L’Aristotele della ‹Nicomachea› ereditava in effetti dalla sua prima ‹Etica›, l’‹Eudemia›, un esito che ora doveva apparirgli più che mai problematico. Alla fine di quel trattato, si poneva il problema di quale fosse il criterio (‹horos›) che lo ‹spoudaios› deve seguire nella scelta e nell’acquisizione dei beni, fisici o sociali che fossero; questo criterio veniva fatto consistere nell’opzione per quei beni che potessero promuovere la «contemplazione di dio» (‹theoria tou theou›), e nel rifiuto di quelli che ostacolassero «la contemplazione e il servizio (‹therapeia›) di dio» (EE VIII 3 1249b17 sgg.). Non è facile comprendere il senso di questa conclusione dell’‹Eudemia›. Certo sembra insostenibile l’interpretazione di Dirlmeier e Düring, secondo i quali ‹theos› varrebbe qui il «divino in noi», cioè il pensiero (‹nous›), e il passo andrebbe dunque interpretato nel senso che è bene ciò che promuove l’attività conoscitiva in generale, la vita della scienza. Il termine ‹therapeia›, che designa il servizio rituale reso alla divinità, non pare suscettibile di una trasposizione senza residui teologici. La divinità sarà piuttosto da intendersi, secondo l’interpretazione tradizionale (condivisa da Jaeger, Gauthier, Berti, Kamp) come l’oggetto di un «servizio» conoscitivo, di una dedizione teorica: la contemplazione sarà dunque non l’attività scientifica in generale, ma l’indagine cosmologico-teologica propria del «filosofo primo» di cui parla la ‹Metafisica›. Ma anche così, il problema resta. Perché mai lo ‹spoudaios› dovrebbe finalizzare la sua esistenza alla teoria in generale, e addirittura alla teologia? Le sue virtù specifiche — secondo l’‹Eudemia› come secondo la ‹Nicomachea› — non sono affatto propizie alla teoria: anzi, legate come sono ai rapporti sociali, alla politica, alla guerra, esse ostacolano direttamente l’ozio, la ‹schole›, necessari a qualsiasi forma della teoria. Chiedere allo ‹spoudaios› di farsi teologo è altrettanto improprio di quanto lo sarebbe, per usare una metafora aristotelica, di chiedere al geometra di essere persuasivo o al retore di condurre dimostrazioni scientifiche. Che cosa significa allora questa conclusione dell’‹Eudemia›? […]
Rimane questo mistero, della menzione della “contemplazione di dio” in un autore (Aristotele) che dovrebbe essere al 100% politeista; evidentemente la distinzione tra politeismo e monoteismo non è così netta come secoli di persecuzioni e di lotte ci hanno indotto a credere; oppure ci è difficile, dopo tanti secoli di monoteismo, farci un’idea di quali fossero esattamente le concezioni e i modi di pensare in una società politeista; una 3ª ipotesi è che già ai tempi di Aristotele fosse in atto un processo di transizione, sotto la spinta del ‹logos›, verso una concezione unitaria della divinità – in questo caso “dio” andrebbe inteso come “il divino” – resterebbe però da chiarire se questa idea di un “divino” unico contenesse già in sé quella di “trascendente”.
La soluzione potrebbe essere nella ‹Metafisica› aristotelica, dove si introduce il concetto «di un dio pensante […], e di un ‹nous› che costituisce il divino nell'uomo» (Vegetti, p. 205).
Per l’indice del saggio di Mario Vegetti, e per altre annotazioni in proposito, si veda qui.
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