giovedì 26 dicembre 2019

De Martino e il riscatto dell’ethos nel protocristianesimo

In appendice al saggio di Ernesto de Martino ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), viene riportato un articolo già pubblicato dall’autore nel 1964 sulla rivista «Nuovi Argomenti», col titolo ‹Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche›. In quest’articolo si trova riassunto per sommi capi il programma di ricerca che l’etno-antropologo intendeva sviluppare nella sua ultima monografia. Dopo aver elencato e sommariamente descritto i diversi tipi di documentazione che l’indagine si prefigge di prendere in considerazione e di confrontare fra loro, e cioè, sostanzialmente:
  1. il tema della crisi della società borghese, come espresso soprattutto nella moderna letteratura;
  2. l’apocalittica della tradizione giudaico-cristiana della letteratura paleo- e neotestamentaria;
  3. il mito delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo delle grandi religioni storiche;
  4. i movimenti religiosi millenaristici di emancipazione delle culture “primitive” in epoca postcoloniale;
  5. le manifestazioni psicopatologiche in cui intervengono situazioni di “fine del mondo”;
dopo aver quindi esaminato in dettaglio alcuni brani rappresentativi del 1° filone (ad es. ‹La nausea› di Sartre o ‹La noia› di Moravia), ed essersi soffermato su alcuni casi clinici indicativi delle “apocalissi psicopatologiche” (il 5° filone), nei quali si evidenziano vissuti analoghi di alterazioni nelle sensazioni corporee e nel rapporto con la realtà, così chiarisce il compito che spetta “allo storico della cultura e all’antropologo” (pp. 574-576):
Fin qui è stato messo l’accento sulle «somiglianze» fra l’apocalittica d’oggi e le apocalissi psicopatologiche. Quanto alle differenze, si potrebbe far ricorso a molteplici argomenti, tutti praticamente validi, per sottolinearle. Si potrebbe cioè osservare che un’opera culturale può serbar tracce di stati psichici morbosi, ma che in quanto ‹effettiva› opera culturale testimonia, almeno nel suo specifico carattere di opera dotata di valore, a favore del sano e non del malato; che alcune ‹pretese› opere culturali si riducono in realtà a stati psichici morbosi, senza che ciò significhi che i loro autori siano degli psicotici, perché potrebbe benissimo trattarsi di persone normali nella loro vita pratica, o un po’ eccentriche o al più leggermente nevrotiche; e infine che vi possono essere opere di alto significato culturale prodotte da individui che nel corso della loro biografia sono stati internati in qualche clinica neuropsichiatrica o che hanno concluso con una psicosi la loro vita altamente produttiva dal punto di vista culturale. Tuttavia per lo storico e per l’antropologo che si propone di ricostruire le genesi e la struttura dei prodotti della apocalittica d’oggi, non si tratta di enumerare statiche «somiglianze» o «differenze», ma di raggiungere di volta in volta, attraverso l’analisi, quel punto critico in cui le somiglianze rischiano di diventare identità, e in cui le differenze sono state — o ‹non› sono state — drammaticamente istituite. Le apocalissi psicopatologiche segnalano una possibilità non accidentale, ma permanente, delle apocalissi culturali, in quanto manifestano il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale storicamente determinato, di perdere qualsiasi possibilità dell’operabile secondo valori intersoggettivi comunicabili, di patire la caduta dello slancio verso la valorizzazione su tutto il fronte del mondanamente valorizzabile. Nella misura in cui ha luogo l’effettiva ripresa da questa rischiosa possibilità, le apocalissi culturali ridischiudono mediatamente la operabilità del mondo, la progettabilità comunitaria della vita umana, l’attiva testimonianza di effettive opere economiche, morali, giuridiche, politiche, artistiche, scientifiche, filosofiche: in tale mediata ripresa del mondano che si compie attraverso il vario simbolismo apocalittico e che si palesa nella concreta dinamica culturale di questo simbolismo, sta il reale momento escatologico racchiuso nelle apocalissi culturali e non già nell’‹escaton› paradisiaco o ultramondano considerato nella sua astratta formulazione [35]. Da questo criterio generale discende, per lo storico della cultura e per l’antropologo, il compito metodologico di individuare di volta in volta, anche per l’apocalittica d’oggi, l’opera mondana variamente qualificata che essa media e consente, risalendo la perigliosa china di cui l’apocalisse psicopatologica indica il rischio in modo esemplare. Nell’analisi dei prodotti dell’apocalittica d’oggi lo storico della cultura e l’antropologo sono quindi chiamati di volta in volta a misurare di quanto l’immediato finire della crisi radicale sia affrontato e oltrepassato nella sua incombenza paralizzante, nella sua attualità indicibilmente disforica, nella sua privata e incomunicabile fruizione euforica di paradisi terrestri e di ultramondi, ovvero nel suo furore distruttivo di tutto ciò che vive e che vale. Nell’analisi di questi prodotti spetta allo storico della cultura e all’antropologo il compito di determinare, attraverso tale misurazione, il mediato ricostituirsi — oltre la crisi — di un messaggio relativo alla vita e al mondo che continuano e si trasformano; e spetta altresì il compito di indicare quando questo messaggio è incerto o assente, e quando infine, nel silenzio di ogni effettiva comunicazione, ricalca i modi stessi della crisi: ma proprio per assolvere questo compito, lo storico della cultura e l’antropologo non possono non avvalersi del sussidio euristico del documento psicopatologico.

In questo contesto, EdM evidenzia, nella nota, il particolare rilievo dell’apocalittica nella tradizione “giudaico-cristiana” (2° filone), e il ruolo centrale che essa avrebbe svolto nella storia fondativa della civiltà occidentale:
[35]. È questo, per lo storico della cultura e per l’antropologo, il criterio fondamentale di valutazione di tutte le apocalissi culturali, religiose o profane che siano. Così per esempio il tema apocalittico protocristiano manifesta il suo reale momento escatologico proprio nel continuo differimento della parusia e nel margine che in tal modo viene lasciato alla testimonianza mondana della ‹charitas› che sta al di sopra della fede e della speranza (‹Prima lettera ai Corinzi›, 13.13). Nel periodo compreso fra la morte di Gesù e la Pentecoste si distende l’epoca critica per eccellenza della comunità cristiana primitiva, la grande prova della sua produttività culturale. Questa epoca critica dovette assumere la forma di un’attesa spasmodica del ritorno del Risorto e del compimento immediato della sua promessa: a ciò accennano le apparizioni ‹post mortem› di Gesù agli apostoli e ai discepoli. Ma questi «ritorni del morto-risorto», che indirettamente testimoniano di un’apocalisse imminente che rischiava di non lasciar più nessun margine operativo mondano, appaiono nel Vangelo riplasmati nel senso di restituire progressivamente respiro a quel margine, e di consentire quindi il dispiegarsi di una «civiltà cristiana». Così l’Ascensione chiude il ciclo delle apparizioni di Gesù, suggellandone la fine con l’invito di non guardar più verso il cielo nell’attesa dell’immediato compimento della promessa: e con l’ultima apparizione di Gesù non la data della parusia viene comunicata, ma l’annunzio di una opera da compiersi sino agli estremi confini della terra mercé dello Spirito Santo e della ‹dynamis› da esso conferita. In questa riplasmazione gli stessi «ritorni del morto-risorto» vissuti nel periodo della crisi vengono assunti come prova della Risurrezione, e l’ultima apparizione e la Pentecoste acquistano il significato di garanzia del ritorno definitivo di Gesù, senza dubbio certissimo, ma abbastanza indeterminato nel suo «quando» da lasciare aperta l’epoca della testimonianza cristiana in questo mondo, l’epoca della Chiesa di Cristo. Si venne così istituendo quella caratteristica tensione cristiana fra il «già» avvenuto (la morte, la risurrezione, la promessa del Cristo) e il «non ancora» (la seconda parusia), una tensione nella quale si iscrive il «qui» e l’«ora» della testimonianza nel mondo, secondo una dialettica operativa che racchiude il momento realmente escatologico di questa illustre apocalittica culturale.

La funzione “positiva” (nel senso del riscatto dell’ethos del trascendimento) del cristianesimo sarebbe dunque nella dilazione (neotestamentaria) a tempo indeterminato della “2ª parusia”, dilazione che avrebbe consentito il dispiegarsi (o ridispiegarsi) dell’ethos, con conseguente recupero e rivalorizzazione dell’esistenza terrena.

C’è da chiedersi però quale fosse la necessità di tale recupero per un mondo che era all’epoca quasi interamente estraneo alla tradizione cristiana (e giudaica). In altre parole, l’analisi della dinamica crisi-recupero tutta interna alla concezione cristiana non spiega l’eventuale concomitante crisi della cultura pagana (cioè politeista), il perché tale cultura, che pure era durata per millenni, non fu più capace di trovare un ‹escaton› adeguato all’interno della propria concezione del mondo (e dell’essere umano), o finì per perdere credibilità, cedendo alla repentina diffusione del cristianesimo nei primi secoli dell’“era vulgaris”.


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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