giovedì 26 dicembre 2019

De Martino e il riscatto dell’ethos nel protocristianesimo

In appendice al saggio di Ernesto de Martino ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), viene riportato un articolo già pubblicato dall’autore nel 1964 sulla rivista «Nuovi Argomenti», col titolo ‹Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche›. In quest’articolo si trova riassunto per sommi capi il programma di ricerca che l’etno-antropologo intendeva sviluppare nella sua ultima monografia. Dopo aver elencato e sommariamente descritto i diversi tipi di documentazione che l’indagine si prefigge di prendere in considerazione e di confrontare fra loro, e cioè, sostanzialmente:
  1. il tema della crisi della società borghese, come espresso soprattutto nella moderna letteratura;
  2. l’apocalittica della tradizione giudaico-cristiana della letteratura paleo- e neotestamentaria;
  3. il mito delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo delle grandi religioni storiche;
  4. i movimenti religiosi millenaristici di emancipazione delle culture “primitive” in epoca postcoloniale;
  5. le manifestazioni psicopatologiche in cui intervengono situazioni di “fine del mondo”;
dopo aver quindi esaminato in dettaglio alcuni brani rappresentativi del 1° filone (ad es. ‹La nausea› di Sartre o ‹La noia› di Moravia), ed essersi soffermato su alcuni casi clinici indicativi delle “apocalissi psicopatologiche” (il 5° filone), nei quali si evidenziano vissuti analoghi di alterazioni nelle sensazioni corporee e nel rapporto con la realtà, così chiarisce il compito che spetta “allo storico della cultura e all’antropologo” (pp. 574-576):
Fin qui è stato messo l’accento sulle «somiglianze» fra l’apocalittica d’oggi e le apocalissi psicopatologiche. Quanto alle differenze, si potrebbe far ricorso a molteplici argomenti, tutti praticamente validi, per sottolinearle. Si potrebbe cioè osservare che un’opera culturale può serbar tracce di stati psichici morbosi, ma che in quanto ‹effettiva› opera culturale testimonia, almeno nel suo specifico carattere di opera dotata di valore, a favore del sano e non del malato; che alcune ‹pretese› opere culturali si riducono in realtà a stati psichici morbosi, senza che ciò significhi che i loro autori siano degli psicotici, perché potrebbe benissimo trattarsi di persone normali nella loro vita pratica, o un po’ eccentriche o al più leggermente nevrotiche; e infine che vi possono essere opere di alto significato culturale prodotte da individui che nel corso della loro biografia sono stati internati in qualche clinica neuropsichiatrica o che hanno concluso con una psicosi la loro vita altamente produttiva dal punto di vista culturale. Tuttavia per lo storico e per l’antropologo che si propone di ricostruire le genesi e la struttura dei prodotti della apocalittica d’oggi, non si tratta di enumerare statiche «somiglianze» o «differenze», ma di raggiungere di volta in volta, attraverso l’analisi, quel punto critico in cui le somiglianze rischiano di diventare identità, e in cui le differenze sono state — o ‹non› sono state — drammaticamente istituite. Le apocalissi psicopatologiche segnalano una possibilità non accidentale, ma permanente, delle apocalissi culturali, in quanto manifestano il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale storicamente determinato, di perdere qualsiasi possibilità dell’operabile secondo valori intersoggettivi comunicabili, di patire la caduta dello slancio verso la valorizzazione su tutto il fronte del mondanamente valorizzabile. Nella misura in cui ha luogo l’effettiva ripresa da questa rischiosa possibilità, le apocalissi culturali ridischiudono mediatamente la operabilità del mondo, la progettabilità comunitaria della vita umana, l’attiva testimonianza di effettive opere economiche, morali, giuridiche, politiche, artistiche, scientifiche, filosofiche: in tale mediata ripresa del mondano che si compie attraverso il vario simbolismo apocalittico e che si palesa nella concreta dinamica culturale di questo simbolismo, sta il reale momento escatologico racchiuso nelle apocalissi culturali e non già nell’‹escaton› paradisiaco o ultramondano considerato nella sua astratta formulazione [35]. Da questo criterio generale discende, per lo storico della cultura e per l’antropologo, il compito metodologico di individuare di volta in volta, anche per l’apocalittica d’oggi, l’opera mondana variamente qualificata che essa media e consente, risalendo la perigliosa china di cui l’apocalisse psicopatologica indica il rischio in modo esemplare. Nell’analisi dei prodotti dell’apocalittica d’oggi lo storico della cultura e l’antropologo sono quindi chiamati di volta in volta a misurare di quanto l’immediato finire della crisi radicale sia affrontato e oltrepassato nella sua incombenza paralizzante, nella sua attualità indicibilmente disforica, nella sua privata e incomunicabile fruizione euforica di paradisi terrestri e di ultramondi, ovvero nel suo furore distruttivo di tutto ciò che vive e che vale. Nell’analisi di questi prodotti spetta allo storico della cultura e all’antropologo il compito di determinare, attraverso tale misurazione, il mediato ricostituirsi — oltre la crisi — di un messaggio relativo alla vita e al mondo che continuano e si trasformano; e spetta altresì il compito di indicare quando questo messaggio è incerto o assente, e quando infine, nel silenzio di ogni effettiva comunicazione, ricalca i modi stessi della crisi: ma proprio per assolvere questo compito, lo storico della cultura e l’antropologo non possono non avvalersi del sussidio euristico del documento psicopatologico.

In questo contesto, EdM evidenzia, nella nota, il particolare rilievo dell’apocalittica nella tradizione “giudaico-cristiana” (2° filone), e il ruolo centrale che essa avrebbe svolto nella storia fondativa della civiltà occidentale:
[35]. È questo, per lo storico della cultura e per l’antropologo, il criterio fondamentale di valutazione di tutte le apocalissi culturali, religiose o profane che siano. Così per esempio il tema apocalittico protocristiano manifesta il suo reale momento escatologico proprio nel continuo differimento della parusia e nel margine che in tal modo viene lasciato alla testimonianza mondana della ‹charitas› che sta al di sopra della fede e della speranza (‹Prima lettera ai Corinzi›, 13.13). Nel periodo compreso fra la morte di Gesù e la Pentecoste si distende l’epoca critica per eccellenza della comunità cristiana primitiva, la grande prova della sua produttività culturale. Questa epoca critica dovette assumere la forma di un’attesa spasmodica del ritorno del Risorto e del compimento immediato della sua promessa: a ciò accennano le apparizioni ‹post mortem› di Gesù agli apostoli e ai discepoli. Ma questi «ritorni del morto-risorto», che indirettamente testimoniano di un’apocalisse imminente che rischiava di non lasciar più nessun margine operativo mondano, appaiono nel Vangelo riplasmati nel senso di restituire progressivamente respiro a quel margine, e di consentire quindi il dispiegarsi di una «civiltà cristiana». Così l’Ascensione chiude il ciclo delle apparizioni di Gesù, suggellandone la fine con l’invito di non guardar più verso il cielo nell’attesa dell’immediato compimento della promessa: e con l’ultima apparizione di Gesù non la data della parusia viene comunicata, ma l’annunzio di una opera da compiersi sino agli estremi confini della terra mercé dello Spirito Santo e della ‹dynamis› da esso conferita. In questa riplasmazione gli stessi «ritorni del morto-risorto» vissuti nel periodo della crisi vengono assunti come prova della Risurrezione, e l’ultima apparizione e la Pentecoste acquistano il significato di garanzia del ritorno definitivo di Gesù, senza dubbio certissimo, ma abbastanza indeterminato nel suo «quando» da lasciare aperta l’epoca della testimonianza cristiana in questo mondo, l’epoca della Chiesa di Cristo. Si venne così istituendo quella caratteristica tensione cristiana fra il «già» avvenuto (la morte, la risurrezione, la promessa del Cristo) e il «non ancora» (la seconda parusia), una tensione nella quale si iscrive il «qui» e l’«ora» della testimonianza nel mondo, secondo una dialettica operativa che racchiude il momento realmente escatologico di questa illustre apocalittica culturale.

La funzione “positiva” (nel senso del riscatto dell’ethos del trascendimento) del cristianesimo sarebbe dunque nella dilazione (neotestamentaria) a tempo indeterminato della “2ª parusia”, dilazione che avrebbe consentito il dispiegarsi (o ridispiegarsi) dell’ethos, con conseguente recupero e rivalorizzazione dell’esistenza terrena.

C’è da chiedersi però quale fosse la necessità di tale recupero per un mondo che era all’epoca quasi interamente estraneo alla tradizione cristiana (e giudaica). In altre parole, l’analisi della dinamica crisi-recupero tutta interna alla concezione cristiana non spiega l’eventuale concomitante crisi della cultura pagana (cioè politeista), il perché tale cultura, che pure era durata per millenni, non fu più capace di trovare un ‹escaton› adeguato all’interno della propria concezione del mondo (e dell’essere umano), o finì per perdere credibilità, cedendo alla repentina diffusione del cristianesimo nei primi secoli dell’“era vulgaris”.


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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mercoledì 18 dicembre 2019

De Martino e il campanile di Marcellinara 2

L’episodio del pastore che non vedeva più il campanile di Marcellinara, già narrato sommariamente da Ernesto de Martino in una relazione tenuta a Perugia nel maggio del 1964, nell’ambito di un convegno dedicato a “Il mondo di domani”, relazione che s’intitolava ‹Il problema della fine del mondo› e il cui testo è riportato nella 1ª parte del capitolo ‹Ouverture› (alle pp. 69-76) del saggio ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), viene descritto in maggior dettaglio nel paragrafo 1.9: ‹Il campanile di Marcellinara›, del 5° capitolo dello stesso saggio (alle pp. 364-365). Ecco come lo racconta l’etno-antropologo:


1.9. Il campanile di Marcellinara [16].
Ricordo un tramonto, percorrendo in auto qualche solitaria strada calabrese. Non eravamo sicuri della giustezza del nostro itinerario, e fu per noi di sollievo imbatterci in un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, ma le sue indicazioni erano così confuse che lo pregammo di salire in auto e di accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: lo avremmo compensato per il disturbo. Accolse con qualche diffidenza la nostra preghiera, come temesse un’insidia oscura, una trama ordita ai suoi danni: forse lontani ricordi di episodi di brigantaggio dovevano affacciarsi nella sua immaginazione. Lungo il breve percorso la sua diffidenza aumentò, e si andò tramutando in vera e propria angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista familiare del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo minuscolo spazio esistenziale. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e a tal punto si andò agitando mostrando i segni della disperazione e del terrore, che decidemmo di riportarlo indietro, al punto dove ci eravamo incontrati. Sulla via del ritorno stava con la testa sempre fuori del finestrino, spiando ansiosamente l’orizzonte per vedervi riapparire il domestico campanile: finché quando finalmente lo rivide, il suo volto si distese, il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta. Giunti al punto dell’incontro, ci fece fretta di aprirgli lo sportello, e si precipitò fuori dell’auto prima che fosse completamente ferma, selvaggiamente scomparendo in una macchia, senza rispondere ai nostri saluti, quasi fuggisse da un incubo intollerabile, da una sinistra avventura che aveva minacciato di strapparlo dal suo ‹Lebensraum[17], dalla sua unica ‹Umwelt› possibile, precipitandolo nel caos [18]. Anche gli astronauti, da quel che se ne dice, possono patire di angoscia quando viaggiano nel silenzio e nella solitudine degli spazi cosmici, lontanissimi da quel «campanile di Marcellinara» che è il pianeta terra: e parlano e parlano senza interruzione con i terricoli non soltanto per informarli del loro viaggio, ma anche per aiutarsi a non perdere «la loro terra». Ciò significa che la presenza entra in rischio quando tocca i confini della sua patria esistenziale, quando non vede più «il campanile di Marcellinara», quando perde l’orizzonte culturalizzato oltre il quale non può andare e dentro il quale consuma i suoi «oltre» operativi: quando cioè si affaccia sul nulla.


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NOTE
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[16]. Paesino della provincia di Catanzaro. Questa forma di spaesamento rielabora, in termini culturali, la nozione heideggeriana di «essere fuori di sé» espressa dalla parola ‹Unheimlichkeit›. Cfr. capitolo 2, nota 10.

[17]. Nozione introdotta dal geografo tedesco Friedrich Ratzel, alla fine del XIX secolo, e trasformata in slogan per giustificare la politica espansionista della Germania nazista.

[18]. A questo proposito notiamo una sorprendente coincidenza col racconto di Piero Chiara «Fine a mezzanotte», pubblicato prima in rivista e poi, nel 1963, nella raccolta ‹Mi fo coraggio da me›, All’insegna del pesce d’oro, Milano, pp. 21-31. Stando al padre dello scrittore, che ha vissuto l’esperienza in un paesino siciliano, il 31 dicembre 1875, gli abitanti, convinti che la fine del mondo stesse per arrivare, si sono recati nei campi a fare baldoria. Ad eccezione però dei giovani, che sono rimasti a sorvegliare il campanile, senza distogliere lo sguardo, fino all’ultimo rintocco della mezzanotte.


La nota 10 del capitolo 2, cui rimanda la nota 16 riportata qui sopra, tratta nella sua parte conclusiva delle possibili traduzioni adottate per l’aggettivo tedesco ‹unheimlich›, dal quale deriva il sostantivo ‹Unheimlichkeit›:
[…] sin dal 1919 il termine ‹unheimlich›, nella sua accezione freudiana, è tradotto in italiano con l’espressione «il perturbante». Tuttavia, Jervis traduce l’aggettivo ‹unheimlich› col termine «spiacevole». De Martino, da parte sua, riconosce una dimensione di «intraducibile» che richiese di far ricorso a due termini: in questo caso, «non familiare», «spaesato»; altrove invece tradurrà con «alterità», «stranezza». Il che lo porterà a forgiare la sua nozione di «spaesamento». […]
Come l’inglese ‹home›, il tedesco ‹Heim› indica casa propria, come ambiente familiare, di vita quotidiana; a differenza di ‹Haus› (ingl. ‹house›) che indica invece la casa come generica costruzione (non necessariamente la propria), cioè come oggetto fisico; ‹unheimlich› sarebbe dunque strano, perturbante in quanto non familiare, non “casalingo” (non “appaesato” per EdM), e ‹Unheimlichkeit› sarebbe di conseguenza stranezza, “perturbanza”, in quanto non-familiarità, non-casalinghitudine (“spaesamento” per EdM, ma sarebbe più aderente al tedesco “spaesanza”, o “spaesantezza”, in quanto qualità della cosa e non stato d’animo del soggetto, ovvero come proprietà di ciò che può essere “spaesante”, o indurre “spaesamento” nel soggetto umano).

La nozione di ‹Umwelt› (ambiente), menzionata nel passo di de Martino, può invece esser fatta risalire a Jakob Johann von Uexküll (1864-1944), biologo, zoologo e filosofo estone, che fu un pioniere dell’etologia ed è considerato uno dei fondatori dell’ecologia (vedi wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Jakob_Johann_von_Uexküll); secondo la sua concezione, ciascuna specie vivrebbe in un proprio ambiente percettivo, determinato dai propri apparati di senso. Nel caso degli esseri umani, tuttavia, la biologia non sarebbe sufficiente a determinare univocamente la loro ‹Umwelt›, cosicché essa potrebbe essere diversa per ciascun individuo; per assicurare una certa uniformità si renderebbero allora necessari condizionamenti culturali e un potere centrale abbastanza forte (lo Stato) da imporre una propria ‹Umwelt› artificiale. Questo concetto di ‹Umwelt› (mondo-ambiente) verrà in seguito ripreso e rielaborato da Heidegger.

NOTA: non è chiaro a che cosa von Uexküll attribuisse questa peculiarità degli esseri umani; non dispongono forse essi degli stessi organi di senso di molte altre specie, o quanto meno della maggior parte dei mammiferi? Potrebbe essere interessante approfondire l’argomento.

Troviamo infine curioso che il fortuito – e nelle circostanze infruttuoso – incontro di EdM con un anonimo pastore locale abbia reso noto il paese di Marcellinara (Marcinàra in calabrese, vedi wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Marcellinara) nonché il suo campanile praticamente in tutto il mondo.


Una nostra precedente annotazione sulla relazione letta a Perugia da Ernesto de Martino nel 1964, ‹Il problema della fine del mondo›, è accessibile qui.

Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è invece consultabile qui.

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giovedì 12 dicembre 2019

I compiti dello storico secondo Ernesto de Martino

Nella 1ª parte del 3° capitolo del saggio ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), e più precisamente all’inizio del paragrafo 1.7, a p. 256, Ernesto de Martino tratteggia quelli che ritiene debbano essere i caratteri essenziali di un buon lavoro storiografico:
1.7. Il primo compito dello storico è di accertare la coscienza che gli operatori storici contemporanei ebbero di un fenomeno (di un istituto, di prodotto artistico, di un mito, di una liturgia, di una teoria scientifica o filosofica, di un’epoca, ecc.). Ma con ciò il suo compito è tutt’altro che esaurito perché la conoscenza storiografica non consiste nel ‹ripetere› il vissuto consapevole che accompagna un fenomeno culturale, ma nel situare questo vissuto in una rete di condizioni e di risultati che non appartengono ovviamente alla coscienza contemporanea e che tuttavia conferiscono a quel vissuto la sua realtà e verità, il suo «significato» e la sua «importanza». Senza dubbio il pericolo polarmente opposto a quello di una semplice «ripetizione» della coscienza contemporanea sta nell’attribuire a questa stessa coscienza ciò che in realtà appartiene alla sfera delle condizioni inconsapevoli o ai risultati percepibili solo in una prospettiva maturatasi successivamente: la storiografia idealistica si è macchiata spesso di tale arbitrio. Ma purché risulti nel discorso storiografico che cosa appartiene all’accertata coscienza dei contemporanei e che cosa alle condizioni inconsapevoli che l’analisi storiografica mette in luce e che cosa ancora ai risultati che matureranno più tardi e che lo storiografo identifica con la prospettiva più ampia di cui si giova, il processo alle intenzioni è di regola nella ricerca storiografica, anzi la coscienza limitata dei «contemporanei» emerge proprio per entro una ricostruzione dinamica che abbraccia condizioni e risultati inconsapevoli.
Buon lavoro storiografico è quello in cui, in primo luogo, il lettore è messo in condizione di sapere, rigo per rigo, a che cosa si riferisce il discorso: se alla coscienza degli operatori storici, o alle condizioni e motivazioni inconsapevoli a essi, o ai mediati risultati che fecero maturare un fenomeno oltre la coscienza dei suoi contemporanei.

Schematizzando, potremmo dire che secondo EdM un buon lavoro storiografico non si dovrebbe limitare all’accertamento e al resoconto dei fatti accaduti (le azioni umane), ma dovrebbe mirare, una volta accertati i fatti, ad individuare e a distinguere tra loro 3 ordini di nessi:
𝑎) quelli tra i fatti e le motivazioni coscienti e consapevoli dei loro protagonisti;
𝑏) quelli tra i fatti e le motivazioni inconsce o inconsapevoli dei loro protagonisti;
𝑐) quei nessi che non potevano essere all’epoca né consapevoli né inconsapevoli, ma la cui consapevolezza maturerà soltanto in seguito all’evoluzione storica.

Va tenuto presente che le valutazioni dei protagonisti (𝑎 e 𝑏) possono anche essere errate o inadeguate, e che in ogni caso esse sono legate al contesto culturale dell’epoca e più specificamente del loro ambiente. Sarebbe interessante verificare se e fino a che punto le opere di argomento storiografico che si leggono perseguono questi obiettivi, e il primo a subire questo tipo di scrutinio dovrebbe naturalmente essere lo stesso saggio di Ernesto de Martino (pur tenendo ovviamente conto del fatto che non poté terminarlo).


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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giovedì 5 dicembre 2019

L’ethos del trascendimento è doverci essere nel mondo

Il 2° capitolo del saggio di Ernesto de Martino ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), è dedicato al tema ‹Le apocalissi psicopatologiche›; tuttavia nella 2ª delle 5 parti che compongono tale capitolo, e in particolare alle pp. 186-187, l’autore approfondisce, in un paragrafo breve ma teoricamente assai denso, la sua concezione di quella dimensione, specifica della vita umana, che denomina “ethos del trascendimento” (i puntini tra parentesi quadre […] tra i 2 cpvv. sono nell’originale, e indicano che i curatori hanno omesso alcuni passi intermedi):

2.3. Ethos del trascendimento = doverci-essere-nel-mondo.
Che il ‹Dasein› sia ‹in-der-Welt-sein› è il tema fondamentale dell’esistenzialismo heideggeriano. Ma l’‹esserci› come ‹esser-nel-mondo› rimanda alla vera condizione trascendentale del ‹doverci› essere. Intanto è pensabile la presenza, in quanto si dispiega l’energia presentificante, l’emergere valorizzante della immediatezza della vita: il che significa che proprio questa energia, questo «oltre» costituisce la vera condizione trascendentale dell’esistenza. La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere, secondo modi distinti di progettazione e di intersoggettività. L’uomo è sempre ‹dentro› l’esigenza del trascendere, e nei modi distinti di questo trascendere, e solo ‹per entro l’oltrepassare valorizzante› l’esistenza umana si costituisce e si trova come presenza al mondo, esperisce situazioni e compiti, fonda l’ordine culturale, ne partecipa e lo modifica. All’uomo non è dato mai trascendere questa stessa energia del trascendimento, che opera in lui ne sia o non ne sia cosciente, la riconosca come tale oppur no: l’uomo non può che esercitarla ridischiudendosi sempre di nuovo al suo imperativo o patire variamente la sua crisi, sino al limite di quell’annientamento che, per l’individuo, sono la follia e la morte, e per le comunità la decadenza o il crollo della loro visione della operabilità del mondo. Ma sia che questa energia apra faticosamente il varco al suo slancio, sia che ricada su se stessa, questo suo dispiegarsi e questo rischio di caduta hanno luogo sempre ‹dentro› di essa, fanno parte della sua interna dialettica, senza che mai possa saltare sopra se stessa e pervenire alla «natura» in sé anteriore a ogni valorizzazione umana — o al «puro spirito» secondo un trascendimento ultimo e definitivo. Questa non trascendibile energia del trascendimento valorizzante intersoggettivo è, per eccellenza, trascendentale, cioè condizione ultima e inderivabile della pensabilità e della operabilità dell’esistere: in quanto chiama sempre di nuovo ad andar oltre la immediatezza del vivere, non è ‹élan vital›, ma ethos tanto poco riducibile al dato biologico che il condizionamento biologico si fa percepibile dentro non fuori e prima, il suo dispiegarsi; d’altra parte non si esaurisce affatto nei ‹mores› storico-culturali, nei costumi, nelle singole «morali», in questa o quella etica, ma ‹mores›, costumi, singole morali, singole etiche procedono dal modo e dai limiti dentro i quali l’ethos si fa consapevole di sé e si esercita nelle morali storiche. Linguaggio, vita politica, vita morale, arte e scienza, filosofia, simbolismo mitico-rituale della vita religiosa, procedono da questo ethos: la antropologia non è che la presa di coscienza sistematica di questo ethos, la determinazione dei distinti modi del suo manifestarsi storico, la individuazione, nell’oltre del trascendere, delle coerenze che presiedono ai singoli modi dell’oltre, dell’ordine e della relazionalità dei modi fra di loro, di ciò che appartiene alla struttura universale dell’esistenza e di ciò che invece si riferisce solo a singole formazioni storico-culturali transeunti.
[…]
Domesticità dello sfondo, orizzonte di operabilità domesticatrice, emergenza presentificante della valorizzazione attuale iterantesi sempre di nuovo senza tuttavia esaurire mai la totalità ideale dell’essere, questi tre momenti costituiscono l’articolarsi concreto dell’ethos del trascendimento della vita. L’emergenza presentificante ha luogo nella domesticità di uno sfondo, cioè nell’assunzione di una datità ovvia, mantenuta nell’anonimato, e tuttavia senza problematicità attuale proprio perché concrezione di passati o remotissimi trascendimenti che «una volta» furono presentificazioni nella storia del singolo come in quella della umanità. In tale sfondo di presentificazione e domesticazioni culturali avvenute una volta e che ora stanno come datità ovvia, anonima, disindividuata, la presentificazione attuale secondo valore si fa margine e si dà concreto orizzonte di domesticazione operativa qualificata: emerge, cioè, secondo orientamenti di volta in volta egemonici, secondo questo o quel ‹telos›. Ora questo immenso «affidarsi a» per «raccogliersi in» si inaugura sempre di nuovo col progetto comunitario dell’utilizzabile, in cui la stessa vita «bisognosa di…» sta come ordine umano che produce vita e bisogni e mezzi per la soddisfazione dei bisogni, e in cui la fedeltà alle domesticazioni utilizzanti già una volta avvenute fa da sfondo condizionante al concentrarsi in una certo ben determinata utilizzazione attuale, nella varia gradualità della «applicazione» più o meno meccanica e abitudinaria, dell’adattamento di tradizioni tecniche operative, della innovazione, della invenzione, ecc.

Proviamo ora a rileggere questo passo demartiniano depurandolo dalla terminologia esistenzialista e dai riferimenti alla filosofia di Heidegger:

[…] l’‹esserci› come ‹esser-nel-mondo› rimanda alla vera condizione trascendentale del ‹doverci› essere. Intanto è pensabile la presenza, in quanto si dispiega l’energia presentificante, l’emergere valorizzante della immediatezza della vita: il che significa che proprio questa energia, questo «oltre» costituisce la vera condizione trascendentale dell’esistenza.
Il particolare modo di essere dell’uomo, quel che s’intende per vita umana, si caratterizza per una specifica attività (il dispiegarsi dell’energia presentificante di EdM), per la quale non gli è sufficiente la “immediatezza della vita” – che peraltro condivide con gli animali – ma è obbligato (dalla propria natura?) a cercare qualcosa che va (o si trova) “oltre” il rapporto immediato con la realtà esterna (sia naturale, sia umana?). Il fatto cessa di essere un semplice fatto, ma acquista un senso, un contenuto (il “valore”, per EdM); l’uomo si disinteressa del fatto in sé, divenuto mera apparenza, per interessarsi del contenuto.

La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere, secondo modi distinti di progettazione e di intersoggettività.
Qui EdM cerca di legare l’ethos definito sopra con la “naturale socialità” dell’essere umano (il “progetto comunitario”) ma questo nesso ci pare forzato e risente forse di una formazione ideologica marxista, o quantomeno di un’adesione a tale impostazione ideologica; l’identità umana (l’ethos di EdM) si forma fin dalla nascita, e se è vero che il neonato abbisogna per lungo tempo delle cure e dell’accudimento da parte di qualche adulto, non pare appropriato riferirsi per questo a un “progetto comunitario”. Del resto la nascita, in de Martino, non c’è: è come se l’essere umano comparisse già adulto, con una “presenza” già strutturata – per quanto sempre precaria – e con tutti i problemi che questa presenza comporta (e questa è, a quanto ci risulta, una caratteristica comune a tutti i filosofi).

All’uomo non è dato mai trascendere questa stessa energia del trascendimento, che opera in lui ne sia o non ne sia cosciente, la riconosca come tale oppur no: l’uomo non può che esercitarla ridischiudendosi sempre di nuovo al suo imperativo o patire variamente la sua crisi […]
… la crisi dell’imperativo, oppure della “energia del trascendimento”? Comunque sia, se chiamiamo questa energia “fantasia”, oppure capacità di immaginare una realtà differente da quella attuale e concretamente presente, che ne costituisca però una chiave di lettura, EdM afferma qui – e ci pare un’intuizione notevole – che tale capacità agisce comunque, indipendentemente dalla volontà del soggetto, e che questi ne sia consapevole o meno; in altre parole: può essere sia cosciente, sia inconscia; potrebbe quindi, per quanto egli (EdM) non lo espliciti, essere attiva anche durante il sonno!
[…] sino al limite di quell’annientamento che, per l’individuo, sono la follia e la morte, e per le comunità la decadenza o il crollo della loro visione della operabilità del mondo.
Dobbiamo però distinguere la morte fisica, che per l’individuo è inevitabile e in un certo senso “naturale” (quando non dovuta a eventi traumatici o a malattia), dalla morte “psichica”, che è sempre esito di una patologia, la quale a sua volta è l’effetto di una ‹noxa› esterna, per quanto spesso invisibile; occorre allora indagare, sia a livello biografico individuale, sia a livello sociale, quali siano le cause della crisi e dell’eventuale fallimento.

Ma sia che questa energia apra faticosamente il varco al suo slancio, sia che ricada su se stessa, questo suo dispiegarsi e questo rischio di caduta hanno luogo sempre ‹dentro› di essa, fanno parte della sua interna dialettica, senza che mai possa saltare sopra se stessa e pervenire alla «natura» in sé anteriore a ogni valorizzazione umana — o al «puro spirito» secondo un trascendimento ultimo e definitivo.
In realtà, pare sia proprio di certe patologie schizofreniche cercare di realizzare un’esistenza come “puro spirito”, e tale realizzazione paradossalmente coinciderebbe, in un’estrema scissione, con quella di un “puro corpo” (si veda M. Fagioli, ‹La marionetta e il burattino›, § 2.2: ‹La schizofrenia simplex›); ma forse è vero che persino lo schizofrenico più cronicizzato non riesce che ad avvicinarsi a questa condizione, senza mai poterla veramente raggiungere.

Questa non trascendibile energia del trascendimento valorizzante intersoggettivo […] non è ‹élan vital›, ma ethos tanto poco riducibile al dato biologico che il condizionamento biologico si fa percepibile dentro non fuori e prima, il suo dispiegarsi […]
Concordiamo che non sia “riducibile al dato biologico”, ma se non è almeno ‹riconducibile› “al dato biologico”, a che cosa sarebbe mai dovuta? Allo spirito santo? Considerando la dinamica della nascita, il feto si sviluppa da una realtà che è puramente biologica, deve dunque esistere un momento in cui questo “ethos” emerge da tale realtà biologica, altrimenti si torna al concetto di anima immortale fantasticata da Platone, con tutte le aporie ad esso conseguenti.
[…] la antropologia non è che la presa di coscienza sistematica di questo ethos, la determinazione dei distinti modi del suo manifestarsi storico […ecc., fino alla fine del 1° cpv.]
Ovvero: l’antropologia sarebbe lo studio delle modalità con cui questo ethos si manifesta storicamente, non si dovrebbe invece occupare né delle sue origini, né di come esso ethos si sviluppa; un po’ come oggetto della linguistica sarebbe l’insieme delle lingue nel loro concreto manifestarsi e nei loro rapporti reciproci, ma non l’origine né lo sviluppo della capacità linguistica negli umani.

Domesticità dello sfondo, orizzonte di operabilità domesticatrice, emergenza presentificante della valorizzazione attuale […], questi tre momenti costituiscono l’articolarsi concreto dell’ethos del trascendimento della vita.
EdM distingue qui 3 “momenti” dell’ethos del trascendimento:
  • domesticità dello sfondo (un ambiente già valorizzato culturalmente);
  • orizzonte di operabilità domesticatrice (possibilità umana di ulteriore valorizzazione);
  • emergenza presentificante della valorizzazione attuale (attività umana).
L’ambiente già valorizzato è il risultato, una sorta di sedimento, delle precedenti attività di valorizzazione:
[…] concrezione di passati o remotissimi trascendimenti che «una volta» furono presentificazioni nella storia del singolo come in quella della umanità. In tale sfondo […] la presentificazione attuale secondo valore si fa margine e si dà concreto orizzonte di domesticazione operativa qualificata […]
Ovvero – così almeno comprendiamo – questa attività presentificante sarebbe sempre incrementale, nel senso che tenderebbe ad ampliare e ad approfondire sempre più – ai limiti indefinitamente – i significati (valori) attribuiti alla realtà esterna (sia quella naturale, sia quella umana). Questa affermazione lascia però irrisolto il problema, già segnalato sopra, dell’origine, sia individuale sia sociale (“comunitaria”, in termini demartiniani) di questa valorizzazione.

[…] questo immenso «affidarsi a» per «raccogliersi in» si inaugura sempre di nuovo col progetto comunitario dell’utilizzabile, in cui la stessa vita «bisognosa di…» sta come ordine umano che produce vita e bisogni e mezzi per la soddisfazione dei bisogni […]
E qui EdM sembra legare di nuovo l’attività valorizzante al fare concreto (produrre mezzi per la soddisfazione dei bisogni) di marxiana memoria, senza considerare (né valorizzare) la distinzione – che invece Fagioli evidenzia fin dal 2° paragrafo di ‹Istinto› – tra bisogni ed esigenze umane.

Però, sul finire, possiamo regalare all’etnoantropologo un’intuizione, reinterpretando che l’“affidarsi a” e il “raccogliersi in” sono tipici del lattante nel rapporto con chi lo accudisce, che però non deve limitarsi a soddisfare i bisogni (materiali) del neonato, bensì far leva sulla propria sanità inconscia per entrare in risonanza affettiva e favorire lo sviluppo di quell’universo di valori di cui ogni essere umano dispone, in potenza, fin dalla nascita.


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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martedì 3 dicembre 2019

Irreversibilità, reversibilità e ripetizione in de Martino

Nell’ultimo saggio di Ernesto de Martino, ‹La fine del mondo› (ed. Einaudi 2019), la 3ª parte del 1° capitolo è dedicata al tema ‹Eterno ritorno e simbolismo mitico-rituale›; alle pp. 129-130, un breve paragrafo illustra la concezione demartiniana di come il mito – equiparato qui al rito religioso – agisca modificando la percezione del tempo e il suo fluire:

3.2. Irreversibilità, crisi, ripetizione mitico-rituale delle origini.
La coscienza ciclica del tempo, quale si esprime religiosamente nella ripetizione rituale di un mito delle origini e di fondazione e cosmologicamente nella teoria dell’eterno ritorno va interpretata, nella sua stagione storico-culturale più feconda, come un sistema protettivo per mediare la storicità del divenire umano difendendolo dal rischio, sempre presente come tentazione, di annientarlo nella grande pigrizia della ripetizione dell’identico e della pura ciclicità del tornare-a. Il simbolo mitico-rituale della ripetizione di un mito delle origini segna una sorta di ‹imitatio naturae›: si riprende il tornare-a, lo si riplasma culturalmente, e lo si risolve in un orizzonte che ridischiude l’esserci-nel-mondo. Il divenire umano che si estolle sulla pigrizia di quello subumano continua a essere travagliato da questa stessa pigrizia: la irreversibilità del tempo degli uomini rischia di farsi reversibile. La reversibilità ripresa e mutata di segno, ecco il simbolo mitico-rituale della ripetizione del mito delle origini.
Il dover esserci nel mondo culturale, il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile: in questa tensione vive l’ethos primordiale della presentificazione.
La reversibilità del tempo come rischio di annientamento è ripresa e mutata di segno, cioè avviata di nuovo verso la irreversibilità del divenire storico-culturale aperto al dover essere valorizzante: questo è il significato della ripetizione rituale di un mito delle origini. La tradizione giudaico-cristiana lascia entrare nella stessa coscienza mitico-rituale la coscienza storica del divenire irreversibile: l’accento si sposta dalla esemplarità delle origini alla esemplarità del centro del divenire, dal divino al divino incarnato (il Cristo), dalla ripetizione delle origini alla ripetizione del centro (la morte e la risurrezione di Cristo), dalla ciclicità delle catastrofi all’attesa di un termine a direzione unica (il Regno). Alla ripetizione delle origini divine della storia segue ora la ripetizione del centro divino-umano della storia col problema della salvezza individuale nel termine unico annunziato [41]. Il grande problema della nostra età è quello di una salvezza dell’individuo nella società umana, nella socializzazione dell’individuo che non sia massificazione, burocratizzazione, automatizzazione, tecnicismo, statolatria, divinizzazione del capo, ecc.
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La nota [41] rimanda semplicemente al 3° capitolo, dedicato in modo specifico al tema ‹Il dramma dell’apocalisse cristiana›.

Superando le difficoltà della prosa demartiniana, il concetto fondamentale ci sembra quello del “divenire umano”, inteso come un modo di essere che appartiene specificamente all’essere umano e che lo caratterizza, implicando una presenza che conferisce al tempo vissuto una particolare – potremmo dire – intensità. La natura inanimata evolve anch’essa, ma su tempi che si misurano in miliardi di anni; la natura biologica evolve su tempi assai più rapidi, ma sempre dell’ordine dei milioni di anni; la vita umana, invece, basata sulla cultura, sull’elaborazione di rappresentazioni simboliche, si modifica nell’arco delle migliaia, delle centinaia e persino delle decine di anni, così che il cambiamento diviene percepibile anche al singolo individuo.

Confrontata alla staticità della natura, la vita dell’essere umano è quindi continuo cambiamento, e incessante iniziativa, decisione su cosa cambiare e come lo si debba cambiare; in termini più fagioliani che demartiniani, potremmo dire che è una continua “separazione” dal passato. Questa particolare intensità, questa necessaria “presenza” non può che esser legata all’assenza, nel genere umano, di istinti che impongano determinati comportamenti, e all’insorgere invece, alla nascita, della pulsione come prima reazione agli stimoli provenienti dal mondo esterno inanimato (Fagioli).

Questa prima identità che l’essere umano realizza alla nascita – l’ethos demartiniano? –, fusione della pulsione con la vitalità, è però precaria, e necessita, per potersi sviluppare, del rapporto e della conferma da parte dell’altro essere umano (l’adulto che accudisce il neonato), chiamato a soddisfare il desiderio. In mancanza di tale conferma, l’identità della nascita rimane esposta alla scissione, al ritorno verso il meramente biologico – la ‹imitatio naturae› di de Martino? – o all’angoscia suscitata dalla pulsione che, messa all’esterno, diviene entità spirituale astratta, opprimente e paralizzante.

La “morte psichica”, su questo doppio versante, è un’eventualità ancora più terrificante della morte fisica, e richiede l’elaborazione di un apparato di idee e di procedure (riti) che storicamente si è strutturato dapprima come mito, e in séguito come religione; il processo di generazione e di elaborazione di un tale apparato è ciò che de Martino chiamerà poco oltre “ierogenesi” (la genesi del sacro). L’approccio dell’etno-antropologo ci sembra generoso e interessante, per quanto forse viziato da una terminologia derivata dai suoi studi heideggeriani. Il particolare risalto dato al cristianesimo (come espressione “di punta” del monoteismo) richiederà un ulteriore approfondimento. È un vero peccato che de Martino non abbia potuto proseguire la sua ricerca. Chissà dove sarebbe arrivato?


Il sommario del saggio di Ernesto de Martino è consultabile qui.

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