mercoledì 10 luglio 2019

Graves e Patai, il matriarcato originario e il pensiero per immagini

Il 2° capitolo del volume di Robert Graves e Raphael Patai, ‹I miti ebraici› (1963, ed. Longanesi 1980), raccoglie le tracce di antiche cosmogonie sparse in diversi passi della Bibbia ma incongruenti con le 2 versioni riportate nella ‹Genesi›, versioni peraltro già in disaccordo tra loro per diversi aspetti. Negli elementi considerati i 2 autori individuano la memoria di un’antica transizione da un’organizzazione sociale di tipo “matriarcale” a una struttura “patriarcale” assai più rigida; in particolare, a p. 34 (al punto 1) si legge:
Questa terza versione della creazione, dedotta da riferimenti biblici, esclude quelli della ‹Genesi› e richiama non soltanto le cosmogonie di Babilonia, ma anche quelle ugariche e cananee; e amplia notevolmente la breve allusione a Tohu, Bohu e all’abisso. Creatori come El, Marduk, Baal o Jehovah, dovettero prima lottare contro le acque, che i profeti personificano nel Leviathan, in Rahab o nel Drago gigante, non soltanto perché la creatrice era considerata dea della fertilità e quindi dell’acqua, ma perché il matriarcato veniva tradotto nel mito come una caotica fusione dei due sessi; il che ritardava la stabilità dell’ordine sociale patriarcale, come la pioggia che cadeva nel mare ritardava l’apparire della terra secca. Le origini, quindi, del maschio e della femmina dovevano essere dapprima giustamente separate, come quando il cosmocreatore egiziano Shu strappò la dea del cielo Nut all’abbraccio del dio della terra Geb; o quando Yahweh Elohim separò l’acqua superiore maschile dal connubio con l’acqua inferiore femminile […]. E quando il babilonese Marduk tagliò Tiamat in due, stava, in realtà, strappandola ad Apsu, dio delle acque superiori.

Sembra evidente che la nuova struttura patriarcale tendeva a proporsi come “ordine”, in contrasto – non si sa quanto violento – con il “disordine” matriarcale (il famigerato “caos”, o ‹tohu wa-bohu›); la parola che non viene pronunciata – o piuttosto scritta – dai 2 autori è “promiscuità”, nel senso che quel che essi intendono per “matriarcato” doveva avere ben poco di “monogamico”.

In questo senso sarebbero forse da interpretare le ingenerose critiche opposte nel ‹Poema di Gilgamesh› dal re di Uruk alle profferte amorose di Inanna-Ishtar, “dea dell’amore e della guerra”.

Potrebbe anche essere suggestivo considerare che da allora – cioè fin dall’avvento del patriarcato, ben rappresentato da Marduk, con la sua tendenza progressiva a egemonizzare il pantheon – la donna è tuttora divisa in due, cioè “scissa”, tra l’immagine della moglie e madre (l’ideale della madonna, per i cattolici) e quella della prostituta (prostituta anche “sacra” un tempo, ma oggi solo ed esclusivamente profana); ed è proprio questa scissione, continuamente riproposta, che, a dispetto dei tentativi di rivendicare una parità di condizione sociale, impedisce alla donna di ottenere un’identità propriamente e compiutamente “umana”.

Le evidenti similitudini fra le tradizioni mitologiche mesopotamiche, egizie ed ebraiche sembrano suggerire che le rispettive cosmogonie abbiano una base comune, forse non tanto a livello testuale – da intendere come “pensiero verbale”, anche se non necessariamente scritto – quanto a livello iconografico, nel senso del “pensiero per immagini”; e questa considerazione permette di ipotizzare che la transizione dal “matriarcato” al “patriarcato” sia avvenuta in un’epoca in cui il “pensiero per immagini” era quantomeno prevalente rispetto a quello “verbale”.

Il sommario del volume di Robert Graves e Raphael Patai è consultabile qui.

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