potete ridere come vi piace, ma vi dico che sono due in uno; il grande corpo che vedete è uno; in esso ve ne è un altro piccolo, invisibile. Il corpo grande muore ed è sepolto, il piccolo vola via quando quello grande muore —. E gli indigeni: — Sì, sì. Anche noi siamo due, anche noi abbiamo un piccolo corpo nel petto —. («Journal of the Anthropological Institute», VII, 1878, p. 282). Occorre dire che l’accordo è qui meramente verbale, e che l’equivoco nasce dal fatto che il missionario non ha percorso l’intervallo storico e culturale che lo separa dagli indigeni?


I due volumi già citati da EdM nello stesso capitolo sono i seguenti:
  • Lévy-Bruhl, ‹L’âme primitive›, Alcan, Paris 1927 (nota 13);
  • W.E. Mühlmann, ‹Methodik der Völkerkunde›, Stuttgart 1938 (nota 8).

Quanto a Robert Henry Codrington (1830-1922), egli fu il primo a studiare la società e la cultura dei melanesiani, e dal 1867 al 1887 fu a capo della scuola della locale missione (fonte: wikipedia, https://en.wikipedia.org/wiki/Robert_Henry_Codrington); fra le sue opere, quella dal titolo più simile a quello citato nella nota 17 risulta essere la seguente:
  • R.H. Codrington, ‹The Melanesians: Studies in their Anthropology and Folk-Lore› (1891);
la data indicata da EdM sarebbe dunque errata di una ventina d’anni.


Ci eravamo chiesti, allorché EdM aveva introdotto il suo concetto di “crisi della presenza”, come mai in Occidente la “presenza” demartiniana non fosse affetta da una tale labilità – eccettuati casi patologici – neppure tra i bambini e gli infanti, prima cioè che nella vita individuale si sia formato un ‹ego› stabile e consolidato. In altre parole: perché, nel corso dell’evoluzione dell’individuo non si passa per una “fase magica”, quando invece, secondo EdM, l’intera umanità sarebbe passata per una sorta di “epoca magica”?

Ora, questa esigenza dei melanesiani di porre la propria “presenza” in un oggetto esterno per averla in qualche modo garantita, insieme al termine “riflesso” (‹reflection›) usato da Codrington, ci richiama alla mente la “fase giubilatoria” che segue la visione di sé allo specchio, quando il bambino, tra gli 8 e i 10 mesi di età, riconosce se stesso nella figura veduta. Potrebbe essere questa immagine – la memoria di questa immagine – successivamente stabilizzata dal pensiero “sono io” (il “ci sono” di EdM), cioè dal pensiero verbale, che rende non necessario, superandolo in certezza e in affidabilità, l’‹atai› dei melanesiani?

Se così fosse, quale sarebbe il ruolo svolto dal concetto di ‹anima›, introdotto nella filosofia greca da Platone, e successivamente fatto proprio dal cristianesimo? Ovvero: siamo proprio sicuri che sia stata l’anima platonica ad assicurare e garantire la “presenza” dell’uomo occidentale? E le millenarie civiltà precedenti: i sumeri, i babilonesi, gli egizi, gli stessi ebrei che avrebbero introdotto il monoteismo (per non parlare dei cinesi o degli aztechi), non disponendo del concetto di anima, come avrebbero fatto a “garantirsi la presenza”?


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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