martedì 4 giugno 2019

D’Agostino, Sîn-leqi-unnīnī e la canonicità dei testi

Nel volume di Franco D’Agostino, ‹Gilgameš - Il re, l’uomo, lo scriba›, edito da L’Asino d’oro edizioni (2017), nel 3° capitolo, alle pp. 70-72 viene trattato il problema delle versioni multiple, e spesso differenti, di un testo quale il ‹Poema di Gilgameš›:
Considerando che il testo del ‹Poema di Gilgameš› di Ninive è in uno stato già definitivo e canonizzato nella tradizione, è chiaro che lo scriba deve essere vissuto tra la fine del periodo di regno cassita su Babilonia, quando ancora incontriamo redazioni non standardizzate, e l’inizio del I millennio a.C., orientativamente tra il 1200 e il 900 a.C. Ora, il momento più consono, da un punto di vista storico, sembra essere quello del periodo di regno di Nabuchodonosor I (1125-1104 a.C.): una volta liberatasi dal giogo cassita, infatti, Babilonia cerca di recuperare sia militarmente che politicamente e culturalmente il suo ruolo nella storia vicino-orientale. Nonostante questo esaltante momento della storia babilonese si sia di fatto scontrato con la nascita della potente e agguerrita macchina da guerra assira, che con Tiglat-Pileser I (1114-1076 a.C.) stava ponendo le basi che daranno i loro frutti più evidenti nei primi secoli del I millennio a.C., è più che probabile che molto del materiale letterario che possediamo dalla tradizione assira seguente sia stato di fatto rielaborato e definitivamente canonizzato proprio sotto il regno di Nabuchodonosor I nella città della Babilonia.
Ancora più difficile, poi, è per noi comprendere attraverso quali vie un testo, e il testo di Gilgameš in particolare, giungesse a essere considerato ‘canonico’. Lo stesso concetto di canonicità è invero piuttosto evanescente. Insomma, si tratta dell’azione culturale cosciente da parte degli autori della creazione di un testo standardizzato, che rielaborano una tradizione scegliendo la redazione che deve essere tramandata nelle accademie sulla base di argomenti eventualmente letterari o politici? O il prodotto che ritroviamo nella biblioteca di Assurbanipal non è invece altro che una scelta del caso, dovuta alla fortuna di un’innovazione o di un racconto rispetto a un altro? La mancanza di documentazione ci impedisce di dare una risposta definitiva a questo problema. Probabilmente è vera una soluzione intermedia: nella ‘canonizzazione’ di un testo giocava un ruolo sia, da un lato, la fortuna presso gli utenti di una tradizione rispetto a un’altra, sia la scelta che, per motivi che possiamo soltanto indovinare, una classe di scribi operava all’interno della tradizione stessa. Negare comunque del tutto un intervento cosciente della classe colta della società babilonese nella formazione del canone è impossibile, e il nome di Sîn-leqi-unnīnī, che vivrà così a lungo nella tradizione letteraria babilonese, è un esempio che non ammette dubbio.
A proposito della complessità del mondo intellettuale della società assiro-babilonese, che aveva dietro di sé oltre duemila anni di sviluppo e sovrapposizione culturale e dove lo scriba era spesso al contempo un esorcista, un medico, un musico, un lamentatore addetto al culto delle divinità, un astronomo e così via, si possono citare delle lettere di accademici assiri ai vari sovrani. In esse gli scribi davano risposte su questo o quel fenomeno celeste a precise domande del re, che ne chiedeva anche la relativa interpretazione mantica. Da queste lettere appare evidente come esistesse accanto alla tradizione ufficiale, che gli scribi chiamavano ‘basata sulle serie’, anche una conoscenza che essi desumevano da serie non canoniche (da loro definite ‘laterali, marginali’) e addirittura una conoscenza che trovava il suo fondamento nell’insegnamento orale, detta perciò ‘relativo alla parola dei maestri (antichi)’. Così troviamo frasi del tipo: «Questo ‹omen› relativo a Mercurio non è estratto dalle serie canoniche, ma è basato sull’insegnamento orale dei maestri». Oppure: «Ora confronterò, riunirò e copierò circa 20 o 30 tavolette, tra canoniche e non-canoniche» e via di questo passo.
La presenza di queste diverse tradizioni all’interno della stessa scuola permette forse di comprendere come sia possibile che provenga da Uruk un testo, datato all’ultimo periodo della storia babilonese (VI-V sec. a.C.) e relativo al racconto degli avvenimenti della Tavola V della serie ninivita, che ci presenta una versione effettivamente differente del racconto e cioè non canonica secondo il lavoro di Sîn-leqi-unnīnī. La lunga vita gloriosa della tradizione letteraria e scribale mesopotamica, che proprio in Uruk avrà il suo fulcro sino all’epoca seleucide e oltre, faceva sì che anche in epoca assai tarda redazioni differenti delle stesse opere si trovassero l’una accanto all’altra nella stessa biblioteca. Sottolineiamo però che era ben chiara, nella mente degli scribi, la differenza tra un testo standardizzato (nella documentazione spesso definito ‘buono’) e uno invece fuori della tradizione canonica.

Si direbbe dunque che la canonicità dei testi non fosse un problema limitato all’ambito religioso (e soprattutto al monoteismo), ambito nel quale tuttavia la fissazione del canone assunse una particolare rilevanza e una notevole rigidità; i testi valutati non “conformi” al canone venivano infatti scartati in quanto “apocrifi” o “corrotti”.

Il sommario del saggio di D’Agostino e ulteriori annotazioni al riguardo sono consultabili qui.

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