giovedì 5 dicembre 2019

L’ethos del trascendimento è doverci essere nel mondo

Il 2° capitolo del saggio di Ernesto de Martino ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), è dedicato al tema ‹Le apocalissi psicopatologiche›; tuttavia nella 2ª delle 5 parti che compongono tale capitolo, e in particolare alle pp. 186-187, l’autore approfondisce, in un paragrafo breve ma teoricamente assai denso, la sua concezione di quella dimensione, specifica della vita umana, che denomina “ethos del trascendimento” (i puntini tra parentesi quadre […] tra i 2 cpvv. sono nell’originale, e indicano che i curatori hanno omesso alcuni passi intermedi):

2.3. Ethos del trascendimento = doverci-essere-nel-mondo.
Che il ‹Dasein› sia ‹in-der-Welt-sein› è il tema fondamentale dell’esistenzialismo heideggeriano. Ma l’‹esserci› come ‹esser-nel-mondo› rimanda alla vera condizione trascendentale del ‹doverci› essere. Intanto è pensabile la presenza, in quanto si dispiega l’energia presentificante, l’emergere valorizzante della immediatezza della vita: il che significa che proprio questa energia, questo «oltre» costituisce la vera condizione trascendentale dell’esistenza. La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere, secondo modi distinti di progettazione e di intersoggettività. L’uomo è sempre ‹dentro› l’esigenza del trascendere, e nei modi distinti di questo trascendere, e solo ‹per entro l’oltrepassare valorizzante› l’esistenza umana si costituisce e si trova come presenza al mondo, esperisce situazioni e compiti, fonda l’ordine culturale, ne partecipa e lo modifica. All’uomo non è dato mai trascendere questa stessa energia del trascendimento, che opera in lui ne sia o non ne sia cosciente, la riconosca come tale oppur no: l’uomo non può che esercitarla ridischiudendosi sempre di nuovo al suo imperativo o patire variamente la sua crisi, sino al limite di quell’annientamento che, per l’individuo, sono la follia e la morte, e per le comunità la decadenza o il crollo della loro visione della operabilità del mondo. Ma sia che questa energia apra faticosamente il varco al suo slancio, sia che ricada su se stessa, questo suo dispiegarsi e questo rischio di caduta hanno luogo sempre ‹dentro› di essa, fanno parte della sua interna dialettica, senza che mai possa saltare sopra se stessa e pervenire alla «natura» in sé anteriore a ogni valorizzazione umana — o al «puro spirito» secondo un trascendimento ultimo e definitivo. Questa non trascendibile energia del trascendimento valorizzante intersoggettivo è, per eccellenza, trascendentale, cioè condizione ultima e inderivabile della pensabilità e della operabilità dell’esistere: in quanto chiama sempre di nuovo ad andar oltre la immediatezza del vivere, non è ‹élan vital›, ma ethos tanto poco riducibile al dato biologico che il condizionamento biologico si fa percepibile dentro non fuori e prima, il suo dispiegarsi; d’altra parte non si esaurisce affatto nei ‹mores› storico-culturali, nei costumi, nelle singole «morali», in questa o quella etica, ma ‹mores›, costumi, singole morali, singole etiche procedono dal modo e dai limiti dentro i quali l’ethos si fa consapevole di sé e si esercita nelle morali storiche. Linguaggio, vita politica, vita morale, arte e scienza, filosofia, simbolismo mitico-rituale della vita religiosa, procedono da questo ethos: la antropologia non è che la presa di coscienza sistematica di questo ethos, la determinazione dei distinti modi del suo manifestarsi storico, la individuazione, nell’oltre del trascendere, delle coerenze che presiedono ai singoli modi dell’oltre, dell’ordine e della relazionalità dei modi fra di loro, di ciò che appartiene alla struttura universale dell’esistenza e di ciò che invece si riferisce solo a singole formazioni storico-culturali transeunti.
[…]
Domesticità dello sfondo, orizzonte di operabilità domesticatrice, emergenza presentificante della valorizzazione attuale iterantesi sempre di nuovo senza tuttavia esaurire mai la totalità ideale dell’essere, questi tre momenti costituiscono l’articolarsi concreto dell’ethos del trascendimento della vita. L’emergenza presentificante ha luogo nella domesticità di uno sfondo, cioè nell’assunzione di una datità ovvia, mantenuta nell’anonimato, e tuttavia senza problematicità attuale proprio perché concrezione di passati o remotissimi trascendimenti che «una volta» furono presentificazioni nella storia del singolo come in quella della umanità. In tale sfondo di presentificazione e domesticazioni culturali avvenute una volta e che ora stanno come datità ovvia, anonima, disindividuata, la presentificazione attuale secondo valore si fa margine e si dà concreto orizzonte di domesticazione operativa qualificata: emerge, cioè, secondo orientamenti di volta in volta egemonici, secondo questo o quel ‹telos›. Ora questo immenso «affidarsi a» per «raccogliersi in» si inaugura sempre di nuovo col progetto comunitario dell’utilizzabile, in cui la stessa vita «bisognosa di…» sta come ordine umano che produce vita e bisogni e mezzi per la soddisfazione dei bisogni, e in cui la fedeltà alle domesticazioni utilizzanti già una volta avvenute fa da sfondo condizionante al concentrarsi in una certo ben determinata utilizzazione attuale, nella varia gradualità della «applicazione» più o meno meccanica e abitudinaria, dell’adattamento di tradizioni tecniche operative, della innovazione, della invenzione, ecc.

Proviamo ora a rileggere questo passo demartiniano depurandolo dalla terminologia esistenzialista e dai riferimenti alla filosofia di Heidegger:

[…] l’‹esserci› come ‹esser-nel-mondo› rimanda alla vera condizione trascendentale del ‹doverci› essere. Intanto è pensabile la presenza, in quanto si dispiega l’energia presentificante, l’emergere valorizzante della immediatezza della vita: il che significa che proprio questa energia, questo «oltre» costituisce la vera condizione trascendentale dell’esistenza.
Il particolare modo di essere dell’uomo, quel che s’intende per vita umana, si caratterizza per una specifica attività (il dispiegarsi dell’energia presentificante di EdM), per la quale non gli è sufficiente la “immediatezza della vita” – che peraltro condivide con gli animali – ma è obbligato (dalla propria natura?) a cercare qualcosa che va (o si trova) “oltre” il rapporto immediato con la realtà esterna (sia naturale, sia umana?). Il fatto cessa di essere un semplice fatto, ma acquista un senso, un contenuto (il “valore”, per EdM); l’uomo si disinteressa del fatto in sé, divenuto mera apparenza, per interessarsi del contenuto.

La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere, secondo modi distinti di progettazione e di intersoggettività.
Qui EdM cerca di legare l’ethos definito sopra con la “naturale socialità” dell’essere umano (il “progetto comunitario”) ma questo nesso ci pare forzato e risente forse di una formazione ideologica marxista, o quantomeno di un’adesione a tale impostazione ideologica; l’identità umana (l’ethos di EdM) si forma fin dalla nascita, e se è vero che il neonato abbisogna per lungo tempo delle cure e dell’accudimento da parte di qualche adulto, non pare appropriato riferirsi per questo a un “progetto comunitario”. Del resto la nascita, in de Martino, non c’è: è come se l’essere umano comparisse già adulto, con una “presenza” già strutturata – per quanto sempre precaria – e con tutti i problemi che questa presenza comporta (e questa è, a quanto ci risulta, una caratteristica comune a tutti i filosofi).

All’uomo non è dato mai trascendere questa stessa energia del trascendimento, che opera in lui ne sia o non ne sia cosciente, la riconosca come tale oppur no: l’uomo non può che esercitarla ridischiudendosi sempre di nuovo al suo imperativo o patire variamente la sua crisi […]
… la crisi dell’imperativo, oppure della “energia del trascendimento”? Comunque sia, se chiamiamo questa energia “fantasia”, oppure capacità di immaginare una realtà differente da quella attuale e concretamente presente, che ne costituisca però una chiave di lettura, EdM afferma qui – e ci pare un’intuizione notevole – che tale capacità agisce comunque, indipendentemente dalla volontà del soggetto, e che questi ne sia consapevole o meno; in altre parole: può essere sia cosciente, sia inconscia; potrebbe quindi, per quanto egli (EdM) non lo espliciti, essere attiva anche durante il sonno!
[…] sino al limite di quell’annientamento che, per l’individuo, sono la follia e la morte, e per le comunità la decadenza o il crollo della loro visione della operabilità del mondo.
Dobbiamo però distinguere la morte fisica, che per l’individuo è inevitabile e in un certo senso “naturale” (quando non dovuta a eventi traumatici o a malattia), dalla morte “psichica”, che è sempre esito di una patologia, la quale a sua volta è l’effetto di una ‹noxa› esterna, per quanto spesso invisibile; occorre allora indagare, sia a livello biografico individuale, sia a livello sociale, quali siano le cause della crisi e dell’eventuale fallimento.

Ma sia che questa energia apra faticosamente il varco al suo slancio, sia che ricada su se stessa, questo suo dispiegarsi e questo rischio di caduta hanno luogo sempre ‹dentro› di essa, fanno parte della sua interna dialettica, senza che mai possa saltare sopra se stessa e pervenire alla «natura» in sé anteriore a ogni valorizzazione umana — o al «puro spirito» secondo un trascendimento ultimo e definitivo.
In realtà, pare sia proprio di certe patologie schizofreniche cercare di realizzare un’esistenza come “puro spirito”, e tale realizzazione paradossalmente coinciderebbe, in un’estrema scissione, con quella di un “puro corpo” (si veda M. Fagioli, ‹La marionetta e il burattino›, § 2.2: ‹La schizofrenia simplex›); ma forse è vero che persino lo schizofrenico più cronicizzato non riesce che ad avvicinarsi a questa condizione, senza mai poterla veramente raggiungere.

Questa non trascendibile energia del trascendimento valorizzante intersoggettivo […] non è ‹élan vital›, ma ethos tanto poco riducibile al dato biologico che il condizionamento biologico si fa percepibile dentro non fuori e prima, il suo dispiegarsi […]
Concordiamo che non sia “riducibile al dato biologico”, ma se non è almeno ‹riconducibile› “al dato biologico”, a che cosa sarebbe mai dovuta? Allo spirito santo? Considerando la dinamica della nascita, il feto si sviluppa da una realtà che è puramente biologica, deve dunque esistere un momento in cui questo “ethos” emerge da tale realtà biologica, altrimenti si torna al concetto di anima immortale fantasticata da Platone, con tutte le aporie ad esso conseguenti.
[…] la antropologia non è che la presa di coscienza sistematica di questo ethos, la determinazione dei distinti modi del suo manifestarsi storico […ecc., fino alla fine del 1° cpv.]
Ovvero: l’antropologia sarebbe lo studio delle modalità con cui questo ethos si manifesta storicamente, non si dovrebbe invece occupare né delle sue origini, né di come esso ethos si sviluppa; un po’ come oggetto della linguistica sarebbe l’insieme delle lingue nel loro concreto manifestarsi e nei loro rapporti reciproci, ma non l’origine né lo sviluppo della capacità linguistica negli umani.

Domesticità dello sfondo, orizzonte di operabilità domesticatrice, emergenza presentificante della valorizzazione attuale […], questi tre momenti costituiscono l’articolarsi concreto dell’ethos del trascendimento della vita.
EdM distingue qui 3 “momenti” dell’ethos del trascendimento:
  • domesticità dello sfondo (un ambiente già valorizzato culturalmente);
  • orizzonte di operabilità domesticatrice (possibilità umana di ulteriore valorizzazione);
  • emergenza presentificante della valorizzazione attuale (attività umana).
L’ambiente già valorizzato è il risultato, una sorta di sedimento, delle precedenti attività di valorizzazione:
[…] concrezione di passati o remotissimi trascendimenti che «una volta» furono presentificazioni nella storia del singolo come in quella della umanità. In tale sfondo […] la presentificazione attuale secondo valore si fa margine e si dà concreto orizzonte di domesticazione operativa qualificata […]
Ovvero – così almeno comprendiamo – questa attività presentificante sarebbe sempre incrementale, nel senso che tenderebbe ad ampliare e ad approfondire sempre più – ai limiti indefinitamente – i significati (valori) attribuiti alla realtà esterna (sia quella naturale, sia quella umana). Questa affermazione lascia però irrisolto il problema, già segnalato sopra, dell’origine, sia individuale sia sociale (“comunitaria”, in termini demartiniani) di questa valorizzazione.

[…] questo immenso «affidarsi a» per «raccogliersi in» si inaugura sempre di nuovo col progetto comunitario dell’utilizzabile, in cui la stessa vita «bisognosa di…» sta come ordine umano che produce vita e bisogni e mezzi per la soddisfazione dei bisogni […]
E qui EdM sembra legare di nuovo l’attività valorizzante al fare concreto (produrre mezzi per la soddisfazione dei bisogni) di marxiana memoria, senza considerare (né valorizzare) la distinzione – che invece Fagioli evidenzia fin dal 2° paragrafo di ‹Istinto› – tra bisogni ed esigenze umane.

Però, sul finire, possiamo regalare all’etnoantropologo un’intuizione, reinterpretando che l’“affidarsi a” e il “raccogliersi in” sono tipici del lattante nel rapporto con chi lo accudisce, che però non deve limitarsi a soddisfare i bisogni (materiali) del neonato, bensì far leva sulla propria sanità inconscia per entrare in risonanza affettiva e favorire lo sviluppo di quell’universo di valori di cui ogni essere umano dispone, in potenza, fin dalla nascita.


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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