martedì 28 maggio 2019

D’Agostino, Ciro il Grande e l’Accademia di Babilonia

Nel volume del noto assiriologo Franco D’Agostino, intitolato ‹Gilgameš - Il re, l’uomo, lo scriba›, edito da L’Asino d’oro edizioni (2017), nel 1° capitolo, alle pp. 7-8 si legge:
La civiltà mesopotamica possedeva infatti una profonda conoscenza del tempo e degli astri, della matematica e della geometria, della medicina e dell’idrodinamica, e altresì nozioni precise della topografia del mondo allora conosciuto (ideologicamente rielaborato a concepire Babilonia come il centro dell’intero universo). I suoi sofisticatissimi miti e i riti a essi connessi, che tanta influenza ebbero anche sul pensiero giudaico della cattività e attraverso di questo sulla cultura cristiana e in ultima analisi occidentale, avevano raggiunto una spettacolarità e ricchezza di significati straordinarie: gli scribi, i veri detentori di questa tradizione, erano capaci di sottigliezze politiche degne della cultura umanistico-rinascimentale italiana. Tutto questo affascinò Ciro assai più del palazzo reale o della ‹ziqqurat› descritta da Erodoto. Non è certo un caso se il primo atto di Ciro, non appena il suo esercito riuscì a entrare in città, fu quello di porre una guardia di armati attorno al tempio Esagila (il cui nome, sumerico, significa ‘Il tempio che solleva al cielo la testa’), in modo che non fosse toccato dal saccheggio. Questo edificio sacro era dedicato al dio principale di Babilonia, Marduk, e aveva rappresentato il fulcro della cultura mesopotamica per duemilacinquecento anni.

La città era dunque stata fondata dai Sumeri, e in lingua sumera era chiamata "KA.DINGIR.RA", la cui traduzione in accadico è ‹Bab-Ilu›, «la Porta di Dio» (si veda anche wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Babilonia). D’Agostino prosegue:
Ciro e i Persiani, insomma, subirono dalla Babilonia conquistata lo stesso fascino che i Romani avvertiranno in seguito nei confronti della Grecia. E lungi dal distruggere quella città, che già il profeta Isaia (13,19), pur maledicendola per la sua immoralità, era stato costretto a definire «il più bello tra i regni, la glorificazione della maestà dei Caldei», Ciro ne fece uno dei gangli economici e culturali del suo impero, permettendo all’accademia annessa al tempio di Marduk, fulcro della tradizione semitica meridionale, di continuare a esistere e prosperare.

Veniamo così a sapere che allorché Ciro conquista Babilonia, nel 539 a.e.v., vi trova un’accademia già funzionate, quindi fondata anni – se non decenni – prima; cosa dobbiamo pensare allora della storiella della fondazione dell’Accademia da parte di Platone nel 367 a.e.v., che è riportata anche da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Platone#La_fondazione_dell'Accademia) con le parole seguenti:
Nel 387 a.C. Platone è ad Atene; acquistato un parco dedicato ad Academo, vi fonda una scuola che intitola Accademia in onore dell’eroe e la consacra ad Apollo e alle Muse.

È possibile che D’Agostino usi arbitrariamente e metaforicamente il termine “accademia” per una realtà che precedeva quella platonica di oltre centocinquant’anni, a circa 3000 km di distanza da Atene? Oppure il nome “accademia” ha tutt’altra origine, e la storiella di Academo ha il solo scopo di occultare la sua provenienza mesopotamica?

Sulle straordinarie gesta dell’eroe Academo, si veda la pagina dedicatagli da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Academo).

Il sommario del saggio di D’Agostino è consultabile qui.

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giovedì 23 maggio 2019

Della Pergola sul peccato originale, l’infinito e il battesimo

Nel saggio di Fabio Della Pergola, intitolato ‹Dall’impuro al peccaminoso›, edito da Licosia Edizioni (dicembre 2018), nel 1° capitolo, subito dopo una citazione di Gregorio di Nissa (IV sec.), a p. 26 si legge:
La natura umana, resa vuota dalla colpa [del peccato originale], doveva essere nuovamente “riempita” di senso, doveva essere “riempita” di verità. Che non è verità umana, ma verità divina, verità dello Spirito assoluto. Quello spirito assoluto che è immaginato “scendere” quindi, a farsi uomo, per riscattare la materia dalla sua perdizione. E la natura umana, decaduta e morta, acquisisce nuovamente — ci viene detto — una sua realtà effettiva solo nella misura in cui l’infinito, preesistente all’uomo, “entra” nella finitudine della carne e conferisce alla vita umana quel ‹senso› che solo lo Spirito le può dare.

Nei primi secoli dell’era cristiana, però, l’infinito non aveva diritto di cittadinanza né nella cultura greca – Aristotele aveva decretato che poteva essere considerato solo nella sua forma “potenziale”, mai in quella “attuale”, cioè “in atto” – né in quella ebraica, che verosimilmente neppure si era mai posta il problema (non risulta che il termine “infinito” compaia nelle Scritture, ebraiche o cristiane che siano); donde proviene allora questo “infinito”, e chi è che ne scrive? Gregorio vescovo di Nissa (335~395), oppure Agostino vescovo di Ippona (354-430)?

Come che sia, Della Pergola prosegue:
Unico rimedio, dice la teologia, è il lavacro del battesimo che costituisce anche la carta d’ingresso nella comunità dei cristiani: una volta battezzati, si è ‹battezzati in Cristo›.

Lo stesso sacramento del battesimo evidenzia però un vero e proprio “tallone d’Achille” della teologia; a parte i casi (rari, almeno nel mondo cattolico) in cui si viene battezzati da adulti, è infatti un sacramento che si riceve a un’età alla quale non si è minimamente consapevoli del suo significato; un rimedio che si riceve senza volerlo per un peccato che non si è commesso?

Ma la contraddizione più grave è che non vale in tutti i casi, come è dimostrato dal problema storico dei ‹conversos› spagnoli (detti anche ‹marrani›), ebrei che furono costretti (o indotti) a battezzarsi in massa nel tardo Medioevo, ma che ciononostante non vennero mai ritenuti “veri” cristiani, e anzi considerati con maggior sospetto che se fossero rimasti ebrei, in quanto potenziali “criptogiudei”; vedi ad esempio wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Marrano).

Molti studiosi considerano il problema dei ‹conversos› e i conseguenti statuti sulla ‹limpieza de sangre›, promulgati in Spagna agli inizi del XVI secolo, come un passo iniziale nella transizione dall’antigiudaismo “teologico” medievale a quello “biologico” del XIX secolo, che tante vittime avrebbe provocato nel secolo successivo.

Ancora un’osservazione sulla frase «[…] una volta battezzati, si è ‹battezzati in Cristo›»: passi pure l’assurdità del rito simbolico che, pur non essendo che un gesto materiale manifestamente irrilevante sarebbe tuttavia in grado di mutare lo stato “ontologico” dell’essere umano che vi si sottopone (e in genere, come abbiamo già detto, vi è sottoposto da altri)… ma che cosa c’entra il battesimo con l’infinito?

Oltretutto, se non ricordiamo male, il rito del battesimo dovrebbe essere precedente al cristianesimo, se è vero che Gesù stesso fu battezzato da Giovanni Battista; dunque deve essere comparso in ambito giudaico, forse essenico.

Il sommario del saggio di F. Della Pergola è consultabile qui.

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venerdì 17 maggio 2019

Liverani e la “religiosità diffusa” nei villaggi del neolitico

Nel saggio di Mario Liverani, ‹Antico Oriente› (1988), Laterza 2003, nell’ambito del 3° capitolo, intitolato a ‹Le premesse neolitiche e calcolitiche›, § 3.2: ‹Il Neolitico pieno: i caratteri generali›, alle pp. 75-76, leggiamo:
Le comunità sono internamente percorse e motivate da una religiosità diffusa che ha lasciato ampie testimonianze iconiche e oggettuali. Questa religiosità ha due aspetti tra di loro complementari: un aspetto funerario e collegato (tramite la venerazione degli antenati) alla struttura gentilizia «patriarcale»; ed un aspetto attinente al problema della fertilità (umana, animale, vegetale) che le tecniche di produzione di cibo hanno portato in primo piano. I due aspetti sono connessi, poiché le meditazioni neolitiche sul parallelismo tra riproduzione animale (basata sulla penetrazione sessuale) e riproduzione vegetale (basata sul seppellimento della semente) conferiscono anche al seppellimento dei defunti una qualche affinità con l’interramento e la rinascita moltiplicata dei semi. Ho parlato di religiosità piuttosto che di religione, perché il simbolismo (largamente animalistico e sessuale) e le stesse famose raffigurazioni femminili (di «Veneri» steatopigie) riflettono piuttosto concezioni sui problemi naturali della fertilità e della mortalità, che non personalità divine ben individuate e diversificate (come avverrà invece, e per motivi comprensibili, nelle fasi successive).

Il capitolo è l’ultimo della parte introduttiva del volume, e dunque ha solo la funzione di descrivere la situazione di partenza degli sviluppi successivi – a iniziare della “rivoluzione urbana” vera e propria – che costituiscono il vero oggetto dell’opera, tuttavia questo cpv. in particolare ci sembra discutibile nella sua impostazione; ne esaminiamo alcune affermazioni:

«Le comunità sono internamente percorse e motivate da una religiosità diffusa […]»: non si comprende da dove venga fuori questa “religiosità diffusa”, se era presente o meno anche nelle fasi precedenti (paleolitico, mesolitico) e che forme eventualmente assumesse (ad esempio risulta che anche il Neandertal seppellisse i defunti, per quanto non fosse la regola).

«Questa religiosità ha due aspetti […] complementari: un aspetto funerario e collegato (tramite la venerazione degli antenati) alla struttura […] “patriarcale” […]»: non è chiaro perché il culto degli antenati debba necessariamente essere “patriarcale”, non venivano sepolte anche le femmine (cioè le “ave”)?

«[…] ed un aspetto attinente al problema della fertilità (umana, animale, vegetale) […]»: questa sembrerebbe una componente più antica; la fertilità poteva ben essere una preoccupazione anche per i cacciatori-raccoglitori, tanto più che non avevano alcun controllo diretto su piante e/o animali, e forse non erano neppure consapevoli dei meccanismi della procreazione umana.

«[…] le meditazioni neolitiche sul parallelismo tra riproduzione animale […] e riproduzione vegetale […] conferiscono anche al seppellimento dei defunti una qualche affinità con l’interramento e la rinascita moltiplicata dei semi»: a parte l’uso dei termini “meditazioni” e “parallelismo”, presumibilmente estranei alla realtà dei neolitici, le considerazioni di Liverani sembrano più ispirate a sviluppi di pensiero molto successivi – da Aristotele a Freud – che non alla realtà sociale e culturale del paleolitico; innanzitutto una buona metà della popolazione era costituita da donne che difficilmente avrebbero accettato di essere equiparate alla “terra” in cui piantare il “seme”; in secondo luogo, con quali mezzi prendevano forma queste “meditazioni”? esisteva già un linguaggio articolato, un pensiero verbale, oppure si trattava di immagini, magari oniriche? ma le immagini oniriche come possono essere condivise, se non si dispone di un linguaggio articolato di sufficiente complessità? si torna dunque al problema delle origini del linguaggio.

«Ho parlato di religiosità piuttosto che di religione […]»: in realtà sul passaggio dalla “religiosità” – una certa alienazione religiosa sembrerebbe essere una fase fisiologica nell’essere umano, dovuta alla dinamica della nascita – alla “religione” come forma di credenza strutturata e condivisa esistono opinioni differenti e non risulta si sia ancora pervenuti a un accordo generale; alcuni fissano la linea di discrimine sul concetto di trascendenza, caratteristico del monoteismo; altri sull’esistenza di una casta sacerdotale e sull’osservanza di riti e ricorrenze, già presenti nel politeismo; altri ancora sull’affidarsi a entità anche immanenti ma invisibili, non percepibili, o quantomeno nascoste (in questo caso vi rientrerebbero gli animisti, ma anche i moderni scienziati); Liverani, alla fine del cpv., pone invece l’accento sull’esistenza di “personalità divine ben individuate e diversificate”, il che sembra un po’ riduttivo e si applica solo alla successiva fase politeistica.

«[…] il simbolismo (largamente animalistico e sessuale) […]»: ma non erano “animalistiche” anche le pitture rupestri del paleolitico? Evidentemente per gli esseri umani gli animali hanno rappresentato, fin dalle origini del pensiero che gli antropologi definiscono “simbolico”, qualcosa che andava ben al di là del loro semplice aspetto naturalistico.

«[…] riflettono piuttosto concezioni sui problemi naturali della fertilità e della mortalità […]»: “fertilità” e “mortalità” vuol dire, banalmente, nascita e morte, origine e conclusione, inizio e fine, comparsa e sparizione, l’eterno problema dell’essere umano di comprendere la propria limitata esistenza, e non solo la propria, ma anche – e forse soprattutto – quella dei suoi compagni di viaggio (ricordiamo Gilgameš e il suo sconvolgimento per la morte dell’amico Enkidu); necessità di rapportarsi al nuovo, quindi, ma anche quella di separarsi da ciò che non è più; notiamo però che ad essere sparito nel frattempo è “il simbolismo (largamente animalistico e sessuale)”, per l’equiparazione sessualità = procreazione, cui anche il buon Liverani non sfugge.

Il sommario del volume di Liverani, ‹Antico Oriente - Storia società economia›, è consultabile qui.

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Liverani: “patriarcato” e “strategie matrimoniali” nei villaggi del neolitico

Nel saggio di Mario Liverani, ‹Antico Oriente› (1988), Laterza 2003, nell’ambito del 3° capitolo, intitolato a ‹Le premesse neolitiche e calcolitiche›, § 3.2: ‹Il Neolitico pieno: i caratteri generali›, a p. 75, leggiamo:
I villaggi sono di norma piccoli e radi. La dimensione ridotta, valutata di concerto alle strategie matrimoniali, induce a ritenere che l’insediamento coincidesse con poche famiglie estese, e al limite con una sola, e che comunque l’imparentamento all’interno del villaggio fosse pressoché generalizzato. La struttura sociale e decisionale è dunque impostata sulla presenza di uno o di pochi capi-famiglia («anziani» o «patriarchi» che dir si voglia); su differenziazioni drastiche per sesso, età, provenienza; ma su differenziazioni relativamente modeste di carattere socio-politico. Non emergono ancora, neppure dai corredi delle sepolture – per non dire della dimensione e attrezzatura delle abitazioni – differenze di rango significative.

Il passo si riferisce agli insediamenti nel tardo neolitico – prima dell’avvento di quella “rivoluzione urbana” che avrebbe dato grande impulso allo sviluppo delle prime civiltà della Mesopotamia. Ci colpiscono 2 affermazioni di Liverani che meriterebbero un ulteriore approfondimento:

«La dimensione ridotta […degli insediamenti…] induce a ritenere che […] l’imparentamento all’interno del villaggio fosse pressoché generalizzato»: perché si esclude che vi fossero pratiche di scambio o di emigrazione da un villaggio all’altro per mantenere una certa variabilità genetica? Pratiche del genere sembrano attestate ad esempio nel neolitico (vedi nota) nell’Europa centrale – in questo caso sembra fossero prevalentemente le donne a emigrare, probabilmente al séguito di gruppi itineranti, mentre gli uomini erano più legati al territorio.
NOTA: si veda ad esempio un articolo di G. Talignani, pubblicato da R.it (“Repubblica”) il 18/09/2017 col titolo ‹Nel Neolitico erano le donne la chiave della conoscenza› (qui: http://archividiroccosolina.blogspot.com/p/2017-09-18-repubblica-talignani-donne.html), articolo che, pur essendo discutibile sotto tanti aspetti, fa riferimento a ricerche di grande interesse e impatto antropologico.

«La struttura sociale e decisionale è […] impostata sulla presenza di uno o di pochi capi-famiglia (“anziani” o “patriarchi” che dir si voglia) […]»: il termine “patriarchi”, oltre a richiamare reminiscenze bibliche, presuppone che si sia già in ambito “patriarcale”, il che non è invece per nulla scontato; oltretutto occorrerebbe spiegare come e perché si sia passati da una organizzazione di tipo “matriarcale” – o quantomeno “matrilineare” – quando le donne erano le custodi della caverna e assicuravano la sopravvivenza del gruppo, ad una “patriarcale”, passaggio che potrebbe essere avvenuto proprio col paleolitico, quando si comprese (per analogia con gli animali) il ruolo maschile nella riproduzione.

Il sommario del volume di Liverani, ‹Antico Oriente - Storia società economia›, è consultabile qui.

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venerdì 10 maggio 2019

Sethi I e Merenptah: le prime menzioni di Abramo e di Israele

Nel saggio di Mario Liverani, ‹Oltre la Bibbia› Laterza, Roma-Bari 2005, nell’ambito del 1° capitolo, dedicato a ‹La Palestina nel Tardo Bronzo (secoli XIV-XIII)›, § 1.9: ‹I nomadi “esterni”›, alle pp. 29-30, leggiamo:
I testi disponibili (dagli archivi dell’epoca o dalle iscrizioni celebrative egiziane) riflettono tutti un’ottica palatina, vedono i nomadi come entità esterne e indistinguibili, e perciò usano termini complessivi e raramente nomi di specifiche tribù. Nessuno dei nomi delle tribù d’Israele, riportate dai testi biblici, è attestato in Palestina alla fine dell’età del Bronzo: la documentazione è troppo scarsa, ma forse quelle tribù non si erano ancora costituite come entità auto-identificate. Si hanno in effetti due sole menzioni di gruppi tribali, entrambe connesse alla terminologia biblica ma non ai nomi delle tribù «classiche». Una stele di Sethi I da Bet-She’an (ca. 1289; ANET, p. 255) riferisce di lotte tra gruppi locali, lotte il cui scenario è la zona attorno a Bet-She’an stessa, e che sono presentate come sintomo dell’irrimediabile anarchia delle genti locali. La stele nomina, oltre ai «‹Ḫabiru› del monte Yarmuti», anche una tribù di Raham. Possiamo pensare che i membri di questa tribù si definissero «figli di Raham» (*Banu-Raham) e che avessero come antenato eponimo un «padre di Raham» (*Abu-Raham) che è il nome del patriarca Abramo.
Qualche decennio dopo (ca. 1230; LPAE, pp. 292-295) una stele di Merenptah celebra il trionfo del Faraone in una sua campagna attraverso la Palestina, citando tra i nemici vinti città come Ascalona e Gezer, paesi come Canaan e Kharu, corredando tali nomi con i determinativi di «regione»; ma tra essi c’è un nome col determinativo di «gente» (dunque un gruppo tribale, non sedentario) ed è Israele. È la prima menzione in assoluto del nome, che probabilmente va collocato nella zona degli altopiani centrali. In effetti la sequenza delle tre località Ascalona-Gezer-Yeno‘am è come inquadrata tra i due termini (più vasti) di Canaan e di Israele: e se Canaan ben si colloca all’inizio della sequenza, nella pianura costiera del sud, Israele si colloca altrettanto bene sugli altopiani centrali.
«Abramiti» e «Israeliti» erano dunque nel XIII secolo gruppi pastorali attivi negli interstizi — per così dire — dell’assetto geopolitico palestinese, e tenuti a bada (se troppo turbolenti) dall’azione militare egiziana.

In questo passo Liverani non specifica però la forma (neppure traslitterata) in cui viene menzionato il termine “Israele” nella stele di Merenptah.


Nel saggio ‹Dall’impuro al peccaminoso› (Licosia Edizioni 2018), Fabio Della Pergola si mostra molto più prudente, e definisce “ipotetico” il riferimento della stele di Merenptah al popolo di Israele.

Il sommario del saggio di Fabio Della Pergola è consultabile qui.

Nel 4° capitolo, ‹Il problema dell’unicità e della trascendenza di Dio nella Bibbia ebraica›, all’inizio del paragrafo 4.2. ‹La salvezza: teologia del Patto e teologia della Promessa›, la nota 135 riporta:
La prima ipotetica menzione del popolo ebraico si trova nella stele del faraone egizio Merenptah (1200 a.C. c.ca) dove tra i popoli cananei sconfitti è citato anche quello di ‹ysrir› che alcuni identificano con Israele.

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Liverani e le classi sociali nella Palestina del Tardo Bronzo

Nel saggio di Mario Liverani, ‹Oltre la Bibbia› Laterza, Roma-Bari 2005, nell’ambito del 1° capitolo, dedicato a ‹La Palestina nel Tardo Bronzo (secoli XIV-XIII)›, § 1.6: ‹Il palazzo e la sua centralità›, alle pp. 21-22, leggiamo:
Più in concreto, la dipendenza del regno dal re assume due forme ben distinte, e la popolazione è divisa in due grandi categorie. Da un lato vi sono gli «uomini del re», che sono privi in linea di principio di mezzi di produzione propri, lavorano per il re e da lui ricevono come retribuzione i mezzi di sostentamento. Dall’altro lato vi è la popolazione «libera» (i «figli» del tal paese) che detiene mezzi di produzione propri e fornisce al re una quota del proprio reddito sotto forma di tassa. Gli «uomini del re» prevalgono nella capitale e gravitano sul palazzo reale, la popolazione libera prevale nei villaggi (compreso quel «villaggio residuale» che è la capitale, una volta che se ne detragga l’ambito palatino).
Le due categorie sono distinte per caratteri giuridici, politici, funzionali; ma non sono due classi economicamente compatte. La popolazione libera si colloca ad un livello medio, di famiglie che possiedono quel po’ di terra e di bestiame che consente loro di vivere e riprodursi; ma possono anche imboccare (sotto la pressione di annate sfavorevoli) la via senza ritorno del prestito a interesse e a pegno personale che porta alla servitù per debiti. Invece all’interno degli «uomini del re» esistono disparità socio-economiche molto forti, secondo una scala che va dall’aristocrazia militare dei carristi (‹maryannu›), dal sacerdozio, dagli scribi e amministratori, attraverso gruppi di artigiani, di mercanti, di guardie, fino ai veri e propri servi addetti al palazzo o agli schiavi agricoli decentrati nelle fattorie palatine a lavorare una terra che non è loro.
Tutti costoro sono giuridicamente servi del re, ma i modi e la misura della retribuzione sono diversi e determinano situazioni di fatto assai diverse. Carristi, scribi, mercanti, possono accumulare sostanziose ricchezze soprattutto sotto forma di terre concesse loro dal re. È vero che si tratta di terre date in concessione e non in proprietà, dunque legate alla fornitura del servizio. Però accade normalmente che il servizio sia trasmesso per linea ereditaria e le terre pure: ed accade che chi ha risorse economiche sufficienti si faccia esentare dal servizio dietro pagamento di una somma. A questo punto, nulla (se non la memoria dell’origine e del processo) distingue una fattoria agricola data in concessione da una di proprietà familiare ereditaria.

Non è chiaro però dove vadano a finire quei “liberi” costretti a “imboccare … la via senza ritorno … che porta alla servitù per debiti”: finiscono nell’altra “classe”, quella dei “servi del re”, oppure esisteva un’ulteriore fascia, quella dei “servi” ‹tout court› o, in altre parole, degli schiavi, in qualche modo equiparabili ai prigionieri di guerra?

Queste 2 “categorie” riguardavano l’intera popolazione, oppure esistevano anche genti “non integrate” nel sistema, che in qualche modo rimanevano “esterne”, ad esempio perché nomadi, oppure al di fuori della giurisdizione regale?

Tra i “servi del re” sono elencati anche i carristi (‹maryannu›), definiti “aristocrazia militare”, e poi i sacerdoti, gli scribi e gli amministratori; dobbiamo intendere che – a parte forse la famiglia reale – l’intera élite era compresa nella categoria dei “servi del re”?

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giovedì 9 maggio 2019

Dalla costola di Adamo: freccia o vita?

Nel saggio ‹Dall’impuro al peccaminoso› (Licosia Edizioni 2018), Fabio Della Pergola fa riferimento all’ipotesi nota come “ipotesi documentale” o “documentaria”, detta anche “teoria delle quattro fonti” o “teoria JEDP”, formulata nell’Ottocento da Julius Wellhausen (vedi wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Ipotesi_documentale); verso la fine del paragrafo 4.6, alle pp. 108-9, si legge:
Un aspetto interessante da evidenziare sono le radici, molto antiche, dei brani jahwisti; radici rintracciate dagli archeologi in racconti della mitologia sumerica [218], che sono stati evidentemente trasmessi, di popolo in popolo, per mille anni o più. Con un curioso gioco di parole in lingua sumerica — derivante dalla parola “‹ti›” che significava sia ‘costola’ che ‘vita’ — i sumeri raccontarono come la donna, curando la costola ferita del trasgressore punito dalla grande dea madre, aveva la capacità di ridargli la vita (o la vitalità?) perduta. Segno forte di un femminile non ancora negato, svilito e tantomeno demonizzato. Manipolazioni non rintracciabili nei secoli intercorsi fra la letteratura sumerica e quella ebraica hanno fatto sì che nel racconto biblico i termini maschile/femminile fossero invece invertiti. Qui è l’uomo che dà vita alla donna attraverso la costola; strana procedura creativa che ha dato luogo ad un plurimillenario enigma sul quale si sono scervellate generazioni di esegeti: perché Dio avrebbe creato la donna proprio dalla costola dell’uomo? Nessuno però era più in grado di dare una risposta, dopo l’estinzione del sumero. Secoli dopo, come è noto, si potrà avvalere di questa versione biblica l’arrogante misoginia di Paolo di Tarso [219].

Riportiamo anche le 2 note, che ci sembrano importanti per comprendere l’argomento:
[218]. Il riferimento è al mito di Enki e Ninhursag in cui è evidente la prima traccia del mito di Adamo ed Eva: «da un poema che tratta il mito di Enki e Ninhursag (…) sappiamo che in un remoto paradiso (…) il ‘paese dei vivi’ non cioè degli uomini mortali, le dee nascono senza dolore; ma Enki mangia le otto piante fatte spuntare da Ninhursag, la grande dea madre che lo maledice, lo vota alla morte e scompare. Lì una parte del corpo di Enki, ferito, è la costola e la dea creata per guarire la costola è Ninti (la signora della costola e la signora che fa vivere perché ‘‹ti›’ significa in sumero “costola” e “vita”): di questo gioco di parole nulla rimane, è ovvio, nel racconto biblico…», G. Semerano, ‹Le origini della cultura europea› cit., p. 151; cfr. anche J. Bottéro, S. Kramer, ‹Uomini e dèi della Mesopotamia›, Einaudi, Torino 1992. La presenza nella mitologia sumerica, oltre al noto episodio del diluvio, di due diversi episodi di liti fra fratelli ha fatto affermare che la fonte Jahwista «si appropria senza alcuna difficoltà di materiali originariamente non israelitici, quali la storia di Caino ed Abele», J.A. Soggin, ‹Introduzione all’Antico Testamento›, Paideia, Brescia 1987⁴, p. 147.
[219]. «Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva», ‹1Timoteo› 2,12 ss. […]

D’altra parte, nel volume ‹La lingua dei Sumeri›, di Franco D’Agostino ed altri (Hoepli 2018), nel § 2.2, a p. 27, troviamo il seguente passo, in cui come esempio del meccanismo detto “associazione fonetica” viene menzionato proprio il caso di ‹ti›:
[…] Associazione fonetica, cioè utilizzo di un determinato segno cuneiforme per esprimere un oggetto o una attività che aveva in sumerico una pronuncia identica o simile. Per esempio, il termine TI (𒋾), che disegna e indica una “freccia”, è utilizzato anche per “vita”, termine omofono in sumerico; lo stesso vale per DUH (𒂃), “crusca”, il cui segno rappresenta due spighe di questo tipo di cereale, omofono del verbo “aprire, chiarire”.


In questo passo però non si parla di “costola”, bensì di equivalenza, sia grafica sia fonetica (dove la 2ª è occasione e causa della 1ª), tra “vita” e “freccia”. Il caso ci sembra interessante e meriterebbe un ulteriore approfondimento.

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giovedì 2 maggio 2019

Della Pergola, Liverani e le diverse vie per il monoteismo

Sempre nel saggio di Fabio Della Pergola, ‹Dall’impuro al peccaminoso›, Licosia Edizioni (dicembre 2018), all’inizio del paragrafo 4.3, alla p. 83, si legge:
Siamo in una fase [il periodo pre-esilico] in cui le differenze tra politeismo e monolatrìa sono sfumate e dai confini labili e fluttuanti. La tendenza monolatrica non riguardava però solamente il popolo ebraico; era un processo diffuso in tutto il Vicino Oriente dell’epoca. Anche nel caso del Dio supremo dei babilonesi, Marduk, che era solitamente accompagnato da un ricco pantheon, in epoca tardo-babilonese si osserva un concentrarsi delle varie divinità minori in un ente unico; progressivamente «tutte le divinità venivano identificate con funzioni o aspetti di Marduk» […]. Gli dèi divennero sfaccettature diverse di un solo dio che cambiava “maschera”, aspetto, nome e funzioni, ma che era — o stava diventando — sostanzialmente unico. Il processo di condensazione delle varie divinità in un ente unico, cronologicamente ‘primo’ e gerarchicamente superiore, forse fu limitato, ma era comunque iniziato e diffuso nel Vicino Oriente anche prima della stesura del testo biblico.

FdP fa riferimento in nota al testo di M. Liverani, ‹Oltre la Bibbia› Laterza, Roma-Bari 2012, p. 226, dove puntualmente troviamo:
La condizione della diaspora [l’esilio babilonese] ebbe senza dubbio i suoi effetti […]: non solo nel rafforzare l’affermazione dell’enoteismo nazionale come potente mezzo di auto-identificazione, o anche nel separare il popolo dei fedeli dai punti di riferimento materiale del culto, ma anche nell’introdurre a processi di identificazione incrociata già assai sviluppati nella Babilonia di età tarda, dove tutte le divinità venivano identificate con funzioni o aspetti di Marduk:
Urash è Marduk della piantagione
Lugalidda è Marduk dell’abisso
Ninurta è Marduk del piccone
Nergal è Marduk della battaglia
Zababa è Marduk della guerra
Enlil è Marduk della signoria e della consultazione
Nabu è Marduk della contabilità
Sin è Marduk che illumina la notte
Shamash è Marduk della giustizia
Adad è Marduk della pioggia
Tishpak è Marduk delle truppe
il Grande Anu è Marduk del […]
Shuqamuna è Marduk del contenitore
[…] è Marduk di ogni cosa […]
Ma in Babilonia l’esistenza di diverse città, tutte col loro pantheon e col loro dio cittadino, tutte con importanti santuari (dotati di estese funzioni socio-economiche), contribuirono a mantenere questa tendenza verso l’unificazione ad un livello di speculazione teologica. La congiuntura storica ebbe il suo peso: non è un caso che la teologia babilonese di tipo “identificativo” (o “riduzionista”: tutto il pantheon diventa una sfaccettatura di Marduk), l’emergere del “dualismo cosmico” zoroastriano, e l’emergere del “profetismo etico” giudaico si collochino tutti in uno stesso torno di tempo (VI secolo) e in un ambito geografico piuttosto ristretto.

Ci assalgono tuttavia alcuni dubbi:

• passi per le divinità maschili, ma anche quelle femminili venivano “assorbite”? Francamente ci pare difficile da credere (se non altro perché Marduk avrebbe dovuto assumere caratteri – anche fisici – femminili), così non restano che 2 possibilità: o erano state in qualche modo già “eliminate” in precedenza (o relegate in 2° piano), oppure rimanevano “indipendenti” (non risulta infatti vi fosse un corrispondente processo di unificazione in ambito femminile);

• la tendenza babilonese a “condensare” o “assorbire” le varie divinità in una unica (Marduk) non sembra la stessa che portò alla formulazione del monoteismo né in ambito giudaico (lì si tratta piuttosto di esclusione delle altre divinità come “false”), né tantomeno in ambito greco (dove la strada seguìta sembra invece quella dell’astrazione filosofica, della logica astratta di Parmenide e Senofane che “supera” il pantheon della religione tradizionale);

• il “torno di tempo (VI secolo)” ci richiama alla mente l’età assiale di Jaspers, ma l’“ambito geografico piuttosto ristretto” (sempre Liverani) sembrerebbe contraddirla, dato che la concezione jaspersiana era quella di un mutamento che coinvolse più o meno contemporaneamente tutte le civiltà più progredite sulle terre “connesse” in quell’epoca (fino all’estremo Oriente).


NOTA: a conferma di quanto ipotizzato al 1° punto, ci si può divertire a cercare informazioni sulle varie divinità menzionate nell’iscrizione riportata da Liverani:
  • Urash era divinità femminile tra i Sumeri (identificata con Apsu, le acque sotterranee e prima sposa di Anu, il padre degli dèi); in tempi successivi divenne invece divinità maschile tutelare di Dilbat, città a nord di Babilonia;
  • Lugalidda non si sa, ma Lugal (grande uomo) era il titolo dei re sumeri, dunque si trattava probabilmente di una divinità maschile;
  • Ninurta era dio di Lagash, identificato con Ningirsu;
  • Nergal (o Nerigal Signore della grande città) sposo di Ereshkigal, la regina degli inferi, è il dio del calore solare, del fuoco, delle inondazioni e delle pestilenze;
  • Zababa era dio tutelare della città di Kish (in Sumer);
  • Enlil (“Signore delle tempeste” in sumero), era l’antico dio mesopotamico del vento, dell’aria, della terra e delle tempeste;
  • Nabu era il dio della scrittura e della saggezza;
  • Sin (o Sîn, akkadico) = Nanna (sumero) era il dio della luna;
  • Shamash (o Šamaš, in accadico) = Utu (in sumero) era il dio del sole; è il dio rappresentato sulla stele di Hammurabi nell’atto di consegnare al re il suo famoso codice;
  • Adad (in accadico) = Ishkur (in sumero) era il dio della pioggia e della tempesta;
  • Tishpak (Tispak), dio akkadico che sostituì Ninazu come divinità tutelare di Eshnunna, era un dio guerriero;
  • An (in sumerico) = Anum o Anu (in akkadico) era il dio del cielo, artefice del creato, padre degli dei e sposo della dea Antum; gli era sacro il numero 60, massima cifra del sistema di numerazione mesopotamico; An/Anu in akkadico vuol dire “colui che appartiene ai cieli”;
  • Shuqamuna (un dio Kassita), rappresentato da un uccello su un trespolo, era associato, insieme a un’altra divinità, all’investitura dei re.
Pare dunque nella lista di Marduk fossero tutte divinità maschili.

Il sommario del saggio di F. Della Pergola è consultabile qui.

Il sommario del volume di M. Liverani, ‹Oltre la Bibbia›, è consultabile qui.