domenica 15 marzo 2020

Heidegger, Hamann, il reale e l’irrazionale

In una conferenza tenuta da Martin Heidegger il 7 dicembre 1950 a Bühlerhöhe e ripetuta il 14 febbraio 1951, a Stoccarda, nella sede della «Württembergische Bibliothekgesellschaft», il cui testo costituisce il primo capitolo del saggio ‹In cammino verso il Linguaggio› (1959, trad. it. Mursia 1973-1990), il filosofo tenta una sua interpretazione del linguaggio (il capitolo, così come la conferenza, è intitolato appunto semplicemente ‹Il linguaggio›) a partire dall’interpretazione filosofica di un breve quanto enigmatico componimento del poeta tedesco Georg Trakl. Nella parte introduttiva, prima di esporre la poesia di Trakl di cui intende trattare, Heidegger riporta alcune teorie correnti sul linguaggio, dalle quali intende peraltro discostarsi; in particolare, alle pagine 28-29 possiamo leggere:
Il 10 agosto del 1784 Hamann scriveva a Herder: «Fossi anche eloquente quanto Demostene, non potrei far altro che ripetere tre volte una sola e unica parola: la ragione è linguaggio, λόγος. Quest’osso io vado rodendo e continuerò ostinatamente a rodere. Ma resta pur sempre buio sopra questa profondità per me, sì che io rimango sempre in attesa di un angelo apocalittico con la chiave di questo abisso» (Hamanns ‹Schriften›. Ed. Roth VII, pp. 151-2).
Per Hamann questo abisso consiste nel fatto che la ragione è linguaggio. Hamann si rifà al linguaggio nel tentativo di dire che cosa sia la ragione. Volgendosi alla ragione, lo sguardo cade nella profondità di un abisso. Consiste, questo, solo nel fatto che la ragione ha il suo fondamento nel linguaggio o è proprio il linguaggio stesso l’abisso? Parliamo di abisso, quando, verificandosi il distacco da una base di appoggio e venendoci meno un punto di appoggio, ne andiamo ricercando uno su cui riporre piede. Noi però ora non ci chiediamo che cosa sia la ragione, bensì riflettiamo subito sul linguaggio, prendendo come cenno conduttore la strana affermazione: il linguaggio è linguaggio. Tale affermazione non ci porta a un fondamento del linguaggio estrinseco al linguaggio, e nulla ci dice riguardo al problema se il linguaggio sia per caso il fondamento di altro da sé. L’affermazione «il linguaggio è il linguaggio» ci lascia sospesi sopra un abisso, finché noi reggiamo a intenderne il senso.
Il linguaggio è il linguaggio. Il linguaggio parla. Se ci lasciamo cadere nell’abisso evocato da questa affermazione, non precipitiamo nel vuoto. Cadiamo in un’altezza, la cui altitudine apre una profondità. L’una e l’altra costituiscono lo spazio e la sostanza di un luogo nel quale vorremmo farci di casa per trovare una dimora per l’essenza dell’uomo.
Riflettere sul linguaggio significa pervenire al parlare del linguaggio in modo che questo parlare avvenga come ciò in cui all’essere dei mortali è dato ritrovare la propria dimora.
Che significa parlare? L’opinione corrente risponde, sicura, in proposito: il parlare è l’attività degli organi della fonazione e dell’udito. Parlare significa esprimere fonicamente e comunicare moti dell’animo umano. Questi sono guidati da pensieri. In base a tale definizione del linguaggio tre cose si danno per certe: in primo luogo, e innanzitutto, il parlare è un esprimere. L’idea del linguaggio come espressione è la più corrente. Essa presuppone l’idea di un’interiorità che si estrinseca. Considerare il linguaggio come espressione significa vederlo nella sua esteriorità, e ciò proprio nell’atto che si spiega l’espressione con il rimando a un’interiorità.
In secondo luogo, il linguaggio è considerato come un’attività dell’uomo. Consequenzialmente a tale principio dobbiamo dire: l’uomo parla, e parla sempre una lingua determinata. Non possiamo pertanto dire: il linguaggio parla; perché ciò tanto varrebbe quanto affermare: è il linguaggio che fa essere l’uomo. Pensato così, l’uomo sarebbe una promessa del linguaggio.
Da ultimo, l’esprimere attuato dall’uomo consiste nel dare presenza e figura al reale e all’irreale.

«Parlare significa esprimere fonicamente e comunicare moti dell’animo umano»: questa sarebbe in sostanza l’impostazione di Aristotele (‹De interpretatione›), ma tale concezione svaluta il necessariamente complementare aspetto recettivo del linguaggio, giacché non avrebbe alcun senso parlare (esprimere), se l’altro (l’ascoltatore) non intendesse quanto detto. Parlando, ci attendiamo sempre che l’interlocutore ci dia un segno di aver inteso e compreso quanto abbiamo espresso; l’assenza di tale attesa (il circuito della ‹parole› del de Saussure) è un potenziale indice di patologia, “parlare da soli”.




NOTA: ci si potrebbe allora chiedere: perché mai invece lo scrivere – che richiede in genere una situazione quantomeno materiale di solitudine – non è patologia?


«[…] l’esprimere attuato dall’uomo consiste nel dare presenza e figura al reale e all’irreale»: ma cosa intende Heidegger per “reale” e per “irreale”? Sulla scorta di quanto affermato da Hamann, “reale” sarebbe solo quanto corrisponde a una realtà materiale percepibile dai sensi fisici, ossia, hegelianamente, la ragione che ha rapporto esclusivamente con i fatti materiali (il reale è razionale); “irreale” sarebbe, di conseguenza, quanto esula da un tale rapporto diretto: la fantasia, il sogno, il mito ecc. Hamann afferma però che la ragione è linguaggio, e forse l’abisso in cui teme di cadere significa che si rende conto che non vale l’inverso, non tutto il linguaggio è ragione.

Heidegger, per contro, non teme di gettarsi nell’abisso, ma confida nelle ali fornitegli da qualcosa di ultraterreno: il suo “linguaggio” – ‹die Sprache› – di origine non umana, sarebbe infatti un manifestarsi del misterioso “essere”. Questo è probabilmente quanto lo spinge a tentare un’interpretazione filosofica della poesia (scegliendo però, non a caso, quella di Trakl, intrisa com’è di sfumature religiose).

NOTA: raccontare e interpretare un sogno sarebbe dunque per Heidegger “dare presenza e figura all’irreale”, ed in effetti potremmo convenire che raccontare e interpretare un sogno significa rendere percepibile (tramite la parola) ciò che di per sé non sarebbe percepibile, tuttavia non possiamo accettare l’equazione non percepibile = irreale, altrimenti anche le onde radio, o i virus, per fare solo due esempi, sarebbero “irreali”; il pensiero è – in generale – “realtà” (per quanto “realtà non materiale”, come la definisce Fagioli nei suoi scritti); ma allora cos’è “irreale”? Si potrebbe ipotizzare che “irreale” sia il pensiero falso, la bugia, la negazione? Però la malattia, non solo quella fisica, ma anche quella psichica, è ben “reale”, allora il compito del terapeuta sarebbe rendere “irreale” (ovvero passato, non più presente) il pensiero “falso”, cioè “malato”?

Si potrebbe forse anche rovesciare l’assunto iniziale di Hamann – condiviso, in fondo, anche da Heidegger, per quanto tenti di superarlo – e proporre che il pensiero “reale” non è affatto quello razionale che si limita a rispecchiare la realtà materiale (è un pensiero monco, per non dire una negazione della realtà umana, una falsità); il pensiero autenticamente “umano” (e quindi “reale”) è al contrario proprio quello fantasioso, trasformativo, creativo.


Il sommario del volume di Martin Heidegger può essere consultato qui.

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