3.2. Irreversibilità, crisi, ripetizione mitico-rituale delle origini.
La coscienza ciclica del tempo, quale si esprime religiosamente nella ripetizione rituale di un mito delle origini e di fondazione e cosmologicamente nella teoria dell’eterno ritorno va interpretata, nella sua stagione storico-culturale più feconda, come un sistema protettivo per mediare la storicità del divenire umano difendendolo dal rischio, sempre presente come tentazione, di annientarlo nella grande pigrizia della ripetizione dell’identico e della pura ciclicità del tornare-a. Il simbolo mitico-rituale della ripetizione di un mito delle origini segna una sorta di ‹imitatio naturae›: si riprende il tornare-a, lo si riplasma culturalmente, e lo si risolve in un orizzonte che ridischiude l’esserci-nel-mondo. Il divenire umano che si estolle sulla pigrizia di quello subumano continua a essere travagliato da questa stessa pigrizia: la irreversibilità del tempo degli uomini rischia di farsi reversibile. La reversibilità ripresa e mutata di segno, ecco il simbolo mitico-rituale della ripetizione del mito delle origini.
Il dover esserci nel mondo culturale, il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile: in questa tensione vive l’ethos primordiale della presentificazione.
_____La reversibilità del tempo come rischio di annientamento è ripresa e mutata di segno, cioè avviata di nuovo verso la irreversibilità del divenire storico-culturale aperto al dover essere valorizzante: questo è il significato della ripetizione rituale di un mito delle origini. La tradizione giudaico-cristiana lascia entrare nella stessa coscienza mitico-rituale la coscienza storica del divenire irreversibile: l’accento si sposta dalla esemplarità delle origini alla esemplarità del centro del divenire, dal divino al divino incarnato (il Cristo), dalla ripetizione delle origini alla ripetizione del centro (la morte e la risurrezione di Cristo), dalla ciclicità delle catastrofi all’attesa di un termine a direzione unica (il Regno). Alla ripetizione delle origini divine della storia segue ora la ripetizione del centro divino-umano della storia col problema della salvezza individuale nel termine unico annunziato [41]. Il grande problema della nostra età è quello di una salvezza dell’individuo nella società umana, nella socializzazione dell’individuo che non sia massificazione, burocratizzazione, automatizzazione, tecnicismo, statolatria, divinizzazione del capo, ecc.
La nota [41] rimanda semplicemente al 3° capitolo, dedicato in modo specifico al tema ‹Il dramma dell’apocalisse cristiana›.
Superando le difficoltà della prosa demartiniana, il concetto fondamentale ci sembra quello del “divenire umano”, inteso come un modo di essere che appartiene specificamente all’essere umano e che lo caratterizza, implicando una presenza che conferisce al tempo vissuto una particolare – potremmo dire – intensità. La natura inanimata evolve anch’essa, ma su tempi che si misurano in miliardi di anni; la natura biologica evolve su tempi assai più rapidi, ma sempre dell’ordine dei milioni di anni; la vita umana, invece, basata sulla cultura, sull’elaborazione di rappresentazioni simboliche, si modifica nell’arco delle migliaia, delle centinaia e persino delle decine di anni, così che il cambiamento diviene percepibile anche al singolo individuo.
Confrontata alla staticità della natura, la vita dell’essere umano è quindi continuo cambiamento, e incessante iniziativa, decisione su cosa cambiare e come lo si debba cambiare; in termini più fagioliani che demartiniani, potremmo dire che è una continua “separazione” dal passato. Questa particolare intensità, questa necessaria “presenza” non può che esser legata all’assenza, nel genere umano, di istinti che impongano determinati comportamenti, e all’insorgere invece, alla nascita, della pulsione come prima reazione agli stimoli provenienti dal mondo esterno inanimato (Fagioli).
Questa prima identità che l’essere umano realizza alla nascita – l’ethos demartiniano? –, fusione della pulsione con la vitalità, è però precaria, e necessita, per potersi sviluppare, del rapporto e della conferma da parte dell’altro essere umano (l’adulto che accudisce il neonato), chiamato a soddisfare il desiderio. In mancanza di tale conferma, l’identità della nascita rimane esposta alla scissione, al ritorno verso il meramente biologico – la ‹imitatio naturae› di de Martino? – o all’angoscia suscitata dalla pulsione che, messa all’esterno, diviene entità spirituale astratta, opprimente e paralizzante.
La “morte psichica”, su questo doppio versante, è un’eventualità ancora più terrificante della morte fisica, e richiede l’elaborazione di un apparato di idee e di procedure (riti) che storicamente si è strutturato dapprima come mito, e in séguito come religione; il processo di generazione e di elaborazione di un tale apparato è ciò che de Martino chiamerà poco oltre “ierogenesi” (la genesi del sacro). L’approccio dell’etno-antropologo ci sembra generoso e interessante, per quanto forse viziato da una terminologia derivata dai suoi studi heideggeriani. Il particolare risalto dato al cristianesimo (come espressione “di punta” del monoteismo) richiederà un ulteriore approfondimento. È un vero peccato che de Martino non abbia potuto proseguire la sua ricerca. Chissà dove sarebbe arrivato?
Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.
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