lunedì 25 novembre 2019

Marcello Massenzio, de Martino e la crisi della presenza

Nella sua introduzione alla nuova edizione del saggio postumo di Ernesto de Martino, ‹La fine del mondo - Contributo all’analisi delle apocalissi culturali› (ed. Einaudi 2019), Marcello Massenzio, a p. 34, scrive:
Le civiltà dette primitive, il cui insieme costituisce ciò che De Martino chiama «il mondo magico», sono caratterizzate dal «dramma storico» che le pervade, e che coinvolge la presenza umana, l’essere al mondo, un concetto, questo, che De Martino elabora a partire dalla nozione heideggeriana di ‹Dasein›. L’ordine culturale esiste nella misura in cui la presenza umana, in quanto soggetto, è capace di opporsi al mondo esterno, per forgiarlo. Il rischio permanente della sua scomparsa, qualora si radicalizzi, implica la disgregazione di questo legame: ciò si verifica quando la presenza umana defluisce nel mondo esterno o, al contrario, quando quest’ultimo invade la presenza. Le istituzioni magiche, nate per contrastare tale eventualità, si propongono di garantire il ruolo attivo della presenza umana, in permanente equilibrio fra esserci e non esserci; esse testimoniano dell’esigenza primaria d’impedire alla presenza, alla cultura e alla storia di sprofondare nel nulla. È in questo retroterra che affonda le radici il progetto di ricerca sulle apocalissi.

La dinamica storica del mondo magico si misura al vaglio di criteri che non sono quelli dell’Occidente; essa riposa sulla tensione che oppone la ricerca della salvezza alla minaccia della caduta, la volontà di esserci della presenza al rischio di non poter essere in nessun mondo culturale possibile. Il dramma magico è contenuto interamente nel contrasto dialettico fra queste due polarità. Il mondo magico è «diverso» dal nostro, nella misura in cui non gli appartiene la «presenza che sta garantita in cospetto di un mondo trattenuto nei suoi cardini» [6]:
Un’altra epoca, un mondo storico diverso dal nostro, il mondo magico, furono impegnati appunto nello sforzo di fondare la individualità, l’esserci nel mondo, la presenza, onde ciò che per noi è un dato o un fatto, in quell’epoca, in quell’età storica, stava come compito e maturava come risultato [7].

Entrambe le note rimandano al saggio ‹Il mondo magico› – composto da Ernesto de Martino durante gli anni di guerra, ma pubblicato soltanto nel 1948 – si veda la pagina dedicata allo studioso da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Ernesto_de_Martino):

[6]. E. De Martino, ‹Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo›, Boringhieri, Torino 1997, 4ª ed., p. 151.

[7]. 𝐼𝑏𝑖𝑑., p. 161.


Ci soffermiamo sulle parole (di Massenzio): «[…] la presenza umana, in quanto soggetto, è capace di opporsi al mondo esterno, per forgiarlo. […] la disgregazione di questo legame […] si verifica quando la presenza umana defluisce nel mondo esterno o, al contrario, quando quest’ultimo invade la presenza». Non ci sembra ben chiaro se il “mondo esterno” sia quello naturale oppure quello umano (per quanto il verbo “forgiarlo” farebbe propendere per il primo, tuttavia un fastidioso dubbio ci resta). Mentre è facilmente intuibile come la realtà esterna possa influire sulla presenza (basti pensare a come reagiamo alle sollecitazioni esterne: dalla superstizione, al timore del contagio, vuoi fisico vuoi mentale, fino alla possessione, ai limiti quella “demoniaca”), ci riesce invece oscuro il “defluire” della presenza nel mondo esterno. Il concetto sarà approfondito nel secondo capitolo del volume, dedicato a ‹Le apocalissi psicopatologiche›.

Ad ogni modo, ci pare che la “crisi della presenza” sia indiscutibilmente legata alla precaria separazione tra ciò che consideriamo il Sé e ciò che è invece “esterno”, o “estraneo”. E ci tornano in mente le parole di Freud ne ‹La negazione› (1925):
«Per l’Io ciò che è male, ciò che è estraneo all’Io, ciò che si trova al di fuori, sono in un primo momento identici […]. Il contrasto fra soggettivo e oggettivo non esiste fin dall’inizio. Tuttavia, il compimento delle funzioni di giudizio è reso possibile soltanto dal fatto che la creazione del simbolo della negazione ha consentito al pensiero un primo livello d’indipendenza dagli effetti della rimozione e con ciò anche dalla costrizione esercitata dal principio del piacere».
Parole puntualmente rovesciate da Massimo Fagioli nello scritto ‹Una depressione› (1993):
«Per l’Io ciò che è male, ciò che è estraneo all’Io, ciò che si trova al di fuori, ‹non› sono in un primo tempo identici […]. Il contrasto tra soggettivo e oggettivo esiste fin dall’inizio […]».

Ovvero: Freud sostiene che la mancata distinzione tra il Sé e l’esterno a sé è naturale, congenita, quindi – e non potrebbe essere diversamente – di origine biologica; Fagioli afferma invece che essa è patologia, che si instaura in séguito a rapporti interumani deludenti, e questa concezione si lega alla convinzione che sia possibile ripristinare la sanità originaria sia direttamente con la cura psicoterapica, sia modificando i rapporti sociali mediante la lotta politica.

De Martino sembra invece ritenere che questa distinzione, da lui intesa come necessario preupposto dell’operare umano nel mondo, sia in quanche modo insita nella natura umana stessa, ma per qualche motivo – da lui non chiarito – sia precaria, cioè continuamente soggetta al rischio di perdersi, e necessiti pertanto di uno sforzo continuo, la produzione culturale, per mantenerla.

Tornando al saggio demartiniano, in cui vengono contrapposti il mondo occidentale (a derivazione dal cristianesimo e dal ‹logos› greco) e il “mondo magico” (che accomunerebbe in un unico calderone tutte le altre e precedenti culture), da alcuni passi sembrerebbe che in verità neppure nella cultura occidentale la presenza sia poi talmente garantita; quest’essere garantita sarebbe più che altro apparenza, illusione, risultante dalla messa in atto di strategie che forse non saranno propriamente “magiche”, purtuttavia non se ne discostano più di tanto.

A questo punto potremmo anche chiederci che ruolo abbiano la scienza, il linguaggio e la conoscenza “scientifici”, la ricerca e la divulgazione, non sempre corretta, dei suoi risultati, nel mettere al sicuro la “presenza” dal rischio demartiniano di non esserci.

Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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