mercoledì 27 novembre 2019

Ernesto de Martino e la fine del mondo nel 1964

A Perugia, nel maggio del 1964, Ernesto de Martino partecipa a un convegno internazionale che ha per tema “Il mondo di domani”, organizzato dal filosofo cristiano Pietro Prini, che all’epoca insegna a Perugia e che quello stesso anno ottiene la cattedra di Storia della filosofia all’Università “La Sapienza” di Roma. Al convegno partecipano intellettuali di diversa provenienza, scientifica e artistica, invitati a definire i contorni della civiltà contemporanea a partire dalle discipline di cui ciascuno di loro è un eminente rappresentante. Per la Francia, ad esempio, sono presenti Paul Ricœur, Jean Wahl, Gabriel Marcel, Octave Mannoni e Pierre Schaeffer; per l’Italia, Guido Calogero per la filosofia e Umberto Eco per l’estetica. In questo contesto, de Martino decide di intervenire con una relazione che – come egli stesso farà rilevare nelle battute iniziali – a più d’un ascoltatore potrebbe sembrare “impertinente”.

Il suo intervento è infatti intitolato “Il problema della fine del mondo”, ed è riportato nel saggio postumo ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), alle pp. 69-76; le informazioni fornite sopra sono liberamente tratte dalla premessa di Giordana Charuty, a p. 67.

Riproduciamo qui il testo (incluse le note ad esso relative) perché ci sembra descrivere in modo conciso e avvincente la ricerca nella quale de Martino era impegnato in quegli anni; perché sotto diversi aspetti le sue considerazioni ci sembrano ancora straordinariamente attuali; e anche perché vi sono menzionati i nessi con alcuni concetti tuttora ricorrenti come il ‹Dasein› (il noto “esserci” degli esistenzialisti) e la ‹Geworfenheit› di Heidegger, oppure l’istinto di morte (che de Martino attribuisce a Freud).


Il problema della fine del mondo

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Quando il prof. Prini ha annunziato l’argomento di questo mio intervento si è diffusa nella sala una reazione che nei vecchi resoconti parlamentari era indicata con la parola ‹sensazionale›. Fra l’altro deve esser sembrato a molti che in un convegno sulle prospettive del mondo di domani fosse almeno impertinente (nel duplice senso di non pertinente e di monellescamente provocatorio) chiedere la parola per ricordare ai convenuti che «domani» il mondo, in quanto mondo culturale umano, può finire e che una qualsiasi risposta a come possa e debba essere «domani» il mondo comporta la domanda preliminare se «domani» vi sarà un mondo e se oggi non vi sia il rischio che almeno certe forze cospirano alla sua fine. Altri ancora fra i convenuti avranno addirittura pensato che il solo porsi un problema del genere è leggermente ‹iettatorio›, nel senso napoletano del termine: e che il portare l’attenzione su tale possibilità estrema ha l’unico effetto di deprimere gli animi con sinistre evocazioni, e di indurre a quei comportamenti di difesa tra il serio e il faceto che costituiscono gli scongiuri adoperati in questa circostanza. Debbo però invitare i presenti a superare queste reazioni immediate, rassicurandoli al tempo stesso che il mio intervento non ha nessuna intenzione di deprimere gli animi, ma, semplicemente, di portare un contributo sia pure modesto alla giusta impostazione di un problema che proprio se ignorato o leggermente accantonato può comportare soluzioni catastroficamente negative per l’intera umanità.

In fondo come problema preliminare rispetto a quello del «mondo di domani» sta il rapporto uomo-mondo così come esso si configura nella moderna consapevolezza culturale. Io credo che questo rapporto si articola in due momenti distinti e congiunti, di cui il mondo contemporaneo mostra di avere una sensibilità particolarmente acuta. Per un verso il mondo, cioè, la società degli uomini attraversata da valori umani e operabile secondo questi valori, non ‹deve› finire, anche se — ed anzi proprio perché — i singoli individui fruiscono di una esistenza finita; per un altro verso il mondo ‹può› finire, e non tanto nel senso naturalistico di una catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta terra, ma proprio nel senso che l’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la stessa possibilità della cultura. Se dovessi individuare la nostra epoca nel suo carattere fondamentale, direi che essa vive come forse non mai è accaduto nella storia nella drammatica consapevolezza di questo ‹deve› e di questo ‹può›: nell’alternativa che il mondo ‹deve› continuare ma che ‹può› finire, che la vita deve avere un senso ma che può anche perderlo per tutti e per sempre, e che l’uomo, solo l’uomo, porta intera la responsabilità di questo deve e di questo può, non essendo garantito da nessun piano della storia universale operante indipendentemente dalle decisioni reali dell’uomo in società.

Senza dubbio nella coscienza culturale della nostra epoca il rapporto fra ciò che potremmo chiamare l’ethos del trascendimento della vita nei valori intersoggettivi e ciò che invece rappresenta il crollo di questo ethos con la correlativa perdita di senso e di operabilità del mondo, presenta una grande varietà di concrete manifestazioni che una ricerca sistematica dovrebbe mettere in evidenza e sottoporre al giudizio. La manifestazione estrema, in cui il rischio si palesa nel modo più radicale, acquista aspetti nettamente psicopatologici, come per esempio nel ‹Weltuntergangserlebnis› schizofrenico: ma anche senza giungere a questi casi-limite, sfumature morbose del genere si avvertono copiose nel crollo dei linguaggi artistici, così come in certe correnti esistenzialiste e in certe modalità del costume. Quando Heidegger in ‹Sein und Zeit› teorizza la ‹Geworfenheit› dell’esserci, quando Sartre in ‹La nausée› illustra il mondo indigesto spalancantesi sul nulla, quando D.H. Lawrence lamenta che abbiamo perduto il sole, i pianeti, e il Signore con le sette stelle dell’orsa ricevendo in cambio il «povero, piatto, meschino mondo della scienza e della tecnica» [2], quando Moravia in ‹La noia› descrive «la malattia degli oggetti», noi ravvisiamo in queste espressioni culturali pur così diverse una ‹Stimmung› comune, la segnalazione di uno stesso rischio radicale, e cioè la possibilità di un mondo che crolla in quanto crolla lo stesso ethos culturale che lo condiziona e lo sostiene. D’altra parte espressioni culturali così eterogenee come l’istinto di morte di Freud o il crollo dell’occidente di Spengler sembrano accennare alla stessa direzione.

Non è improbabile che una così acuta coscienza culturale del finire del mondo nell’epoca moderna abbia tratto alimento anche dalla possibilità della guerra nucleare o dai terrificanti episodi di genocidio dei campi di morte nazisti. Ma già il fatto che abbiamo avuto bisogno dei 200.000 di Hiroshima o dei 6.000.000 di ebrei periti nei campi di sterminio ci indica quanto profonde siano le radici della nostra crisi. Dovrebbe infatti bastare l’immagine di un solo volto umano che porta i segni della violenza e della offesa subita da un altro uomo, per porre in movimento, in chi guarda quel volto, la drammatica tensione del mondo che «può» ma «non deve» finire. Che i volti perduti per colpa umana siano 200.000 o 6.000.000 non aggiunge nulla allo scandalo di quel solo volto, e non occorre altro che quel solo volto per mettere in causa il mondo e per mobilitare l’ethos culturale umano che sempre di nuovo è chiamato a rendere più abitabile e più familiare il pianeta terra per ciascuno e per tutti. Ma, a parte Hiroshima e i campi di sterminio, vi sono altri aspetti del mondo moderno che hanno reso particolarmente acuta la nostra sensibilità per il rischio della fine. Le rapidissime trasformazioni nei generi di vita introdotte dal diffondersi del progresso tecnico, le correnti migratorie dalla campagna alla città, da regioni sottosviluppate a regioni industriali, il salto improvviso da economie più o meno arretrate o addirittura da società tribali a economie e società ormai inserite nel mondo occidentale, hanno condotto alla crisi un gran numero di patrie culturali tradizionali senza che tuttavia la integrazione nella nuova patria culturale avesse avuto il tempo di maturarsi. I rapidi processi di transizione, le lacerazioni e i vuoti che essi comportano, la perdita di modelli culturali in una situazione che non può più utilizzare quelli familiari, inducono crisi vistose e ripropongono nel modo più drammatico i problemi elementari del rapporto col mondo. Solo in questo quadro noi riusciamo a comprendere, per esempio, le riflessioni di un operaio francese come Navel, che nei suoi ‹Travaux› espone in forma autobiografica il passaggio dalla sua origine contadina alla condizione operaia esprimendo fra l’altro in modo ricorrente la riconquista del mondo e del proprio corpo che la vita di una fabbrica moderna ponevano in causa in modo radicale. A sera l’operaio Navel torna nella sua camera e si prepara la cena; ed ecco che egli si sorprende nell’atto di aprire lo sportello della credenza e di prendere la saliera per salare la minestra:
La mano, sensibile alle percezioni successive del legno della credenza, del ferro della maniglia, del vetro della saliera e del pizzico di sale, mi meraviglia: mi stupivo di trovare un tal tesoro di conoscenze nella semplice pelle delle dita. Cercavo di vivere completamente risvegliato, sempre cosciente del momento, della cosa, del gesto. L’adulto vive addormentato nelle sue abitudini. È sempre bello apprendere la vita, e tutto d’un tratto io apprendevo all’albero verde del contatto diretto. Non c’è che la vita di cui ci si meraviglia che vale la pena di essere vissuta. Mentre la mano teneva il suo pizzico di sale in minuti cristalli, io sapevo ch’essa era simile a quelle di tutte le nonne della terra quando fanno il gesto di aprire la saliera per salare la minestra, il gesto che avevo visto fare a mia madre; ed io dialogavo con lei nella rapidità del sogno: «Io salo la mia minestra, la mia mano è la tua, tu non sei morta». Ma al di là di mia madre, io entravo in rapporto con tutti i morti, tutte le presenze che mi avevano dato una mano come questa simile alle altre. L’uomo vive con le sue mani. La mia aveva appartenuto ad una generazione di servi. Aveva spesso riempito la sua solitudine sul fornello bruciante di una pipa, dopo la giornata passata sul manico di una scure nelle foreste coperte di neve. La vita è ciò che si tocca, le stesse sensazioni inducono gli stessi sogni. Boscaioli, vignaioli, contadini, dandomi la loro mano mi avevano dato anche quella che era passata nelle loro teste, rosse o bionde che fossero [3].

Mi accadde una volta, percorrendo in macchina una strada della Calabria, di chiedere a un vecchio pastore alcune indicazioni su un certo bivio di cui andavo in cerca: e poiché le sue informazioni erano poco chiare, gli proposi di accompagnarmi in macchina sino al bivio in questione, per poi riportarlo sino al punto in cui ci eravamo incontrati. Il vecchio pastore accettò con estrema diffidenza il mio invito, e durante il percorso guardava con crescente agitazione attraverso il finestrino, come per cercare qualche cosa di molto importante. D’un tratto gridò: «Dov’è il campanile di Marcellinara? Non lo vedo più!» Effettivamente il campanile di questo villaggio era scomparso all’orizzonte, ma con ciò si era profondamente alterato il mondo familiare, lo spazio domestico, di questo arcaico pastore, il quale per tale scomparsa esperiva angosciosamente il crollo della sua angustissima patria culturale, con l’abituale paesaggio che faceva da scenario quotidiano ai suoi spostamenti col gregge. Accadde così che non fu possibile andar oltre in compagnia del nostro pastore, e fu necessario riportarlo indietro al punto di partenza, dove salutò con gioia il riapparire del campanile smarrito. È questo un esempio estremo, e quasi caricaturale, del legame con una patria culturale come condizione di operabilità del mondo: ma tale legame è ben noto allo studioso delle civiltà umane, e risalta in modo particolare nelle civiltà arcaiche.

Che cosa può succedere quando in una situazione coloniale una determinata corrente migratoria muta improvvisamente di ‹habitat› e passa da condizioni tribali di vita a una civiltà di tipo industriale è stato più volte segnalato: qui ricorderò il caso di cui ha avuto occasione di occuparsi l’etnologo Rouch ad Accra, nella Costa d’Oro, quando vi era ancora il regime coloniale britannico; un caso particolarmente interessante, documentato fra l’altro anche da un documentario dello stesso Rouch, che fu proiettato alcuni anni or sono al festival internazionale del film etnografico di Firenze [4]. Si tratta di una corrente migratoria dei negri Bambara dal medio Niger [5] — dove vivevano di pesca e di agricoltura — verso le molto più civilizzate regioni della costa. I Bambara erano attratti dai favolosi guadagni che si prospettavano nella nascente civiltà industriale della costa dove trovarono di fatto condizioni materiali di vita certamente molto migliori di quelle della loro patria tribale. Senonché nella nuova sede si verificò un duplice fatto: da un lato tutto il dispositivo culturale di cui gli emigrati disponevano in patria per far fronte ai momenti critici della loro vita di agricoltori e di pescatori, cioè il loro pantheon, i loro riti, le loro cerimonie, non erano pili utilizzabili nella nuova sede, legati com’erano ad un ‹habitat› ormai abbandonato, a momenti critici che avevano perduto il loro senso, e a rapporti tribali ormai in dissoluzione; dall’altro lato i Bambara erano colpiti da una serie di episodi traumatizzanti della loro vita di emigrati. Il governatore inglese, l’esercito, la polizia, la burocrazia, le macchine, il treno, ecc., costituivano un insieme di elementi che essi non riuscivano ad inserire in nessun orizzonte culturale e che rappresentavano il risultato terminale di un processo storico a cui essi restavano sostanzialmente estranei. In questa situazione si verificarono ben presto nella comunità Bambara di Accra una serie di disordini psichici di notevole gravità, caratterizzati dall’insorgere di impulsi inconsci che non potevano essere né controllati né sublimati in determinati orizzonti culturali. La comunità di Accra fu così colpita da una vera epidemia di disordini psichici, che mise in allarme le autorità, tanto più che medici e psichiatri non riuscivano ad intervenire efficacemente nella situazione, che sfuggiva ai quadri nosologici della medicina e della psichiatria europee. Riuscì invece a risolvere questa situazione un bambara, che era uomo di larga esperienza e aveva maggiori capacità degli altri emigrati. Costui prese alcuni elementi del vecchio dispositivo culturale — per esempio l’altare conico al centro di una radura — modificandoli in funzione della nuova situazione. Divise così l’altare tradizionale in varie sezioni, la più alta delle quali ospitava il governatore come nuova divinità del pantheon industriale e coloniale, e poi via via il medico, il capo della polizia, la moglie del medico, eccetera. Alla base di questo altare conico, che rappresentava in un certo senso un’immagine mitica della situazione coloniale, vi era il magazzino delle offerte sacrificali. Ma ciò che rendeva di particolare interesse questo riadattamento della religione tribale alla nuova situazione erano i riti e le cerimonie. I Bambara, mantenendo i vecchi riti di possessione caratteristici della loro tradizione magico-religiosa, si lasciavano ora possedere dalle divinità del nuovo pantheon: essi erano così posseduti, nel corso delle cerimonie celebrate presso l’altare, dallo spirito del governatore inglese, o del capo della polizia o del macchinista delle ferrovie, e adoperavano come formule liturgiche le formule burocratiche che costituivano un altro elemento traumatizzante della loro nuova vita cittadina. In tal modo i traumi e i conflitti accumulati quotidianamente, e che prima esplodevano in disordini psichici veri e propri, venivano ora fatti defluire nell’ordine rituale della possessione e ricevevano orizzonte in figurazioni mitiche definite. Così il nuovo dispositivo culturale poté assolvere una funzione riequilibratrice e reintegratrice, e i disordini psichici trovarono la loro più appropriata modalità di controllo.

Questo singolare episodio stimola alcune osservazioni. Senza dubbio la scienza e la tecnica dell’occidente, nate da un ethos culturale particolare che è frutto di una lunga storia, costituiscono valori non soltanto universali, ma universalizzabili: tuttavia sono valori universalizzabili nella misura in cui non restano un al di là rispetto ai mondi umani che entrano con un ritmo crescente nel processo di occidentalizzazione, e nella misura in cui scienza e tecnica svolgano interamente l’ethos adeguato al tipo di umanesimo integrale e di integrale democrazia che certamente scienza e tecnica racchiudono almeno potenzialmente. A questo proposito non va dimenticato che molto cammino resta ancora da fare, e che come vi è una magia nera vi è anche un modo di intendere la scienza come tecnicismo moralmente indifferente, e quindi compatibile per esempio col segreto atomico e con la guerra nucleare. Il problema centrale del ‹mondo di oggi› appare dunque la fondazione di un nuovo ethos culturale non più adeguato al «campanile di Marcellinara», ma all’intero pianeta terra che ormai gli astronauti contemplano dalle solitudini cosmiche e che sta di fatto diventando, per quanto attraverso contraddizioni e resistenze, la nostra patria culturale fondamentalmente unitaria, con tutta la ricchezza delle sue memorie e delle sue prospettive. Nella misura in cui questo nuovo ethos si renderà realmente operante e unificante, raccogliendo in una consapevole ecumenicità di valori comuni la originaria dispersione e divisione delle genti e delle culture, il mondo che «non deve» finire uscirà vittorioso dalla ricorrente tentazione del mondo che «può» finire, e la fine di «un mondo» non significherà la fine «del mondo» ma, semplicemente, «il mondo di domani».


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NOTE
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[1]. E. De Martino, ‹Il problema della fine del mondo›, in P. Prini (a cura di), ‹Il mondo di domani›, Abete, Roma 1964, pp. 225-31.

[2]. Allusione al testo di D.H. Lawrence, ‹Apocalypse›. Cfr. in questo volume il cap. 5, par. 3.

[3]. De Martino attribuisce questa citazione a ‹Parcours›. Correggiamo: G. Navel, ‹Travaux›, Gallimard (coll. «Folio»), Paris 1995, p. 208.

[4]. J. Rouch, ‹Les maîtres fous›, 1955, 36 minuti. Primo premio per il film documentario al festival di Venezia del 1957; partecipazione al festival dei Popoli di Firenze del 1959.

[5]. Non si tratta dei Bambara, ma della setta degli Haouka, nata all’interno delle popolazioni Songhaï nella metà degli anni Venti del Novecento.


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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