giovedì 17 ottobre 2019

Fagioli, il morso alla mela e la conoscenza nel peccato originale

Nel volume di Massimo Fagioli, ‹La marionetta e il burattino› (1974, ed. L’Asino d’oro 2011), alla fine del § 6.4 (a p. 252), paragrafo intitolato “Il contenente diventa contenuto”, possiamo leggere:
Rapporto, separazione e trasformazione sono i tre termini essenziali alla realizzazione umana di essere come uomo pensante. Le due dimensioni fondamentali della realtà umana, lo sviluppo e la creatività si basano sul rapporto. Nella dinamica di rapporto lo scambio che fa di ciò che è esterno una realtà interna, comprende il rapporto-separazione-trasformazione.
La mistificazione dello sviluppo e della creatività umana come dinamica di trasformazione come introiezione, separazione, e ‹quindi› rapporto che, in questo modo è di identificazione proiettiva, è la regressione verso il non essere imposta dall’istinto di morte. Il comando della “ragione” che dice: «Mangia il tuo simile, accumula il capitale» per essere, è il comando-inganno del diavolo, del serpente. Mordi la mela e avrai la conoscenza. Introietta il “seno buono”, identificati con tuo padre, e sarai. I termini dell’essere vanno invece posti in questo ordine: rapporto, separazione e trasformazione.
I termini così posti, comprendono la trasformazione del desiderio in investimento sessuale ‹dopo› la sua soddisfazione, e la trasformazione della realtà esterna con la quale si è avuto rapporto mediante la realizzazione dell’Io, in realtà interna di memoria-fantasia.

Il discorso di Fagioli sulle dinamiche del rapporto tra esseri umani ci pare molto interessante, e meriterebbe un approfondimento, ma nel cpv. centrale c’è anche un richiamo evidente al mito del peccato originale contenuto nella Genesi; a sua volta, questo mito conterrebbe un’allusione, più o meno nascosta, ma comunque spesso trascurata, al cannibalismo (il morso) o quantomeno al suo equivalente psichico, l’introiezione; ricordiamo però che un precedente di tale aspetto del mito si ha già nel poema di Gilgameš (anche scritto come Gilgamesh), con la pianta dell’immortalità che il re di Uruk, nell’accomiatarsi da Uta-Napištim – il Noè mesopotamico – recupera in fondo al mare per farne dono ai suoi sudditi, ma che mentre egli dorme gli viene divorata proprio dal serpente, il quale acquista così una forma di eterna giovinezza, ottenuta mediante la muta della pelle.

Vi sono poi in altre culture numerosi esempi di episodi mitici in cui proprietà più o meno magiche, o immunità da sortilegi possono essere acquisite mangiando qualcosa, in genere un frutto o un fiore, ad esempio Ulisse-Odisseo nell’‹Odissea›; potrebbero avere anche questi miti in comune origine e significato?

Che pensare infine della celebre mela “avvelenata” di Biancaneve?

NOTA: in realtà, nella Genesi non è specificato di che frutto si trattasse; per qualche misterioso motivo è divenuta una mela nell’iconografia cristiana; e in ogni caso, le mele comparivano già nella mitologia greca: “il pomo della discordia” che fu remota causa della guerra di Troia (vedi wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Pomo_della_discordia).

Il sommario del volume di Massimo Fagioli è consultabile qui.

Sulla possibile origine di Yahweh come dio-serpente, suggerita da Graves e Patai (1963), e sull’eventuale nesso con l’episodio menzionato del poema di Gilgameš, si veda un nostro post precedente, qui.

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lunedì 16 settembre 2019

Ifrah e i “nomi di numero” di origine indoeuropea

Nel primo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), alle pp. 31-33, Georges Ifrah formula un’ipotesi su come potrebbero essersi sviluppati, nel corso di svariati millenni, i “nomi di numero”:
Prima tappa: l’uomo è rapidamente surclassato dal numero. Questa nozione è limitata a ciò che una percezione immediata permette di riconoscere a colpo d’occhio. Il numero riveste ancora, nel suo animo, l’aspetto di una realtà concreta inseparabile dalla natura degli oggetti a suo diretto contatto [*].
Per togliersi d’imbarazzo, quando deve superare il quattro, si costruisce una scelta di procedure concrete, che gli consentono di raggiungere qualche ulteriore risultato. Fra queste, che nel suo spirito si appoggiano al principio della corrispondenza biunivoca, figurano le tecniche digitali e corporee, che gli forniscono degli insiemi-modello semplici e a portata di mano. E proprio questi insiemi-modello egli esprime nel suo linguaggio articolato, mentre compie i gesti corrispondenti.
Seconda tappa: si tratta, tuttavia, piuttosto che di «nomi di numero» in senso vero e proprio, di nomi di parti del corpo idonee a tale tecnica concreta. Ma, per forza di abitudine, la numerazione corrispondente (adottata nell’ordine iniziale) finisce per «divenire insensibilmente semiastratta e semiconcreta, man mano che cala, nei nomi (soprattutto nei primi cinque) la capacità di evocare le parti del corpo e cresce quella di dare l’idea di un numero, idea che tende a separarsi dal significato originale per riferirsi a un oggetto qualsiasi» (L. Lévy-Bruhl) [2a].
Terza tappa: «Creato e adottato il nome del numero, questo diventa una tipizzazione altrettanto utile quanto l’oggetto iniziale. La necessità di distinguere il nome dell’oggetto di cui ci si serve dal simbolo del numero apporta insensibilmente una modificazione dell’espressione vocale, finché, col trascorrere del tempo, il legame tra i due svanisce dalla memoria. Man mano che l’uomo apprende a servirsi del linguaggio, i suoni si sostituiscono alle immagini per le quali furono creati e i modelli concreti iniziali prendono la forma astratta di “nomi di numero”. La memoria e l’abitudine danno forma concreta a tali astrazioni e in tal modo semplici parole diventano misure di pluralità» (T. Dantzig) [3].

A riprova di quanto afferma per la prima tappa, la nota riporta diversi esempi tratti da studi etnografici e antropologici:
[*]. Così «nelle isole Figi e nelle Salomone ci sono sostantivi collettivi che designano decine di cose scelte arbitrariamente: non sono espressi invece né il numero né il nome della cosa». (Si tratta dei «numeri-insiemi» di L. Lévy-Bruhl) [30]. «Così, a Florida ‹na kua› vuol dire “dieci uova”; ‹na bara› “dieci panieri di cibo”… Nelle Figi, ‹bola› vuol dire “cento canotti in marcia”, ‹koro› “cento noci di cocco”, e ‹salavo› “mille noci di cocco”… Sempre nelle Figi, “quattro canoe in viaggio” si dice ‹a vaqa saqai va›… A Mota “due canoe che veleggiano insieme” si denominano ‹aka peperua› (due canoe farfalle) per l’aspetto delle vele, ecc.» (Codrington). Esempi analoghi sono citati da L. Lévy-Bruhl [2b], L.L. Conant [4] e dal dottor Stephan [31].

L’Autore conclude poi il paragrafo – il 5°, dedicato all’argomento ‹L’espressione gestuale e orale del numero› – con la seguente considerazione (a p. 33):
È dunque possibile, in queste condizioni, che le parole della nostra lingua odierna indicanti i primi dieci numeri interi — parole del cui significato iniziale si è persa traccia, ma che, come sappiamo, sono uscite dal gruppo linguistico «indoeuropeo» (tabella III) — siano state per lungo tempo nomi riferiti a parti del corpo, evocanti l’uso di un processo numerico corporale analogo a quelli descritti. Ma è una semplice ipotesi, impossibile a verificarsi [32].

La tabella III (che occupa l’intera p. 32) riporta i “nomi di numero” relativi ai primi 10 interi (da 1 a 10) in 26 lingue, antiche e moderne, fra quelle usate in Europa – più il sanscrito – e la loro somiglianza dovrebbe dimostrare inequivocabilmente l’origine comune (indoeuropea, secondo l’Autore) degli idiomi europei; l’ipotesi sarebbe però di K. Menninger (vedi note bibliografiche riportate sotto la tabella).


Tabella III [p. 32]

La tabella può esser resa leggibile facendoci click sopra per ingrandirla, oppure aprendola in una nuova scheda, qui.


I riferimenti bibliografici (forniti nel testo di Ifrah, in appendice) sono i seguenti:

[2a] [2b]. L. Lévy-Bruhl, ‹Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures›, PUF, Paris 1928⁹, pp. 204-257.

[3]. T. Dantzig, ‹Number, the Language of Science›, Macmillan, New York 1959; trad. it. ‹Il numero, linguaggio della scienza›, La Nuova Italia, Firenze 1965.

[4]. L.L. Conant, ‹The Number Concept, its Origin and Development›, New York 1923.
— K. Menninger, ‹Zahlwort und Ziffer: Eine Kulturgeschichte der Zahl›, 2 voll., Vanderhoeck und Ruprecht, Göttingen 1957-79; trad. inglese, I vol., The MIT Press (Massachusetts Institut of Technology), Cambridge (Mass.) 1970².

[30]. Codrington, ‹Melanesian Languages›, pp. 211-212 (citato da L. Lévy-Bruhl, 𝑜𝘱. 𝑐𝑖𝑡. nota 2).

[31]. Stephan, ‹Beiträge zur Psychologie der Bewohner von Neu-Pommern›, «Globus», LXXXVIII (1905), p. 206.

[32]. K. Menninger, (tomo I), 𝑜𝘱. 𝑐𝑖𝑡. nota 4.


Il sommario del volume di Georges Ifrah è invece consultabile qui.

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venerdì 6 settembre 2019

Ifrah, Dickens e l’incendio della Camera dei Lord del 1834

Nel suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), e precisamente nel quarto capitolo, dedicato a “La pratica dell’intaglio”, Georges Ifrah riporta un esilarante brano di Charles Dickens – riprendendolo da un testo di Tobias Dantzig – in cui il celebre scrittore racconta, a suo modo, la vicenda dell’incendio che il 16 ottobre del 1834 devastò il palazzo di Westminster, la sede del Parlamento britannico; a p. 101 possiamo leggere:
Qualche secolo fa, una modalità selvaggia di contabilità era stata introdotta nella Corte dello Scacchiere, consistente nel fare tacche su bastoni di legno, quasi come Robinson Crusoè teneva aggiornato il calendario sulla sua isola sperduta. Eserciti di contabili, conservatori di libri e aggiornatori erano nati e morti, ma l’andazzo ufficiale era geloso di quei bastoni, quasi fossero le colonne della costituzione; e lo Scacchiere continuava a scrivere i suoi conti su certi pezzi d’olmo detti ‹tallies›. Sotto Giorgio III, cominciò a soffiare un vento rivoluzionario: ci si chiese se, data l’esistenza di penna, inchiostro, carta, lavagna e gesso, valesse la pena di incaponirsi in quest’uso desueto, anziché adottare un sistema moderno. Ma la burocrazia si ostinò nella sua praticaccia, e i bastoni furono aboliti solo nel 1826.
Nel 1834 ci si accorse che ne esistevano cataste e ci si domandò che fare di quei vecchi bastoni putridi, fracidi di vermi. Li si collocò a Westminster, e persone accorte pensarono che la soluzione migliore fosse distribuirli ai poveri come legna da ardere. Tuttavia, poiché non erano mai serviti a nulla, la burocrazia preferì che non servissero a niente fino in fondo, e fu dato l’ordine di bruciarli nascostamente. Furono bruciati, si dice, in una stufa della camera dei Lord. La stufa, intasata dai vecchi bastoni, diede fuoco alle rivestiture di legno, l’incendio si estese alla Camera dei Comuni e i due palazzi furono inceneriti. Furono chiamati architetti per ricostruirli e per ora siamo arrivati ai due milioni di spese!



In realtà, l’incendio fu causato dal fatto che le due stufe della camera dei Lord utilizzate per disfarsi dei vecchi pezzi d’olmo erano da alimentare a carbone, il quale produce molto calore con poca fiamma, mentre il legno brucia con una fiamma più alta; le fiamme insolitamente alte dettero fuoco alla fuliggine accumulata all’interno delle canne fumarie, non ancora sottoposte alla pulizia annuale, e l’incendio si propagò rapidamente al resto dell’edificio (per ulteriori dettagli, si veda la pagina di wikipedia in inglese: https://en.wikipedia.org/wiki/Burning_of_Parliament).

L’episodio dovrebbe far riflettere sulla rilevanza che possono aver avuto nella Storia gli errori, le sviste, le distrazioni, le incompetenze; una rilevanza probabilmente assai maggiore di quanto gli storici siano normalmente disposti ad ammettere.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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domenica 1 settembre 2019

Drummond, Barrow e l’osso degli Ishongo (o Ishango)

In un suo articolo del dicembre 2018, dal titolo ‹Quella linea impercettibile sospesa tra il nulla e l’infinito›, Edoardo B. Drummond scrive:
Il punto, cioè, trarrebbe dalla linea il suo senso e il suo significato. E ci torna in mente che le prime tracce di pensiero simbolico, all’alba del genere umano, sono linee incrociate, incise sulla superficie di una pietra (nelle già menzionate grotte di Blombos, Sudafrica, ben 77 mila anni fa). Su un altro reperto, un osso di babbuino rinvenuto nelle montagne dello Swaziland e datato 37 mila anni fa, furono praticate 29 tacche, col verosimile intento di contare qualcosa. Sull’«osso degli Ishongo» (‹Ishango Bone›), utilizzato come manico di un utensile, risalente a più di 20 mila anni fa e rinvenuto al confine dell’attuale Congo, le tacche, più di 160, sono disposte su 3 file e raggruppate in ogni fila a formare numeri legati da misteriose relazioni. Qualche studioso ha persino ipotizzato che potesse trattarsi di un rudimentale calendario, ma quello che ci pare straordinario è che le tacche sono disposte lungo una linea che non viene tracciata – un po’ come accadrebbe oggi scrivendo a mano su un foglio bianco – e quindi non può essere vista, ma dev’essere immaginata.





La 2ª di queste figure si trova identica in un breve saggio di John D. Barrow intitolato ‹Perché il mondo è matematico?› (Laterza 1992), i cui contenuti sono stati sviluppati a partire da 3 lezioni tenute dall’autore all’Università di Milano nel dicembre 1991, lezioni che avevano come tema natura e significato della matematica. Nel testo di Barrow, la didascalia della figura in questione (a p. 24) riporta:
Fig. 2. Vista dei due lati del manico di uno strumento in osso fossile rinvenuto da Jean de Heinzelin a Ishongo, nei pressi del Lago Edoardo in Africa. In origine all’estremità destra si attaccava uno strumento di quarzo abbastanza grande per incisioni. Le tacche si succedono a gruppi di tre per volta, il che è piuttosto interessante, e risalgono a ca. il 9000 avanti Cristo.
Barrow descrive la “pratica dell’intaglio” nel passo che segue (pp. 23-24):
[…] La testimonianza più remota di questo sistema di numerazione si ritrova su un osso del perone di babbuino rinvenuto nelle montagne dello Swaziland e risalente al 35.000 avanti Cristo. Presenta 29 tacche e probabilmente si tratta di un’arma su cui il cacciatore segnava gli animali uccisi. In Cecoslovacchia, a Vestonice, è stato ritrovato un osso di lupo, lungo circa 18 centimetri e risalente all’incirca al 30.000 avanti Cristo; esso mostra una linea composta da 25 tacche, poi due segni più grandi, seguiti da altre 30 tacche, e presenta tracce di divisione delle tacche in gruppi di cinque (forse da collegare con il numero delle dita della mano). La cosa interessante è che questo oggetto è stato ritrovato accanto alla scultura in avorio di una testa femminile, che testimonia l’esistenza di una cultura più sviluppata di quella dei cacciatori e dei raccoglitori.
Un’altra famosa testimonianza di questo antico sistema è l’«osso degli Ishongo». Si tratta di un manico originariamente attaccato a uno strumento di quarzo per incisioni, datato intorno al 9000 avanti Cristo, che è stato ritrovato a Ishongo vicino al Lago Edoardo, ai confini dell’attuale Zaire. La civiltà che l’ha fabbricato ha lasciato altre tracce della propria esistenza, che si basava sulla caccia e sulla pesca esercitate sulle rive del lago fino all’improvvisa estinzione causata da un’eruzione vulcanica.
Il manico di osso ha una rozza forma cilindrica ed è fossilizzato, ma presenta tre serie di tacche, come appare dalla figura 2. I segni sono raggruppati in un modo curioso che ha dato luogo a diverse ipotesi fantasiose. Le due file in cima presentano entrambe un totale di 60 segni. La terza ne ha 48 (anche se alcuni sostengono che l’esame microscopico ne rivela degli altri), ma contiene tracce di raddoppiamenti, con gruppi adiacenti di 10 e 5, 8 e 4, 6 e 3 segni. Inoltre la prima fila presenta la sequenza 9, 19, 21, 11, e cioè 10 – 1, 20 – 1, 20 + 1 e 10 + 1. La seconda e la terza fila presentano una lista di numeri primi: 5, 7, 11, 13, 17 e 19. Probabilmente non sapremo mai se si tratti di una fantasia numerologica o se gli Ishongo utilizzassero un sistema a base 10 e conoscessero i numeri primi e il raddoppiamento. La speculazione più interessante riguarda il fatto che i due totali di 60 rappresentano due mesi lunari, perciò le tacche potrebbero segnare il passare del tempo. Probabilmente un metodo accurato per registrare i cambiamenti di stagione era importante per gli Ishongo, dato che le rilevanti variazioni atmosferiche di quella regione li costringevano a migrare verso le montagne all’arrivo delle piogge, allontanandosi dal lago quando le acque salivano.

NOTA: la scultura di testa femminile cui si riferisce Barrow alla fine del primo capoverso citato è probabilmente quella rappresentata in figura – è datata anch’essa circa 30 mila anni a.e.v. – ma per quale motivo dovrebbe testimoniare “l’esistenza di una cultura più sviluppata di quella dei cacciatori e dei raccoglitori” non è del tutto chiaro, considerato che i cacciatori-raccoglitori erano capaci ad esempio di produrre splendide pitture rupestri.

Probabilmente Barrow non si è interessato granché di arte paleolitica, ma del resto non è il suo campo.


Georges Ifrah, invece, nel suo ‹Storia universale dei numeri› (1981, Mondadori 1984), all’inizio del 4° capitolo, a p. 99, dedica ai ritrovamenti di reperti archeologici che documentano la “pratica dell’intaglio” in tempi preistorici soltanto le poche righe che seguono:
Le ossa intagliate che gli uomini preistorici ci hanno lasciate, vecchie di oltre 20.000 anni, sono probabilmente fra i più antichi oggetti che servissero da supporto alla nozione del numero (riq. 14). I nostri lontani antenati che incisero tali ossa, si servirono certamente del processo, per dar concretezza al conteggio di tale o tal altra unità [*].
Questo ‹A-B-C della contabilità› ci è giunto quasi senza alterazioni, attraverso migliaia d’anni di storia, di incivilimento e di evoluzione.
Esse sono accompagnate da questa figura (riquadro 14) e dalla didascalia che segue (a p. 98):

Riquadro 14. Ossa intagliate del Paleolitico superiore. A e C: Aurignaciano [sic!]: (30.000-20.000 a.C.) [sic!]. Musée des Antiquités Nationales di St-Germain-en-Laye (l’osso C proviene da Saint-Marcel, Indre). B e D: Aurignaciano. Ossa provenienti dalla grotta di Külna (Moravia), Cecoslovacchia. E: Magdaleniano (19.000-12.000 a.C.). Osso proveniente dalla grotta di Pekarna (Moravia). Cfr. J. Jelinek [sic!] [92] pp. 435-453.

La nota 92 rimanda a J. Jelínek, ‹Encyclopédie illustrée de l’homme préhistorique› (trad. francese, pp. 435-453), Gründ, Paris 1975.

La grafia “Aurignaciano”, probabilmente riportata dall’originale in francese, deriva dalla località francese di Aurignac, ma in italiano la dizione di gran lunga più utilizzata è “aurignaziano”; da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Aurignaziano):
L’aurignaziano indica una cultura paleolitica che si diffuse in Europa, e in piccola parte anche nel sud-ovest asiatico, tra 47.000 e 35.000 anni fa. Il nome deriva da quello del sito di riferimento situato a Aurignac, nel dipartimento dell’Alta Garonna, nel sud-ovest della Francia.

Possiamo constatare che i tempi non coincidono con quelli indicati da Ifrah, e la differenza non è di poco rilievo, soprattutto se consideriamo che intorno ai 40.000 anni fa si estinse il Neandertal; ci potremmo dunque chiedere se anche questo nostro lontano predecessore praticasse l’arte dell’intaglio. Il ‹Sapiens›, per quanto ne sappiamo, potrebbe benissimo aver appreso a “far di conto” da quel suo cugino un po’ tarchiato, che aveva abitato prima di lui i territori europei e che da solo aveva inventato e praticato – è scoperta recente – l’arte della pittura rupestre.

La nota a piè di pagina del testo di Ifrah aggiunge comunque le seguenti informazioni:
[*]. Le più antiche ossa intagliate sono state scoperte nell’Europa occidentale. Datano dall’Aurignaciano e corrispondono, pressappoco, all’apparizione dell’uomo di Cro-Magnon. Gli intagli, antichi di 20.000-30.000 anni, sono probabilmente segni numerici, ma la destinazione è tuttora difficile da stabilire. Taluni scienziati pensano che i tratti o gruppi di tratti corrispondessero a rilevamenti astronomici, servendo in particolare a stabilire le fasi della luna (luna nuova, primo quarto, piena, ultimo quarto): una teoria la cui conferma richiederebbe studi approfonditi ed esempi più numerosi. Per altri, gli stessi intagli corrisponderebbero a numerazioni effettuate per le necessità di una vita comunitaria e costituirebbero la specifica testimonianza di una contabilità della selvaggina abbattuta in periodo di caccia.

Perché mai l’uomo di Cro-Magnon, unico fra tutte le specie che a quel tempo praticavano la caccia, avesse la necessità di tenere “una contabilità della selvaggina abbattuta” non ci è del tutto chiaro.

In tutto il suo corposo manuale, del resto, Ifrah non prende mai in considerazione l’esistenza, nella preistoria, di più specie umane, esistenza che, ai tempi in cui venne pubblicata la prima edizione del volume, era già ben accertata. Che sia un retaggio della sua “formazione culturale”?

L’articolo di E.B. Drummond è consultabile qui.

Il sommario del volume di J. Barrow è consultabile qui.

Il sommario del volume di G. Ifrah è consultabile qui.

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sabato 31 agosto 2019

“Ragazzino donne e sifilide”, una lettera di Massimo Fagioli pubblicata nel 1980 su Lotta Continua

Caro Luciano,
ho avuto la ventura, da ragazzino, di incontrare una donna assai brutta. A me parve bruttissima appena la vidi. Ho sempre bevuto molto, da tutti, le strade e le stradine percorse, deserte, salvo le molte puttane, molli di pioggia si trasformarono per me in uno di quei labirinti che fanno ogni istituto di psicologia, da un milione di anni, che servono per certi esperimenti sugli uomini: sull’istinto animale, la ripetizione, la rassegnazione, la passività.

Dentro quei vicoli mi muovevo con pochissima sicurezza, dapprima, che diventava, poi, sempre maggiore. Guidato da un desiderio forsennato e dalla certezza che le cose non potevano essere in quel modo. Era una sensazione dolorosa aumentata dalla mia nebbia di allora. E il mio corpo era in subbuglio. Penso che tu intenda cosa voglio dire. Quella donna, la realtà psichica umana, le cui labbra bellissime nascondevano spesso, troppo spesso i denti guasti dell’invidia e della rabbia.

Ne cercai di donne, anch’io avevo bisogno di quella sana che curasse la mia sifilide, il mio desiderio cieco, la negazione della realtà psichica umana.
[…]

Inizia con queste parole il testo di una lettera di Massimo Fagioli, pubblicata il 24 aprile 1980 da “Lotta Continua”, cui era stata inviata in risposta a un’altra lettera, pubblicata in precedenza sullo stesso giornale, firmata da Luciano Ardiccioni. Per questo motivo, la lettera di Fagioli, che ha per titolo ‹Ragazzino donne e sifilide›, è anche nota, tra gli appassionati di cose fagioliane, come ‹Risposta a Luciano›.

Non ci interessa tanto, in questa sede, commentare le implicazioni teoriche della lettera, né la qualità della dialettica che il testo esprime, quanto considerare l’immagine che la redazione prese l’iniziativa di associare al testo. Un tale abbinamento – anche considerando i richiami “classici” e mitologici evidenti dell’illustrazione – ci sembra poco abituale per quel giornale, soprattutto nella pagina riservata ai contributi dei lettori. Un’immagine più completa, di cui quella associata al titolo è un dettaglio, venne riprodotta in calce alla pagina, sotto il testo della lettera (e la firma di Fagioli):




In essa si possono distinguere, oltre al “ragazzino”, 4 donne più o meno abbigliate e in pose molto diverse – probabilmente riconducibili a figure mitiche – e, in alto a sinistra, un gruppo di 3 uccelli rapaci – forse aquile? In realtà, però, anche questa immagine più ampia è a sua volta un dettaglio di un’opera più complessa, che riproduciamo qui:




Si tratta di un’incisione (acquaforte?), del pittore e scultore tedesco Max Klinger (1857-1920), intitolata ‹Dedication (Widmung) to Arnold Böcklin› (1887). Quest’ultimo, Arnold Böcklin (1827-1901), pittore, disegnatore, scultore e grafico svizzero, fu uno dei principali esponenti del Simbolismo tedesco, ed è noto in particolare per ‹L’isola dei morti› (‹Die Toteninsel›), una serie di cinque dipinti realizzati tra il 1880 e il 1886.




Potrebbe venire il dubbio che vi fosse, nelle intenzioni della redazione di “Lotta continua”, un riferimento al titolo di ‹Istinto di morte e conoscenza›, il primo libro di Massimo Fagioli, nel quale sono esposti i fondamenti della teoria della nascita?

L’arco nelle mani della figura centrale starebbe forse a rappresentare la conoscenza? Oppure quel “saper fare”, così essenziale nell’arte medica (e anche in psichiatria), che può salvare la vita, ma anche uccidere?

AMBIGUITÀ: nella pagina di wikipedia dedicata a ‹L’isola dei morti› di Böcklin, si può leggere quanto segue (https://it.wikipedia.org/wiki/L’isola_dei_morti_(dipinto)):
[…] ‹L’isola dei morti› accese persino la fantasia di Adolf Hitler: senza dubbio affascinato dall’oscura simbologia del dipinto, il Führer acquistò la terza versione del dipinto nel 1933, per poi collocarla nel Berghof prima e nella Cancelleria del Reich poi. Esiste una foto raffigurante Hitler nel suo studio, in compagnia del Ministro degli Esteri sovietico Vjačeslav Michajlovič Molotov e del Ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop, uomini di stato che avevano sottoscritto il patto di mutua non aggressione tra Germania Nazista ed Unione Sovietica: ebbene, sulla parete è visibile proprio ‹L’isola dei morti›.
Ovviamente non possiamo essere sicuri che questo dettaglio fosse a conoscenza dei redattori di “Lotta continua”, si insinua tuttavia il sospetto che l’associazione dell’immagine alla lettera di Fagioli potesse celare un’allusione quantomeno ambivalente.


Il testo completo della ‹Risposta a Luciano› di M. Fagioli può essere letto qui.

La lettera di L. Ardiccioni, intitolata ‹Il medico, il carabiniere e il vicino di casa›, è consultabile qui.

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Georges Ifrah e il “prezzo della fidanzata”

Nel settimo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), Georges Ifrah evidenzia come la necessità di valutare i “beni” in modo “oggettivo”, cioè indipendente dalla comunità di appartenenza, non sia sorta soltanto per via dell’estendersi degli scambi commerciali, ma sia dovuta anche – e forse soprattutto – a cause di “natura giuridica”; a p. 114 possiamo leggere infatti:
Con l’intensificarsi dei contatti fra i diversi gruppi e la crescente importanza delle transazioni, lo scambio diretto — secondo cui le mercanzie sono spesso scambiate a capriccio dell’uno o dell’altro individuo o in virtù di un uso consacrato o magari dopo estenuanti contrattazioni — diventò scomodo. Si sentì presto la necessità di un sistema relativamente stabile di valutazione o equivalenza, fondato sulla definizione di campioni fissi, partendo dai quali fosse sempre possibile stimare valori differenti. Ciò valeva per operazioni economiche, ma anche — e forse soprattutto — per regolare problemi di natura giuridica, quali il ‹prezzo della fidanzata›, il ‹prezzo del sangue› (stime in beni per ferite gravi o per quelle seguite da morte), il ‹prezzo del furto›, ecc.
La prima unità di baratto introdotta nella Grecia pre-ellenica, e presso i romani del IV secolo a.C., pare sia stato il bue. Nell’‹Iliade› di Omero (VIII secolo a.C.), ‹una donna abile a mille lavori› era valutata 4 buoi (XXIII, 705); l’armatura in bronzo di Glauco, 9 buoi, e quella di Diomede, d’oro, 100 buoi (VI, 236). In una lista di ricompense, si succedono in ordine di valore decrescente una coppa di argento cesellato, un bue e mezzo talento aureo (XXIII, 749-751). Non dimentichiamo che la parola latina ‹pecunia›, che significa «fortuna, moneta, denaro», dalla quale derivano i nostri termini «peculio» e «pecuniario», proviene da ‹pecus›, cioè bestiame.

Ovviamente la dizione “prezzo della fidanzata” – ammesso che quest’ultimo termine sia appropriato – si riferisce a un ambito esplicitamente patriarcale (la “fidanzata” viene considerata alla stregua di un bene materiale). Pare poco verosimile che “problemi di natura giuridica” possano essere sorti soltanto con l’avvento del patriarcato; tuttavia ci si può chiedere se la necessità e l’opportunità di stabilire il valore “oggettivo” di un bene (la “fidanzata”), o di un danno (è il caso del “sangue” o del “furto”) si siano poste con particolare evidenza in tale contesto.

Del resto, anche l’adozione “iniziale”, quale campione o unità di valore, dei capi di bestiame (menzionata nel cpv. successivo) sembrerebbe rimandare a un contesto pastorale, e dunque implicitamente già patriarcale. Eppure ‹Homo sapiens› esiste da almeno 200 mila anni, mentre la “rivoluzione neolitica” (agricoltura e allevamento) ebbe luogo soltanto intorno al 10 mila a.e.v.; ci pare del tutto inverosimile che per i 200 mila anni precedenti non ci siano stati “scambi” tra gruppi diversi.

NOTA: oltretutto, il “prezzo della fidanzata” contrasta con l’antica usanza – tipica delle società matrilineari, se non vogliamo usare il termine “matriarcali” – che fosse l’uomo a “trasferirsi” presso la famiglia della donna, venendone in pratica “adottato”. Di questa antica usanza esisterebbero tracce sia nella mitologia greca, sia nei testi biblici; ad esempio, nell’Introduzione al suo volume ‹I miti greci› (1955, ed. Longanesi 1963-2011), a p. 11 Robert Graves scrive:
Le invasioni achee alla fine del XIII secolo avanti Cristo indebolirono notevolmente la tradizione matrilineare. Pare che il re riuscisse allora a regnare a vita e quando arrivarono i Dori, verso la fine del secondo millennio, la successione patriarcale divenne la regola. Il principe non abbandonava più la casa paterna quando sposava una principessa straniera, ma questa invece seguiva il marito, come fece Penelope con Odisseo. Anche la genealogia divenne patrilineare, sebbene un episodio citato dallo pseudo Erodoto nella ‹Vita di Omero› dimostri che, quando già la Apatoria o festa della Parentela Maschile aveva sostituito la festa della Parentela Femminile, i riti comprendevano ancora sacrifici alla dea Madre ai quali gli uomini non potevano assistere.

Pochi anni più tardi, nella Prefazione al volume ‹I miti ebraici› (1963), di Robert Graves e Raphael Patai (Longanesi 1980-1983), i due autori rilevano tracce di questa antichissima tradizione non solo nei miti greci, ma anche nei testi biblici; alle pagine 12-13 possiamo infatti leggere:
Altri accenni a un’antica civiltà matriarcale si incontrano nella ‹Genesi›: per esempio il diritto materno di dare il nome ai figli, ancora in uso tra gli Arabi, e i matrimoni matrilocali: «perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre per convivere con sua moglie» (‹Genesi› II 24). Questa usanza palestinese è provata da un paragrafo dei ‹Giudici› nel racconto del matrimonio di Sansone e Dalila; e spiega perché Abramo, il patriarca aramaico, che entrò in Palestina con le orde degli Hyksos, al principio del secondo millennio a.C., ordinò al suo servo Eliezer di andare a prendere una sposa per Isacco fra i suoi parenti paterni di Harran, piuttosto che sposasse una donna cananea e fosse adottato dalla tribù di lei […]. Abramo aveva già scacciato i figli nati dalle sue concubine, perché non dividessero l’eredità con Isacco […]. Il matrimonio matrilocale era una norma anche nei primitivi miti greci: un mitografo documenta che il primo a rompere quella tradizione fu Odisseo, che portò via Penelope da Sparta e la condusse a Itaca, e che ella ritornò poi a Sparta dopo il divorzio.
Dal che si evince che la storia di Ulisse (Odisseo) e Penelope ha diversi risvolti che di norma non vengono trattati nei programmi scolastici, ma che sarebbe nondimeno interessante approfondire.

Il sommario del volume di Robert Graves è consultabile qui.

Il sommario del volume di Robert Graves e Raphael Patai è consultabile qui.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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venerdì 30 agosto 2019

Georges Ifrah e la pratica del “baratto silenzioso”

Nel settimo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), Georges Ifrah menziona una pratica singolare, ma che deve aver avuto nel lontano passato una notevole diffusione, definendola “baratto silenzioso”; a p. 114 possiamo leggere:
Talvolta, trattandosi di gruppi con relazioni non amichevoli, gli scambi si facevano sotto forma di ‹baratto silenzioso›. Viaggiando per la Siberia, ad esempio, dove questo tipo di economia persistette fino a epoca recente, «il mercante straniero depositava le merci che voleva scambiare e le abbandonava; il giorno dopo, egli trovava al posto (o a lato) delle sue derrate, i prodotti del paese — soprattutto pellicce — proposti in cambio; se la cosa gli conveniva, li prelevava, altrimenti tornava il giorno dopo e trovava una quantità più consistente di prodotti a baratto, che egli prelevava o lasciava secondo la stima che ne faceva: la faccenda poteva durare parecchi giorni o andare a vuoto, se le parti non si accordavano» [*] (L. Hambis).

[*]. La nota rimanda al testo di L. Hambis, «La monnaie en Asie centrale et en Haute Asie», in ‹D.A.T.› (Dictionnaire Archéologique des Techniques), Ed. de l’Accueil, Paris 1963-64, tomo II, p. 711.

La pratica descritta ci sembra di qualche interesse perché non richiede né linguaggio parlato, né comunicazione gestuale, ma presuppone solamente una sorta di intesa tacita e a distanza. Rimane la curiosità di sapere come una tale usanza possa essere stata introdotta e mantenuta – a quanto pare – per millenni.

NOTA: essa implica inoltre l’esistenza di una sorta di senso “innato” dello “scambio equo” che smentisce tanto l’‹homo homini lupus› dei filosofi, quanto la ricerca del massimo guadagno dell’‹homo œconomicus›, tanto cara agli economisti.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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mercoledì 14 agosto 2019

Ifrah: ma allora perché contiamo per 10? (2ª parte)

Georges Ifrah, nel secondo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), dopo aver ricondotto la diffusione della base 10 in tantissimi sistemi di numerazione al banale fatto anatomico che gli esseri umani hanno 2 mani con 5 dita ciascuna, e su queste dita apprendono a contare, adduce a riprova della sua affermazione un esempio in cui 3 pastori devono contare le pecore del gregge senza profferir parola. Siamo alle pp. 46-48, e il racconto procede nel modo seguente:
Immaginiamo, per convincerci, una tribù temporaneamente costretta all’interdizione della parola (ad esempio per ragioni religiose), che possieda un gregge di pecore. Il capo tribù, circondatosi di subordinati nell’intento di censire i capi del gregge, ha immaginato la messa in scena qui rappresentata (fig. 13). Un primo aiutante alza un dito quando passa il primo animale, il secondo dito quando passa il secondo e così via finché non gli sfila davanti il decimo capo. In questo istante, un secondo collaboratore, gli occhi costantemente fissi sulle mani del primo, alza il primo dito mentre il primo subordinato abbassa le mani. Quando passa l’undicesima pecora, quest’ultimo alza nuovamente il primo dito e procede così fino al passaggio del ventesimo animale. Intanto il secondo addetto tiene alzato il primo dito finché si alza il decimo dito del collega. Allora egli alza il suo secondo dito, mentre il primo aiutante abbassa nuovamente le mani. Al passaggio del centesimo animale, un terzo addetto, i cui occhi sono fissi sulle mani del secondo assistente, alza il suo primo dito, mentre gli altri li abbassano tutti, e lo mantiene in tale posizione fino al passaggio della duecentesima pecora, allorquando stenderà il secondo dito.




Transitate ad esempio 627 bestie, si avrà la seguente situazione (fig. 13 e fig. 14):
  • l’aiutante n. 1 avrà sette dita alzate;
  • l’aiutante n. 2 avrà due dita alzate;
  • l’aiutante n. 3 avrà sei dita alzate;
le dita distese del primo addetto designeranno le unità, quelle del secondo le decine, quelle del terzo le centinaia.


Figura 14 (a p. 48).


L’autore conclude a questo punto con una certa sicumera:
La numerazione, effettuata per gruppi di dieci senza proferire parola, prova dunque che son proprio le dieci dita della mano ad aver imposto la base dieci, anziché, ad esempio, la dodici.

L’esempio, in realtà, non ci sembra del tutto convincente, e i conti tornano soltanto perché Ifrah dà per scontato che alcuni particolari numeri abbiano una doppia rappresentazione. Chiamiamo per semplicità i 3 aiutanti A, B e C, e indichiamo entro cerchietti il numero di dita alzate per ciascuno. Al passaggio della 10ª pecora avremo:
A⑩, B⓪, C⓪.
A questo punto, senza che passi alcun’altra pecora, Ifrah fa abbassare le 10 dita ad A per iniziare un nuovo conteggio, e alzare un dito a B; abbiamo così la configurazione:
A⓪, B①, C⓪
che esprime esattamente lo stesso numero di pecore della configurazione precedente; i 3 aiutanti non si stanno affatto comportando come le rotelle di un contatore, e di fatto per contare stanno utilizzando soltanto 9 dita. Possiamo comprendere meglio l’inganno osservando che ciascuno, stendendo o ripiegando le 10 dita, ha a disposizione 11 differenti “figure”:
⓪①②③④⑤⑥⑦⑧⑨⑩
e dunque senza valori duplicati dovremmo avere un conteggio a base 11!

Nel caso precedente, ad esempio,
A⑩, B⓪, C⓪ corrisponde alla 10ª pecora, mentre
A⓪, B①, C⓪ dovrebbe corrispondere alla 11ª.

Nel séguito dovremmo avere:
A⑩, B①, C⓪ che corrisponde alla 21ª pecora, e
A⓪, B②, C⓪ che conta il passaggio della 22ª.

A⑩, B⑩, C⓪ corrisponde adesso alla 120ª pecora, e
A⓪, B⓪, C① corrisponde di conseguenza alla 121ª.

A⓪, B⓪, C⑤ corrisponde quindi alla 605ª (605 = 121 × 5), e il totale sarà
A⓪, B②, C⑤ che corrisponde alle 627 bestie che compongono il gregge.

Vediamo dunque che il conteggio correttamente eseguito sulle 10 dita avrebbe dovuto portarci a scegliere come base 11 e non 10. Con grande soddisfazione di qualche importante personaggio della storia della matematica; Ifrah infatti fa seguire (a p. 49) questa citazione di un brano tratto da T. Dantzig:
Se un gruppo di esperti fosse incaricato di scegliere una base di numerazione, assisteremmo a un conflitto fra i pratici, che ne vorrebbero una col massimo numero di divisori, ad esempio dodici, e i matematici che invocherebbero un numero primo, sette o undici. Tanto che, alla fine del Settecento, il grande naturalista Buffon propose l’adozione del sistema duodecimale (base dodici), facendo notare che il dodici ha quattro divisori, mentre il dieci ne ha solo due. Egli affermava che la scomodità del sistema decimale era stata avvertita nel corso dei secoli, tanto che la maggior parte delle unità di misura avevano dodici unità secondarie, benché dieci fosse la base universale. Viceversa il grande matematico Lagrange dichiarava che un numero primo costituisce una base preferibile, perché in questo modo ogni frazione sarebbe indivisibile e rappresenterebbe il numero in un modo solo. Infatti nella numerazione attuale la frazione decimale 0,36, per fare un esempio, rappresenta tre frazioni: 36/100, 18/50 e 9/25, mentre simile ambiguità sparirebbe, se si adottasse come base un numero primo, come undici […] In ogni caso il gruppo di esperti da noi immaginato si sarebbe espresso a favore di un numero primo o di un multiplo a molti divisori, non certo per il numero dieci, che non è primo e possiede appena due divisori.

L’esempio di Ifrah potrebbe anche essere “recuperato” alla causa decimale, ma per questo occorre usare una sola mano per ridurre a 10 le possibili “figure” (diamo al solo pollice esteso il valore di 5):




In tal modo, 2 soli aiutanti, chiamiamoli A e B, disponendo in totale di 4 mani, saranno in grado di contare fino a 9.999 capi di bestiame:
A⑨⓪, B⓪⓪ corrisponde alla 9ª pecora,
A⓪①, B⓪⓪ corrisponde alla 10ª,
A⑨⑨, B⓪⓪ corrisponde alla 99ª pecora,
A⓪⓪, B①⓪ corrisponde alla 100ª pecora,
A⓪⓪, B⑥⓪ corrisponde alla 600ª pecora,
A⑦②, B⑥⓪ corrisponde alla 627ª pecora, cioè al conto totale dei capi del gregge.


NOTA: nella sua figura 14, Ifrah dà per scontato che esistesse, già agli albori dell’arte della conta, la “figura” con valore zero (la mano sx del 2° aiutante), il che pare sia tutt’altro che evidente; in effetti, dovettero passare diversi millenni prima che qualcuno pensasse di associare uno speciale simbolo alla semplice assenza! E questa è, con ogni probabilità, la spiegazione più plausibile dell’aporia di Ifrah: poiché lo zero non esisteva neppure concettualmente, non esisteva di conseguenza neppure il “doppio passaggio” utilizzato dall’autore nel suo esempio.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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Ifrah: contiamo per 10 perché abbiamo dieci dita?

All’inizio del secondo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), a p. 45, Georges Ifrah scrive:
Per simbolizzare la nozione del numero, due diversi principi si presentano alla mente. L’uno, detto «cardinale», consiste nell’adottare un simbolo campione che rappresenta l’unità, ripetendolo poi tante volte quante sono le unità contenute nel numero stesso. L’altro, detto «ordinale», consiste nel rappresentare i numeri interi consecutivi, inizianti con l’unità, con simboli diversi senza reciproca relazione […]. Pur semplice, il primo procedimento non porta lontano, perché richiede la ripetizione illimitata del simbolo campione. Il secondo sistema presenta una difficoltà: come concepire, nelle condizioni date dal principio ordinale della rappresentazione numerica, una rappresentazione di simboli numerici sempre nuovi?

Poco oltre, nel primo paragrafo dello stesso capitolo, a p. 46, per giustificare come mai la maggior parte dei moderni sistemi di numerazione siano a base 10 (i primi 10 numeri e le successive potenze di dieci hanno nomi propri, mentre i nomi di tutti gli altri numeri sono costruiti a partire da questi per addizione e moltiplicazione), Ifrah si esprime come segue:
In effetti, l’adozione quasi universale della base dieci è stata indubbiamente imposta […] da «quell’accidente della natura» costituito dall’anatomia delle mani, perché sulle dieci dita l’uomo ha imparato a contare. Nessuno dubita che, se la natura ci avesse dotato di sei dita per mano, la nostra numerazione sarebbe duodecimale, cioè su base dodici.
Figura 3.a [a p. 22]. Procedimento numerico
corporale usato da alcune popolazioni
delle isole dello stretto di Torres.

Quest’argomentazione però è valida solo se ci si basa esclusivamente sul “principio cardinale” definito sopra, se cioè associamo a ciascun dito lo stesso valore:
un dito = una unità

Essa si direbbe inoltre in contrasto con il “procedimento numerico corporale delle popolazioni dello stretto di Torres” illustrato dallo stesso Ifrah nel capitolo precedente; quest’ultimo risulta fondato, sulla base delle definizioni date sopra, soltanto sul “principio ordinale”, cioè su un ordinamento convenzionale di parti del corpo.

Sembrerebbe anche in contrasto col fatto che alcune lingue presentano “nomi” particolari anche per i numeri 11 e 12, e che sistemi di misura a base 12 sono stati in vigore in diversi Paesi – anche occidentali – fino a qualche secolo fa.


Sfruttando la grande indipendenza di movimento delle dita delle mani, si può agevolmente arrivare a contare fino a 12 con una sola mano, ad esempio assegnando al solo pollice il valore 5, e a pollice e mignolo (con qualche altro dito piegato) il valore 10; si ottengono in tal modo le 12 “figure” seguenti:




Segnando nello stesso modo le dozzine con le dita dell’altra mano, si può arrivare a contare con le sole dita delle mani fino a 13×12, cioè fino a 156 (e ci si può spingere fino a 168).

Il prevalere della base 10 deve quindi avere (anche) qualche altra ragione che non quella banalmente anatomica; motivazioni storiche? di egemonia economica e culturale? ragioni politiche? oppure addirittura teologiche?

Una domanda aggiuntiva è la seguente: in questo passo Ifrah si riferisce soprattutto ai “nomi dei numeri”, cioè a come essi vengono “enunciati” nel parlare; mentre però i primi 9 numeri (da 1 a 9) hanno un “nome” proprio e un “segno” caratteristico (ad esempio “cinque” indica sia un valore sia la “cifra” 5 usata per rappresentarlo), il 10 e le sue potenze hanno sì un “nome proprio”, ma vengono scritti utilizzando una delle altre 9 cifre (l’uno) “più” lo zero; sembra dunque esserci una certa differenza tra il sistema dei “nomi” e quello dei “segni”; i 2 sistemi sono relativamente indipendenti, oppure si influenzano a vicenda? E in quest’ultimo caso: quale dei 2 tende maggiormente a adeguarsi all’altro?

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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domenica 11 agosto 2019

Ifrah, l’origine dei numeri e quella del linguaggio

Nel primo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), a p. 28, all’inizio del paragrafo dedicato a ‹L’espressione gestuale e orale del numero›, Georges Ifrah scrive:
[…] in fatto di “numerazione” i popoli contemporanei rimasti ancora a uno stadio elementare usano piuttosto tecniche visuali e silenziose che vere espressioni orali dei numeri. In una conversazione relativa a una “transazione commerciale” o nella trasmissione di un messaggio concernente la data di celebrazione di una cerimonia, il “primitivo” non pronuncerà mai “nomi di numeri”, propriamente intesi, ma si limiterà a ‹enumerare›, in un ordine previamente convenuto, un certo numero di parti del proprio corpo, riferendosi simultaneamente alla successione dei gesti corrispondenti, il che obbligherà evidentemente gli interessati a tenere gli occhi sul “narratore”. Ci viene allora spontanea una domanda: la cruda numerazione delle parti del corpo non è dunque sufficiente a costituire una successione regolare di “nomi di numeri”, una vera serie aritmetica? […]

In precedenza, l’autore ha chiarito che molte popolazioni “primitive”, pur non disponendo che delle parole per nominare “uno” e “due”, pervengono in genere a nominare fino a 4 (“uno”, “due”, “uno-e-due”, “due-e-due”), dopodiché, per indicare quantità maggiori, possono ricorrere solo a un generico concetto di “molti”. Riescono tuttavia ad esprimere numeri più grandi di 4 utilizzando una tecnica gestuale, toccandosi prima le dita di una mano, le articolazioni del braccio, collo, naso bocca ecc. per scendere poi all’altra mano e, se necessario, proseguire con gambe e piedi, incluse le dita di entrambi questi ultimi. Possono giungere in tal modo a “contare” fino a 33 (vedi figura).

Figura 3 a [a p. 22]. Procedimento numerico
corporale usato da alcune popolazioni
delle isole dello stretto di Torres.
1. mignolo della mano destra
2. anulare destro
3. medio destro
4. indice destro
5. pollice destro
6. polso destro
7. gomito destro
8. spalla del lato destro
9. sterno
10. spalla del lato sinistro
11. gomito sinistro
12. polso sinistro
13. pollice sinistro
14. indice sinistro
15. medio sinistro
16. anulare sinistro
17. mignolo della mano sinistra
18. mignolo [sic!] del piede sinistro
19. anulare [sic!] del piede sinistro
20. medio [sic!] del piede sinistro
21. indice [sic!] del piede sinistro
22. alluce del piede sinistro
23. caviglia sinistra
24. ginocchio sinistro
25. anca sinistra
26. anca destra
27. ginocchio destro
28. caviglia destra
29. alluce del piede destro
30. indice [sic!] del piede destro
31. medio [sic!] del piede destro
32. anulare [sic!] del piede destro
33. mignolo [sic!] del piede destro

L’osservazione è senza dubbio interessante per la storia della matematica, ma ci suscita anche una domanda più generale, che riguarda l’evoluzione del linguaggio. Lo avrete già capito: la linguistica si occupa soprattutto (quasi esclusivamente) delle realizzazioni verbali – cioè “sonore”, o “acustiche” – del linguaggio, relegando in secondo piano tutte le altre modalità di comunicazione, a partire da quelle grafiche e gestuali (la lingua dei segni), che ritiene in qualche modo “derivate”.

Ma se per le popolazioni “primitive” di oggi – o, ahimè, di ieri, giacché Ifrah scriveva nel 1981 – il linguaggio gestuale era tanto più potente di quello verbale al fine di esprimere le quantità numeriche, perché non dovremmo immaginare che lo stesso valesse anche per altri ambiti di comunicazione?

Potremmo anche ipotizzare che nella preistoria un linguaggio gestuale si sia sviluppato assai prima di quello verbale, e che fosse anche più “universale” dell’espressione mediante suoni, nel senso che permettesse di comunicare anche tra specie diverse – ad esempio tra Neandertal e Sapiens – mentre il linguaggio sonoro era comprensibile soltanto all’interno di uno specifico gruppo, o della tribù.

NOTA: un simile “linguaggio gestuale”, pare di ricordare, era in uso tra gli indiani del Nord America per comunicare fra tribù diverse, prima che arrivassero i “visi pallidi” a sconvolgere i loro modi di vita.

Per ulteriori dettagli sulle antiche lingue dei segni in America e in Australia, vedi qui.

Prendendo per buona l’ipotesi formulata sopra, comunque, risulterebbero del tutto prive di fondamento quelle teorie linguistiche che legano la comparsa del “linguaggio” alle modificazioni dell’apparato fonatorio, e il “pensiero simbolico” potrebbe essersi sviluppato millenni prima delle sue variegate espressioni verbali prima, e scritte poi.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

La cronologia in appendice al volume di Ifrah è consultabile qui.

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