mercoledì 14 agosto 2019

Ifrah: contiamo per 10 perché abbiamo dieci dita?

All’inizio del secondo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), a p. 45, Georges Ifrah scrive:
Per simbolizzare la nozione del numero, due diversi principi si presentano alla mente. L’uno, detto «cardinale», consiste nell’adottare un simbolo campione che rappresenta l’unità, ripetendolo poi tante volte quante sono le unità contenute nel numero stesso. L’altro, detto «ordinale», consiste nel rappresentare i numeri interi consecutivi, inizianti con l’unità, con simboli diversi senza reciproca relazione […]. Pur semplice, il primo procedimento non porta lontano, perché richiede la ripetizione illimitata del simbolo campione. Il secondo sistema presenta una difficoltà: come concepire, nelle condizioni date dal principio ordinale della rappresentazione numerica, una rappresentazione di simboli numerici sempre nuovi?

Poco oltre, nel primo paragrafo dello stesso capitolo, a p. 46, per giustificare come mai la maggior parte dei moderni sistemi di numerazione siano a base 10 (i primi 10 numeri e le successive potenze di dieci hanno nomi propri, mentre i nomi di tutti gli altri numeri sono costruiti a partire da questi per addizione e moltiplicazione), Ifrah si esprime come segue:
In effetti, l’adozione quasi universale della base dieci è stata indubbiamente imposta […] da «quell’accidente della natura» costituito dall’anatomia delle mani, perché sulle dieci dita l’uomo ha imparato a contare. Nessuno dubita che, se la natura ci avesse dotato di sei dita per mano, la nostra numerazione sarebbe duodecimale, cioè su base dodici.
Figura 3.a [a p. 22]. Procedimento numerico
corporale usato da alcune popolazioni
delle isole dello stretto di Torres.

Quest’argomentazione però è valida solo se ci si basa esclusivamente sul “principio cardinale” definito sopra, se cioè associamo a ciascun dito lo stesso valore:
un dito = una unità

Essa si direbbe inoltre in contrasto con il “procedimento numerico corporale delle popolazioni dello stretto di Torres” illustrato dallo stesso Ifrah nel capitolo precedente; quest’ultimo risulta fondato, sulla base delle definizioni date sopra, soltanto sul “principio ordinale”, cioè su un ordinamento convenzionale di parti del corpo.

Sembrerebbe anche in contrasto col fatto che alcune lingue presentano “nomi” particolari anche per i numeri 11 e 12, e che sistemi di misura a base 12 sono stati in vigore in diversi Paesi – anche occidentali – fino a qualche secolo fa.


Sfruttando la grande indipendenza di movimento delle dita delle mani, si può agevolmente arrivare a contare fino a 12 con una sola mano, ad esempio assegnando al solo pollice il valore 5, e a pollice e mignolo (con qualche altro dito piegato) il valore 10; si ottengono in tal modo le 12 “figure” seguenti:




Segnando nello stesso modo le dozzine con le dita dell’altra mano, si può arrivare a contare con le sole dita delle mani fino a 13×12, cioè fino a 156 (e ci si può spingere fino a 168).

Il prevalere della base 10 deve quindi avere (anche) qualche altra ragione che non quella banalmente anatomica; motivazioni storiche? di egemonia economica e culturale? ragioni politiche? oppure addirittura teologiche?

Una domanda aggiuntiva è la seguente: in questo passo Ifrah si riferisce soprattutto ai “nomi dei numeri”, cioè a come essi vengono “enunciati” nel parlare; mentre però i primi 9 numeri (da 1 a 9) hanno un “nome” proprio e un “segno” caratteristico (ad esempio “cinque” indica sia un valore sia la “cifra” 5 usata per rappresentarlo), il 10 e le sue potenze hanno sì un “nome proprio”, ma vengono scritti utilizzando una delle altre 9 cifre (l’uno) “più” lo zero; sembra dunque esserci una certa differenza tra il sistema dei “nomi” e quello dei “segni”; i 2 sistemi sono relativamente indipendenti, oppure si influenzano a vicenda? E in quest’ultimo caso: quale dei 2 tende maggiormente a adeguarsi all’altro?

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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