Il tema della presenza personale che rischia di perdersi e che si riscatta da questo rischio può essere assai bene illustrato attraverso l’analisi dell’‹atai› degli indigeni di Mota. «La parola ‹atai›, — scrive Codrington — sembra aver avuto a Mota il senso proprio e originario di designare qualche cosa legata in modo particolare e intimo a una persona, e sacro per essa, ‹qualche cosa che ha colpito la sua immaginazione nel momento in cui è stata percepita›, in guisa che le è apparsa meravigliosa, o che altri le abbiano fatto apparire la cosa come tale. Quale che sia questa cosa, l’uomo ha creduto trattarsi del riflesso (‹reflection›) della propria persona: essa e il suo ‹atai› prosperano, patiscono, vivono e muoiono insieme. Ma non bisogna supporre che la parola presa dapprima in questo senso sia stata presa a prestito, e quindi utilizzata come derivato per designare l’anima. Questa parola porta in sé un senso applicabile parimenti a questo secondo io, l’oggetto visibile così misteriosamente legato all’individuo, e all’altro secondo io che noi bianchi chiamiamo anima»[17] . Il documento è viziato dal presupposto dogmatico che gli indigeni di Mota abbiano una esperienza interna della loro persona affatto identica a quella del missionario cristiano che si prova a descrivere le loro credenze. Codrington si pone davanti ai suoi Melanesiani senza le dovute garanzie metodologiche per assicurarsi una presenza mediata e garantita nell’oggetto della ricerca, e tende quindi a far valere, nella interpretazione del dato, il bagaglio di esperienze della propria formazione culturale, non escluso il concetto di «anima», così ricco di risonanze storiche. Ma appunto per questo il documento, sottoposto a una nuova interpretazione da parte di un etnologo storicamente orientato, può offrire alla comprensione un aiuto prezioso. Se infatti noi consideriamo come vero documento non già ciò che Codrington riferisce sul significato del termine ‹atai›, ma il modo col quale la formazione culturale del missionario Codrington reagisce innanzi al complesso di fatti culturali designati dal termine ‹atai›, potremo trarre conclusioni che illuminano, contemporaneamente, i due mondi culturali dal cui incontro è nato il documento[18] .
Secondo quanto riferisce Codrington l’‹atai›, come esperienza e come rappresentazione, si costituirebbe in occasione della percezione di una cosa che «colpisce l’immaginazione», che desta «meraviglia» e che comunque suscita nel percipiente una vivace reazione affettiva. Ma questa presunta genesi psicologica dell’‹atai› non spiega nulla, non è individuante. Cose che «colpiscono l’immaginazione», che ci sorprendono o ci meravigliano, ne incontriamo spesso nella nostra giornata: ma non per questo ne facciamo il nostro ‹atai›. Tra il sentimento della meraviglia e l’‹atai› c’è un jato, che appare incolmabile fin quando seguiteremo, come fa il Codrington, a partire dal dogmatico presupposto di un «ci sono» magico deciso e garantito, che si meraviglia o si spaventa senza rischiare di diventare la cosa che meraviglia o che spaventa.
Per la comprensione dell’‹atai› come istituto culturale noi siamo dunque rinviati all’angoscia esistenziale magica, e al dramma del riscatto che in essa affonda le sue radici. La possibilità di diventare immediatamente un certo oggetto emozionante (sorprendente, pauroso e simili), avvertita angosciosamente come rischio, esige compenso e riscatto. La presenza è fascinata, rischia di smarrirsi, di restar polarizzata nell’oggetto, senza possibilità di andar oltre di esso, e per ciò senza potersi mantenere come presenza. Il riscatto sta nello sperimentare e nel rappresentare l’oggetto come ‹alter ego›, col quale si stabiliscono rapporti regolati e durevoli. La presenza non ha ancora la forza di «gettare davanti a sé» l’oggetto, vincendo la carica emozionale con cui esso si istituisce come contenuto della presenza: il processo di obiettivazione si compie quindi a metà, nella forma di un compromesso, nel quale la presenza che rischia di perdere ogni orizzonte si riconquista fissando la propria problematica unità nella problematica unità della cosa. Attraverso questo compromesso paradossale e in virtù del rapporto che ne segue, viene resa possibile una vera e propria pedagogia dell’esserci come presenza unitaria. Il rischioso processo di annientamento, il mero abdicare, sono qui arrestati in virtù di una creazione culturale suscettibile di sviluppo e di significato, e che fa valere, nel modo che può, il momento della presenza che vuole esserci nel mondo. Il prodotto di questa creazione (cioè il rapporto fra l’‹ego› e l’‹alter ego›) porta tutti i segni del dramma esistenziale di cui costituisce la problematica lisi: l’‹atai› è legato all’individuo da una intima solidarietà di destino, entrambi «prosperano, patiscono e muoiono insieme», e al tempo stesso (come Codrington rileva) è l’individuo, sebbene si tratti di un essere problematico, ancora incluso nella decisione umana. Da ciò deriva l’impossibilità di penetrare anche di poco col nostro concetto di «anima» l’esperienza e la rappresentazione dell’‹atai›. Il concetto di anima presuppone già scontato il processo storico del costituirsi del «ci sono», e sorge come riflessione ulteriore sul dato garantito e consolidato dell’esserci come presenza unitaria. L’‹atai› invece diventa comprensibile solo per entro un mondo storico in cui la individuazione è ancora un compito, ed esprime il dramma della presenza che, davanti al rischio di annientarsi nel mondo, si ritrova e si possiede nell’‹alter ego›[19] .
Riportiamo qui di séguito anche le note relative al brano, tra le quali l’ultima (la 19) ci sembra di particolare interesse:
I due volumi già citati da EdM nello stesso capitolo sono i seguenti:
- Lévy-Bruhl, ‹L’âme primitive›, Alcan, Paris 1927 (nota 13);
- W.E. Mühlmann, ‹Methodik der Völkerkunde›, Stuttgart 1938 (nota 8).
Quanto a Robert Henry Codrington (1830-1922), egli fu il primo a studiare la società e la cultura dei melanesiani, e dal 1867 al 1887 fu a capo della scuola della locale missione (fonte: wikipedia, https://en.wikipedia.org/wiki/Robert_Henry_Codrington); fra le sue opere, quella dal titolo più simile a quello citato nella nota 17 risulta essere la seguente:
- R.H. Codrington, ‹The Melanesians: Studies in their Anthropology and Folk-Lore› (1891);
Ci eravamo chiesti, allorché EdM aveva introdotto il suo concetto di “crisi della presenza”, come mai in Occidente la “presenza” demartiniana non fosse affetta da una tale labilità – eccettuati casi patologici – neppure tra i bambini e gli infanti, prima cioè che nella vita individuale si sia formato un ‹ego› stabile e consolidato. In altre parole: perché, nel corso dell’evoluzione dell’individuo non si passa per una “fase magica”, quando invece, secondo EdM, l’intera umanità sarebbe passata per una sorta di “epoca magica”?
Ora, questa esigenza dei melanesiani di porre la propria “presenza” in un oggetto esterno per averla in qualche modo garantita, insieme al termine “riflesso” (‹reflection›) usato da Codrington, ci richiama alla mente la “fase giubilatoria” che segue la visione di sé allo specchio, quando il bambino, tra gli 8 e i 10 mesi di età, riconosce se stesso nella figura veduta. Potrebbe essere questa immagine – la memoria di questa immagine – successivamente stabilizzata dal pensiero “sono io” (il “ci sono” di EdM), cioè dal pensiero verbale, che rende non necessario, superandolo in certezza e in affidabilità, l’‹atai› dei melanesiani?
Se così fosse, quale sarebbe il ruolo svolto dal concetto di ‹anima›, introdotto nella filosofia greca da Platone, e successivamente fatto proprio dal cristianesimo? Ovvero: siamo proprio sicuri che sia stata l’anima platonica ad assicurare e garantire la “presenza” dell’uomo occidentale? E le millenarie civiltà precedenti: i sumeri, i babilonesi, gli egizi, gli stessi ebrei che avrebbero introdotto il monoteismo (per non parlare dei cinesi o degli aztechi), non disponendo del concetto di anima, come avrebbero fatto a “garantirsi la presenza”?
Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.
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