mercoledì 14 agosto 2019

Ifrah: ma allora perché contiamo per 10? (2ª parte)

Georges Ifrah, nel secondo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), dopo aver ricondotto la diffusione della base 10 in tantissimi sistemi di numerazione al banale fatto anatomico che gli esseri umani hanno 2 mani con 5 dita ciascuna, e su queste dita apprendono a contare, adduce a riprova della sua affermazione un esempio in cui 3 pastori devono contare le pecore del gregge senza profferir parola. Siamo alle pp. 46-48, e il racconto procede nel modo seguente:
Immaginiamo, per convincerci, una tribù temporaneamente costretta all’interdizione della parola (ad esempio per ragioni religiose), che possieda un gregge di pecore. Il capo tribù, circondatosi di subordinati nell’intento di censire i capi del gregge, ha immaginato la messa in scena qui rappresentata (fig. 13). Un primo aiutante alza un dito quando passa il primo animale, il secondo dito quando passa il secondo e così via finché non gli sfila davanti il decimo capo. In questo istante, un secondo collaboratore, gli occhi costantemente fissi sulle mani del primo, alza il primo dito mentre il primo subordinato abbassa le mani. Quando passa l’undicesima pecora, quest’ultimo alza nuovamente il primo dito e procede così fino al passaggio del ventesimo animale. Intanto il secondo addetto tiene alzato il primo dito finché si alza il decimo dito del collega. Allora egli alza il suo secondo dito, mentre il primo aiutante abbassa nuovamente le mani. Al passaggio del centesimo animale, un terzo addetto, i cui occhi sono fissi sulle mani del secondo assistente, alza il suo primo dito, mentre gli altri li abbassano tutti, e lo mantiene in tale posizione fino al passaggio della duecentesima pecora, allorquando stenderà il secondo dito.




Transitate ad esempio 627 bestie, si avrà la seguente situazione (fig. 13 e fig. 14):
  • l’aiutante n. 1 avrà sette dita alzate;
  • l’aiutante n. 2 avrà due dita alzate;
  • l’aiutante n. 3 avrà sei dita alzate;
le dita distese del primo addetto designeranno le unità, quelle del secondo le decine, quelle del terzo le centinaia.


Figura 14 (a p. 48).


L’autore conclude a questo punto con una certa sicumera:
La numerazione, effettuata per gruppi di dieci senza proferire parola, prova dunque che son proprio le dieci dita della mano ad aver imposto la base dieci, anziché, ad esempio, la dodici.

L’esempio, in realtà, non ci sembra del tutto convincente, e i conti tornano soltanto perché Ifrah dà per scontato che alcuni particolari numeri abbiano una doppia rappresentazione. Chiamiamo per semplicità i 3 aiutanti A, B e C, e indichiamo entro cerchietti il numero di dita alzate per ciascuno. Al passaggio della 10ª pecora avremo:
A⑩, B⓪, C⓪.
A questo punto, senza che passi alcun’altra pecora, Ifrah fa abbassare le 10 dita ad A per iniziare un nuovo conteggio, e alzare un dito a B; abbiamo così la configurazione:
A⓪, B①, C⓪
che esprime esattamente lo stesso numero di pecore della configurazione precedente; i 3 aiutanti non si stanno affatto comportando come le rotelle di un contatore, e di fatto per contare stanno utilizzando soltanto 9 dita. Possiamo comprendere meglio l’inganno osservando che ciascuno, stendendo o ripiegando le 10 dita, ha a disposizione 11 differenti “figure”:
⓪①②③④⑤⑥⑦⑧⑨⑩
e dunque senza valori duplicati dovremmo avere un conteggio a base 11!

Nel caso precedente, ad esempio,
A⑩, B⓪, C⓪ corrisponde alla 10ª pecora, mentre
A⓪, B①, C⓪ dovrebbe corrispondere alla 11ª.

Nel séguito dovremmo avere:
A⑩, B①, C⓪ che corrisponde alla 21ª pecora, e
A⓪, B②, C⓪ che conta il passaggio della 22ª.

A⑩, B⑩, C⓪ corrisponde adesso alla 120ª pecora, e
A⓪, B⓪, C① corrisponde di conseguenza alla 121ª.

A⓪, B⓪, C⑤ corrisponde quindi alla 605ª (605 = 121 × 5), e il totale sarà
A⓪, B②, C⑤ che corrisponde alle 627 bestie che compongono il gregge.

Vediamo dunque che il conteggio correttamente eseguito sulle 10 dita avrebbe dovuto portarci a scegliere come base 11 e non 10. Con grande soddisfazione di qualche importante personaggio della storia della matematica; Ifrah infatti fa seguire (a p. 49) questa citazione di un brano tratto da T. Dantzig:
Se un gruppo di esperti fosse incaricato di scegliere una base di numerazione, assisteremmo a un conflitto fra i pratici, che ne vorrebbero una col massimo numero di divisori, ad esempio dodici, e i matematici che invocherebbero un numero primo, sette o undici. Tanto che, alla fine del Settecento, il grande naturalista Buffon propose l’adozione del sistema duodecimale (base dodici), facendo notare che il dodici ha quattro divisori, mentre il dieci ne ha solo due. Egli affermava che la scomodità del sistema decimale era stata avvertita nel corso dei secoli, tanto che la maggior parte delle unità di misura avevano dodici unità secondarie, benché dieci fosse la base universale. Viceversa il grande matematico Lagrange dichiarava che un numero primo costituisce una base preferibile, perché in questo modo ogni frazione sarebbe indivisibile e rappresenterebbe il numero in un modo solo. Infatti nella numerazione attuale la frazione decimale 0,36, per fare un esempio, rappresenta tre frazioni: 36/100, 18/50 e 9/25, mentre simile ambiguità sparirebbe, se si adottasse come base un numero primo, come undici […] In ogni caso il gruppo di esperti da noi immaginato si sarebbe espresso a favore di un numero primo o di un multiplo a molti divisori, non certo per il numero dieci, che non è primo e possiede appena due divisori.

L’esempio di Ifrah potrebbe anche essere “recuperato” alla causa decimale, ma per questo occorre usare una sola mano per ridurre a 10 le possibili “figure” (diamo al solo pollice esteso il valore di 5):




In tal modo, 2 soli aiutanti, chiamiamoli A e B, disponendo in totale di 4 mani, saranno in grado di contare fino a 9.999 capi di bestiame:
A⑨⓪, B⓪⓪ corrisponde alla 9ª pecora,
A⓪①, B⓪⓪ corrisponde alla 10ª,
A⑨⑨, B⓪⓪ corrisponde alla 99ª pecora,
A⓪⓪, B①⓪ corrisponde alla 100ª pecora,
A⓪⓪, B⑥⓪ corrisponde alla 600ª pecora,
A⑦②, B⑥⓪ corrisponde alla 627ª pecora, cioè al conto totale dei capi del gregge.


NOTA: nella sua figura 14, Ifrah dà per scontato che esistesse, già agli albori dell’arte della conta, la “figura” con valore zero (la mano sx del 2° aiutante), il che pare sia tutt’altro che evidente; in effetti, dovettero passare diversi millenni prima che qualcuno pensasse di associare uno speciale simbolo alla semplice assenza! E questa è, con ogni probabilità, la spiegazione più plausibile dell’aporia di Ifrah: poiché lo zero non esisteva neppure concettualmente, non esisteva di conseguenza neppure il “doppio passaggio” utilizzato dall’autore nel suo esempio.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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Ifrah: contiamo per 10 perché abbiamo dieci dita?

All’inizio del secondo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), a p. 45, Georges Ifrah scrive:
Per simbolizzare la nozione del numero, due diversi principi si presentano alla mente. L’uno, detto «cardinale», consiste nell’adottare un simbolo campione che rappresenta l’unità, ripetendolo poi tante volte quante sono le unità contenute nel numero stesso. L’altro, detto «ordinale», consiste nel rappresentare i numeri interi consecutivi, inizianti con l’unità, con simboli diversi senza reciproca relazione […]. Pur semplice, il primo procedimento non porta lontano, perché richiede la ripetizione illimitata del simbolo campione. Il secondo sistema presenta una difficoltà: come concepire, nelle condizioni date dal principio ordinale della rappresentazione numerica, una rappresentazione di simboli numerici sempre nuovi?

Poco oltre, nel primo paragrafo dello stesso capitolo, a p. 46, per giustificare come mai la maggior parte dei moderni sistemi di numerazione siano a base 10 (i primi 10 numeri e le successive potenze di dieci hanno nomi propri, mentre i nomi di tutti gli altri numeri sono costruiti a partire da questi per addizione e moltiplicazione), Ifrah si esprime come segue:
In effetti, l’adozione quasi universale della base dieci è stata indubbiamente imposta […] da «quell’accidente della natura» costituito dall’anatomia delle mani, perché sulle dieci dita l’uomo ha imparato a contare. Nessuno dubita che, se la natura ci avesse dotato di sei dita per mano, la nostra numerazione sarebbe duodecimale, cioè su base dodici.
Figura 3.a [a p. 22]. Procedimento numerico
corporale usato da alcune popolazioni
delle isole dello stretto di Torres.

Quest’argomentazione però è valida solo se ci si basa esclusivamente sul “principio cardinale” definito sopra, se cioè associamo a ciascun dito lo stesso valore:
un dito = una unità

Essa si direbbe inoltre in contrasto con il “procedimento numerico corporale delle popolazioni dello stretto di Torres” illustrato dallo stesso Ifrah nel capitolo precedente; quest’ultimo risulta fondato, sulla base delle definizioni date sopra, soltanto sul “principio ordinale”, cioè su un ordinamento convenzionale di parti del corpo.

Sembrerebbe anche in contrasto col fatto che alcune lingue presentano “nomi” particolari anche per i numeri 11 e 12, e che sistemi di misura a base 12 sono stati in vigore in diversi Paesi – anche occidentali – fino a qualche secolo fa.


Sfruttando la grande indipendenza di movimento delle dita delle mani, si può agevolmente arrivare a contare fino a 12 con una sola mano, ad esempio assegnando al solo pollice il valore 5, e a pollice e mignolo (con qualche altro dito piegato) il valore 10; si ottengono in tal modo le 12 “figure” seguenti:




Segnando nello stesso modo le dozzine con le dita dell’altra mano, si può arrivare a contare con le sole dita delle mani fino a 13×12, cioè fino a 156 (e ci si può spingere fino a 168).

Il prevalere della base 10 deve quindi avere (anche) qualche altra ragione che non quella banalmente anatomica; motivazioni storiche? di egemonia economica e culturale? ragioni politiche? oppure addirittura teologiche?

Una domanda aggiuntiva è la seguente: in questo passo Ifrah si riferisce soprattutto ai “nomi dei numeri”, cioè a come essi vengono “enunciati” nel parlare; mentre però i primi 9 numeri (da 1 a 9) hanno un “nome” proprio e un “segno” caratteristico (ad esempio “cinque” indica sia un valore sia la “cifra” 5 usata per rappresentarlo), il 10 e le sue potenze hanno sì un “nome proprio”, ma vengono scritti utilizzando una delle altre 9 cifre (l’uno) “più” lo zero; sembra dunque esserci una certa differenza tra il sistema dei “nomi” e quello dei “segni”; i 2 sistemi sono relativamente indipendenti, oppure si influenzano a vicenda? E in quest’ultimo caso: quale dei 2 tende maggiormente a adeguarsi all’altro?

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

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domenica 11 agosto 2019

Ifrah, l’origine dei numeri e quella del linguaggio

Nel primo capitolo del suo volume ‹Storia universale dei numeri› (1981, ed. Mondadori 1984), a p. 28, all’inizio del paragrafo dedicato a ‹L’espressione gestuale e orale del numero›, Georges Ifrah scrive:
[…] in fatto di “numerazione” i popoli contemporanei rimasti ancora a uno stadio elementare usano piuttosto tecniche visuali e silenziose che vere espressioni orali dei numeri. In una conversazione relativa a una “transazione commerciale” o nella trasmissione di un messaggio concernente la data di celebrazione di una cerimonia, il “primitivo” non pronuncerà mai “nomi di numeri”, propriamente intesi, ma si limiterà a ‹enumerare›, in un ordine previamente convenuto, un certo numero di parti del proprio corpo, riferendosi simultaneamente alla successione dei gesti corrispondenti, il che obbligherà evidentemente gli interessati a tenere gli occhi sul “narratore”. Ci viene allora spontanea una domanda: la cruda numerazione delle parti del corpo non è dunque sufficiente a costituire una successione regolare di “nomi di numeri”, una vera serie aritmetica? […]

In precedenza, l’autore ha chiarito che molte popolazioni “primitive”, pur non disponendo che delle parole per nominare “uno” e “due”, pervengono in genere a nominare fino a 4 (“uno”, “due”, “uno-e-due”, “due-e-due”), dopodiché, per indicare quantità maggiori, possono ricorrere solo a un generico concetto di “molti”. Riescono tuttavia ad esprimere numeri più grandi di 4 utilizzando una tecnica gestuale, toccandosi prima le dita di una mano, le articolazioni del braccio, collo, naso bocca ecc. per scendere poi all’altra mano e, se necessario, proseguire con gambe e piedi, incluse le dita di entrambi questi ultimi. Possono giungere in tal modo a “contare” fino a 33 (vedi figura).

Figura 3 a [a p. 22]. Procedimento numerico
corporale usato da alcune popolazioni
delle isole dello stretto di Torres.
1. mignolo della mano destra
2. anulare destro
3. medio destro
4. indice destro
5. pollice destro
6. polso destro
7. gomito destro
8. spalla del lato destro
9. sterno
10. spalla del lato sinistro
11. gomito sinistro
12. polso sinistro
13. pollice sinistro
14. indice sinistro
15. medio sinistro
16. anulare sinistro
17. mignolo della mano sinistra
18. mignolo [sic!] del piede sinistro
19. anulare [sic!] del piede sinistro
20. medio [sic!] del piede sinistro
21. indice [sic!] del piede sinistro
22. alluce del piede sinistro
23. caviglia sinistra
24. ginocchio sinistro
25. anca sinistra
26. anca destra
27. ginocchio destro
28. caviglia destra
29. alluce del piede destro
30. indice [sic!] del piede destro
31. medio [sic!] del piede destro
32. anulare [sic!] del piede destro
33. mignolo [sic!] del piede destro

L’osservazione è senza dubbio interessante per la storia della matematica, ma ci suscita anche una domanda più generale, che riguarda l’evoluzione del linguaggio. Lo avrete già capito: la linguistica si occupa soprattutto (quasi esclusivamente) delle realizzazioni verbali – cioè “sonore”, o “acustiche” – del linguaggio, relegando in secondo piano tutte le altre modalità di comunicazione, a partire da quelle grafiche e gestuali (la lingua dei segni), che ritiene in qualche modo “derivate”.

Ma se per le popolazioni “primitive” di oggi – o, ahimè, di ieri, giacché Ifrah scriveva nel 1981 – il linguaggio gestuale era tanto più potente di quello verbale al fine di esprimere le quantità numeriche, perché non dovremmo immaginare che lo stesso valesse anche per altri ambiti di comunicazione?

Potremmo anche ipotizzare che nella preistoria un linguaggio gestuale si sia sviluppato assai prima di quello verbale, e che fosse anche più “universale” dell’espressione mediante suoni, nel senso che permettesse di comunicare anche tra specie diverse – ad esempio tra Neandertal e Sapiens – mentre il linguaggio sonoro era comprensibile soltanto all’interno di uno specifico gruppo, o della tribù.

NOTA: un simile “linguaggio gestuale”, pare di ricordare, era in uso tra gli indiani del Nord America per comunicare fra tribù diverse, prima che arrivassero i “visi pallidi” a sconvolgere i loro modi di vita.

Per ulteriori dettagli sulle antiche lingue dei segni in America e in Australia, vedi qui.

Prendendo per buona l’ipotesi formulata sopra, comunque, risulterebbero del tutto prive di fondamento quelle teorie linguistiche che legano la comparsa del “linguaggio” alle modificazioni dell’apparato fonatorio, e il “pensiero simbolico” potrebbe essersi sviluppato millenni prima delle sue variegate espressioni verbali prima, e scritte poi.

Il sommario del volume di Georges Ifrah è consultabile qui.

La cronologia in appendice al volume di Ifrah è consultabile qui.

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martedì 30 luglio 2019

Graves, le tre età della donna e la trinità cristiana

Nell’introduzione al suo volume ‹I miti greci› (1955, ed. Longanesi 2011), a p. 6 Robert Graves scrive:
Le tre fasi della Luna si riflettevano nelle tre fasi della vita della matriarca: vergine, ninfa (nubile) e vegliarda. In seguito, giacché l’annuale corso del Sole ricordava anche il crescere e il decrescere delle sue forze fisiche (la primavera come vergine, l’estate come ninfa, l’inverno come vegliarda), la dea fu identificata con i mutamenti stagionali che segnavano la vita delle piante e degli animali, e dunque con la Madre Terra che all’inizio dell’anno vegetativo produce soltanto foglie e boccioli, poi fiori e frutta e infine si isterilisce. La dea fu identificata poi con un’altra triade: la vergine dell’aria, la ninfa della terra e la vegliarda del mondo sotterraneo, personificate rispettivamente da Selene, Afrodite ed Ecate. Queste mistiche analogie contribuirono a dare un carattere sacro al numero tre e la dea Luna fu simboleggiata dal numero nove quando ciascuna delle sue tre persone (vergine, ninfa e vegliarda) si manifestò in triade per dimostrare la sua divinità. I fedeli della dea non scordarono mai del tutto che essa era una dea sola e non tre dee; ma nell’epoca classica il santuario di Stinfalo in Arcadia era uno dei pochi dove tutt’e tre le persone della triade portassero lo stesso nome: Era.

A dir la verità, ci pare di notare qualcosa di incongruo nella denominazione di queste 3 fasi: “vergine, ninfa (nubile) e vegliarda”; a parte che la “verginità” è dubbio avesse all’epoca il valore che le venne attribuito assai più tardi (in un contesto decisamente patriarcale), la prima fase dovrebbe includere infanzia e fanciullezza; “nubile” da noi significa “adatta alle nozze” (ma non ancora maritata), e solo il significato di “vegliarda” è univoco; le 3 fasi dovrebbero allora più ragionevolmente esser dette “fanciulla” (nel senso di prepubere), “matura” o “adulta” (in quanto atta al sesso e alla procreazione) e, se vogliamo, “vegliarda”… a qualcuno potrebbe tornare in mente un famoso quadro di Klimt, ‹Le tre età…› e viene spontaneo chiedersi se l’artista avesse presenti l’origine antichissima e la valenza mitica di questa triade.

«Queste mistiche analogie contribuirono a dare un carattere sacro al numero tre […]», scrive Graves; il “carattere sacro” del tre sarebbe dunque ben precedente al dogma della trinità del Cristianesimo, e precedente addirittura al riconoscimento del ruolo maschile nella procreazione, mentre la trinità cristiana (padre, figlio e spirito santo) deriva dalla palese distorsione dello schema familiare (padre, madre e figlio) per “eliminazione” della donna, che viene “recuperata” solo nella figura asessuata della Vergine, ma rimane comunque estranea alla trinità stessa.

«[…] la dea Luna fu simboleggiata dal numero nove […]»: 3×3, ovvero 3², “tre al quadrato”, che però non pare abbia avuto nel prosieguo un successo comparabile a quello della sua base, perlomeno in ambito religioso; dobbiamo però rilevare che le cifre “arabe” – in realtà di provenienza indiana – attualmente in uso, all’epoca in cui vennero introdotte in Europa da Fibonacci erano esattamente 9, alle quali si aggiungeva lo zero, di provenienza ancor più orientale. Solo in seguito lo zero divenne una cifra come tutte le altre, eppure conserva ancora oggi qualcosa di misterioso e di intrigante, reminiscenza della sua diversa origine.

Il sommario del volume di Robert Graves è consultabile qui.

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mercoledì 17 luglio 2019

Graves, Patai… e il dito mignolo di Dio

Il 4° capitolo del volume di Robert Graves e Raphael Patai, ‹I miti ebraici› (1963, ed. Longanesi 1980), tratta di alcuni aspetti curiosi della creazione riportati dalla tradizione midrashica (a partire da fonti del IV e V sec.); alle pp. 46-47 (punti e-f) si legge:
Dio trovò le maschili acque superiori e le femminili acque inferiori strette in un abbraccio appassionato. «Che una di voi si innalzi», ordinò, «e che l’altra precipiti». Ma esse si levarono insieme, perciò Dio chiese: «Perché vi siete levate insieme?» «Noi siamo inseparabili», risposero a una sola voce, lasciaci al nostro amore!» Dio, col solo dito mignolo, le strappò l’una dall’altra, levando le acque superiori sopra di sé e abbassando le acque inferiori sotto di sé. Per punirle della loro tracotanza, avrebbe voluto bruciarle col fuoco, ma esse chiedevano pietà. Allora, le perdonò a due condizioni: che durante l’esodo, permettessero ai figli di Israele di passare sul suolo asciutto, e che impedissero a Giona di fuggire con una nave a Tarshish.
In quel frangente, le acque divise sfogarono l’agonia della loro separazione correndosi incontro sfrenatamente, e sommergendo le cime dei monti. Ma quando le acque inferiori sfiorarono proprio la base del trono di Dio, egli le colpì con la sua collera e le calpestò sotto i suoi piedi.

Si può notare innanzitutto la pervasività – comune peraltro a molti racconti della creazione – del discorso diretto: Dio parla con le acque… e queste gli rispondono pure! Questa particolarità non può essere casuale, implica ad esempio una sorta di “originarietà” del pensiero verbale, che di conseguenza non può essere frutto dell’elaborazione, evoluzione, trasformazione di qualcos’altro.

In secondo luogo, appare anche evidente come, a dispetto della trascendenza quale elemento ritenuto imprescindibile della concezione monoteista, aspetti manifestamente antropomorfi dell’immagine divina (il mignolo, i piedi) persistano nei secoli – qui son passati più di mille anni dal rientro dall’esilio a Babilonia – e viene spontaneo chiedersi quanto vi sia tuttora di antropomorfo nella concezione che di Dio hanno i vari monoteisti moderni.

Si potrebbe forse ipotizzare che il “pensiero religioso” sia fatto “a strati”: sotto livelli che possono raggiungere una notevole astrazione “filosofica”, permangono immagini e credenze spesso inespresse, talvolta di un’ingenuità che potrebbe sembrare puerile, talvolta prossime al delirio manifesto, spesso autocontraddittorie e logicamente incompatibili le une con le altre, ma che comunque sostengono la struttura complessiva di credenze.

Sarebbe interessante indagare se un’analoga struttura dinamica e contraddittoria permanga sottostante anche alla moderna razionalità, e in particolare a quella scientifica.

Un’ulteriore considerazione circa le condizioni imposte da Dio alle acque per evitare la punizione del fuoco (il passaggio del Mar Rosso e la fuga di Giona): evidentemente nella mente di Dio tutto lo svolgersi degli eventi nel tempo è concentrato in una sorta di eterna simultaneità, e non esiste libero arbitrio (umano, ma neppure divino) che possa modificare il corso degli accadimenti in un senso che non sia prevedibile e quindi, essendo Dio onnisciente, previsto. All’epoca dei fatti – per così dire – Adamo non era ancora stato creato, e forse neppure “ideato” nella mente di Dio, e ancor meno poteva esserlo la sua discendenza; però chiaramente lo era all’epoca delle elucubrazioni degli autori delle fonti midrashiche prese in esame.

NOTA 1: tuttavia le “le cime dei monti” già esistevano, altrimenti come avrebbero fatto le “acque inferiori” a sommergerle? Segno che questa “eterna simultaneità” non è solo nella mente di Dio, ma in qualche modo “deborda” e raggiunge il mondo naturale esterno – almeno nelle fantasticherie dei “sapienti” del midrash.

NOTA 2: il racconto riecheggia vagamente quello babilonese della lotta tra Tiamat e Marduk, il cui esito è “l’uccisione” di Tiamat e la divisione in due del suo enorme corpo, la metà superiore andando a costituire il cielo, la metà inferiore la terra; si veda qui una nostra annotazione sui riferimenti al “matriarcato originario” in tali miti.

NOTA 3: il successivo punto 4 (a p. 50) riconduce il mitema dell’implorazione delle acque a un episodio dell’‹Iliade›:
L’implorazione di pietà rivolta dalle acque quando Dio minacciò di prosciugarle col fuoco, è reminiscenza dell’‹Iliade›, quando Efesto minacciò di avvolgere nel fuoco le rive dello Xanto facendo ribollire le acque fino a costringerle alla resa. Nondimeno, è possibile vi sia una fonte comune: quanto Omero deve ai miti del vicino Oriente diventa sempre più evidente.
I due autori non lo dicono, ma è altrettanto evidente che i sapienti cultori del midrash non erano da meno.

Il sommario del volume di Robert Graves e Raphael Patai è consultabile qui.

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lunedì 15 luglio 2019

Graves e Patai, Aczel e il rabbino Akiva ben Joseph

Il 3° capitolo del volume di Robert Graves e Raphael Patai, ‹I miti ebraici› (1963, ed. Longanesi 1980), è dedicato al tema della “Cosmologia mitica”; a p. 45 (punto 4) si legge:
Nei tempi del Talmud, le considerazioni sulla struttura dell’Universo erano chiamate ‹ma‘asse merkabhah› «ciò che riguarda il carro», perché pertinenti al carro divino descritto da Ezechiele. I Farisei consideravano pericolosi gli studi di queste cose e parecchie leggende parlano di studiosi che omisero necessarie precauzioni: Ben Azzay morì all’improvviso, Ben Zoma impazzì, Elisha ben Abuya divenne eretico; soltanto il rabbino Akiba sopravvisse, grazie alla sua umiltà e circospezione […].


“Nei tempi del Talmud” significa in sostanza dopo la distruzione del II Tempio, ma non vi sono nel testo indicazioni cronologiche più precise. Una ricerca su internet fornisce alcune informazioni aggiuntive che ricaviamo dalla pagina di wikipedia dedicata al rabbino Akiva (https://it.wikipedia.org/wiki/Rabbi_Akiva):
Akiva ben Joseph, semplicemente noto come Rabbi Akiva (in ebraico: רבי עקיבא‎; Lod, 40 – Tiberiade, 137), è stato un rabbino ed erudito ebreo tanna, martirizzato e ucciso dai romani.
Grande autorità della tradizione ebraica ed uno dei principali contributori all’‹Halakha›, alla ‹Mishnah› e ai ‹midrashim›. Viene citato nel Talmud come ‹Rosh la-Chakhamim› (“Capo di tutti i Saggi”), ed è considerato come uno dei primi fondatori dell’ebraismo rabbinico. È il settimo Saggio più citato della ‹Mishnah›.

Tralasciamo i dettagli del “martirio” che avrebbe posto fine alla sua esistenza terrena (all’età di 97 anni?), ma wikipedia non ci chiarisce di che parlino Graves e Patai; ci sovviene però di un passo letto diversi anni fa. Amir D. Aczel, nel suo volume ‹Il mistero dell’alef› (Il Saggiatore 2002), capitolo 3, ‹Cabala› (pp. 29-30), scrive:
A seguito di questo evento traumatico [la distruzione del II Tempio], la classe dirigente ebraica si disperse in Giudea, e un certo numero di saggi si stabilì a Jabneh, lontano da Gerusalemme, città nella quale era stato proibito agli ebrei di risiedere. Questi primi rabbini, che sostituirono i sacerdoti del Tempio, fondarono un’accademia. Tra loro c’era un uomo che sarebbe diventato una grande guida spirituale del popolo ebraico, il rabbino Akiva ben Joseph (50-135 d.C.).
Il rabbino Akiva scrisse una raccolta di saggi intitolata ‹Ma‘asêh merkavah› (L’opera del carro), che indicava ai credenti una nuova strada verso la spiritualità. Il suo metodo consisteva nel presentare una serie d’immagini di “palazzi” celesti, al fine di promuovere la meditazione e, attraverso questa, l’accostamento al divino. Sembra però che Akiva si fosse imbattuto in un metodo che imponeva sforzi troppo intensi alla mente umana. Le meditazioni prescritte dal rabbino richiedevano, infatti, esperienze extracorporee e stati mentali alterati ed estatici precedentemente ignoti alla cultura occidentale. Ma se le visioni dei palazzi celesti lungo la via che porta a Dio erano vivide e intense, Akiva esortava i suoi allievi a non abbandonarsi alle allucinazioni e a non perdere il contatto con la realtà. «Quando entri nelle pietre pure di marmo [uno stadio della meditazione]» scriveva «non dire “Acqua! Acqua!” poiché il Salmo ci dice: “Colui che mente non rimarrà dinnanzi agli occhi miei”».
Akiva utilizzava passi biblici e cantilene da lui stesso composte come mezzi per raggiungere uno stato mentale di tipo meditativo. Uno di questi espedienti consisteva nella visualizzazione di una luce infinitamente luminosa, la quale simboleggiava la ‹chaluk›, la veste che copriva Dio quando apparve a Mosè sul monte Sinai. Con le loro meditazioni, Akiva e i suoi allievi si proponevano di provare un’esperienza di intensità pari a quella di Mosè quando poté vedere la figura di Dio.
Secondo la leggenda, Akiva e altri tre rabbini entrarono insieme nei palazzi della meditazione. La loro esperienza fu così intensa che il primo, Ben Azai, diede uno sguardo alla luce infinita e morì, perché la sua anima desiderò raggiungere la fonte della luce tanto ardentemente da abbandonare il corpo e svanire. Il secondo, il rabbino Elisha ben Abuya, rivolse lo sguardo alla luce e vide due esseri divini anziché uno. E così divenne un apostata. Il terzo, Ben Zoma, vide la luce infinita della veste di Dio e perse la ragione, perché non riuscì a riconciliare la vita di ogni giorno con tale visione. Soltanto il rabbino Akiva riuscì a sopravvivere a questa esperienza.

Nel séguito, lo sviluppo e l’elaborazione di questi metodi e di queste conoscenze avrebbe dato origine, nella Spagna dell’XI sec., alla Cabala. Ad ogni modo, Ben Azzay (Ben Azai), Ben Zoma e Elisha ben Abuya erano tutti in qualche modo seguaci di Akiba (Akiva ben Joseph), se non direttamente, almeno per il tramite dei suoi scritti e del suo metodo.

NOTA: all’inizio del cpv. citato (di Graves e Patai), «[…] le considerazioni sulla struttura dell’Universo erano chiamate ‹ma‘asse merkabhah› “ciò che riguarda il carro” […]» ma, secondo Aczel, ‹Ma‘asêh merkavah› (“L’opera del carro”) è il titolo di una raccolta di saggi in cui lo stesso Akiba (Akiva ben Joseph) esponeva il suo metodo.

Il sommario del volume di Robert Graves e Raphael Patai è consultabile qui.

Il sommario del volume di Amir D. Aczel è consultabile qui.

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mercoledì 10 luglio 2019

Graves e Patai, il matriarcato originario e il pensiero per immagini

Il 2° capitolo del volume di Robert Graves e Raphael Patai, ‹I miti ebraici› (1963, ed. Longanesi 1980), raccoglie le tracce di antiche cosmogonie sparse in diversi passi della Bibbia ma incongruenti con le 2 versioni riportate nella ‹Genesi›, versioni peraltro già in disaccordo tra loro per diversi aspetti. Negli elementi considerati i 2 autori individuano la memoria di un’antica transizione da un’organizzazione sociale di tipo “matriarcale” a una struttura “patriarcale” assai più rigida; in particolare, a p. 34 (al punto 1) si legge:
Questa terza versione della creazione, dedotta da riferimenti biblici, esclude quelli della ‹Genesi› e richiama non soltanto le cosmogonie di Babilonia, ma anche quelle ugariche e cananee; e amplia notevolmente la breve allusione a Tohu, Bohu e all’abisso. Creatori come El, Marduk, Baal o Jehovah, dovettero prima lottare contro le acque, che i profeti personificano nel Leviathan, in Rahab o nel Drago gigante, non soltanto perché la creatrice era considerata dea della fertilità e quindi dell’acqua, ma perché il matriarcato veniva tradotto nel mito come una caotica fusione dei due sessi; il che ritardava la stabilità dell’ordine sociale patriarcale, come la pioggia che cadeva nel mare ritardava l’apparire della terra secca. Le origini, quindi, del maschio e della femmina dovevano essere dapprima giustamente separate, come quando il cosmocreatore egiziano Shu strappò la dea del cielo Nut all’abbraccio del dio della terra Geb; o quando Yahweh Elohim separò l’acqua superiore maschile dal connubio con l’acqua inferiore femminile […]. E quando il babilonese Marduk tagliò Tiamat in due, stava, in realtà, strappandola ad Apsu, dio delle acque superiori.

Sembra evidente che la nuova struttura patriarcale tendeva a proporsi come “ordine”, in contrasto – non si sa quanto violento – con il “disordine” matriarcale (il famigerato “caos”, o ‹tohu wa-bohu›); la parola che non viene pronunciata – o piuttosto scritta – dai 2 autori è “promiscuità”, nel senso che quel che essi intendono per “matriarcato” doveva avere ben poco di “monogamico”.

In questo senso sarebbero forse da interpretare le ingenerose critiche opposte nel ‹Poema di Gilgamesh› dal re di Uruk alle profferte amorose di Inanna-Ishtar, “dea dell’amore e della guerra”.

Potrebbe anche essere suggestivo considerare che da allora – cioè fin dall’avvento del patriarcato, ben rappresentato da Marduk, con la sua tendenza progressiva a egemonizzare il pantheon – la donna è tuttora divisa in due, cioè “scissa”, tra l’immagine della moglie e madre (l’ideale della madonna, per i cattolici) e quella della prostituta (prostituta anche “sacra” un tempo, ma oggi solo ed esclusivamente profana); ed è proprio questa scissione, continuamente riproposta, che, a dispetto dei tentativi di rivendicare una parità di condizione sociale, impedisce alla donna di ottenere un’identità propriamente e compiutamente “umana”.

Le evidenti similitudini fra le tradizioni mitologiche mesopotamiche, egizie ed ebraiche sembrano suggerire che le rispettive cosmogonie abbiano una base comune, forse non tanto a livello testuale – da intendere come “pensiero verbale”, anche se non necessariamente scritto – quanto a livello iconografico, nel senso del “pensiero per immagini”; e questa considerazione permette di ipotizzare che la transizione dal “matriarcato” al “patriarcato” sia avvenuta in un’epoca in cui il “pensiero per immagini” era quantomeno prevalente rispetto a quello “verbale”.

Il sommario del volume di Robert Graves e Raphael Patai è consultabile qui.

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martedì 9 luglio 2019

Graves e Patai, Yahweh come dio-serpente e l’uovo universale

Nel 2° capitolo del loro volume ‹I miti ebraici› (1963, ed. Longanesi 1980), Robert Graves e Raphael Patai esaminano le tracce di antiche cosmogonie presenti in diversi passi della Bibbia e in contrasto con le 2 versioni presenti nella ‹Genesi›; ad esempio, a p. 36 (punto 6) si legge:
Gli eretici Ofiti del primo secolo d.C. credevano che il mondo fosse stato generato da un serpente. Il serpente di ottone, fatto, secondo una tradizione ebraica, da Mosè per comando di Dio (‹Numeri› XXI 8-9) e venerato nel tempio santuario finché non fu distrutto dal riformatore re Ezechia (‹II Re› XVIII 4), suggerisce che Yahweh era stato una volta identificato con un dio-serpente, come Zeus lo era nell’arte orfica. Il ricordo di Yahweh come un serpente sopravvisse fino a tardi in una ampia midrash, secondo la quale, quando Dio assalì Mosè e cercò di farlo morire (‹Esodo› IV 24 sgg.) nella sua dimora deserta, in piena notte, assunse la forma di un enorme serpente e ingoiò Mosè fino ai lombi. L’usanza a Gerusalemme di uccidere le vittime sacrificali nel lato nord dell’altare (‹Levitico› I 11; M. Zebahim V 1-5) ci riporta al culto di un primitivo vento del nord, simile a quello di Atene. Presumibilmente, nel mito originale, la grande madre sorse dal caos; al suo apparire il vento si trasformò in serpente e la fecondò; essa si trasformò in un uccello (colomba o aquila) e depose l’uovo universale, intorno al quale il serpente si avviluppò facendolo schiudere.

Sembra assai curiosa l’ipotesi che Yahweh sia stato in origine un dio-serpente, considerando il ruolo che il serpente gioca nella storia del peccato originale e la conseguente cacciata di Adamo ed Eva, cioè dei progenitori dell’intero genere umano, dal paradiso terrestre.


Oltretutto, nel noto poema mesopotamico, è un serpente anche quello che ruba e divora la “pianta della vita” ottenuta, dopo tante tribolazioni, da Gilgamesh (talvolta nella grafia Gilgameš), prima che questi possa portarla a Uruk.

Il sommario del volume di Robert Graves e Raphael Patai è consultabile qui.

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giovedì 4 luglio 2019

Graves, Patai, la Creazione e la settimana babilonese

Nel 1° capitolo del loro volume ‹I miti ebraici› (1963, ed. Longanesi 1980), Robert Graves e Raphael Patai mettono in rilievo le differenze tra i due racconti della Creazione presenti nella Genesi; nei punti 5 e 6 (alle pp. 26-28) si legge:
La prima versione della creazione (‹Genesi› I 1 - II 3) fu composta a Gerusalemme, poco dopo il ritorno dall’esilio babilonese. In essa Dio viene chiamato «Elohim». La seconda versione (‹Genesi› II 4-22) è pur essa ebraica, probabilmente di origine edomita e precedente all’esilio. In essa Dio fu originariamente detto «Yahweh», ma il trascrittore trasformò il nome in «Yahweh Elohim» (tradotto poi come il signore Iddio identificando il Dio della prima Genesi con quello della seconda Genesi e dando alla versione un’apparenza di conformità. Non eliminò tuttavia certi particolari contraddittorii nell’ordine della creazione, come si può constatare dalla seguente tabella:


Ebrei e cristiani sono sempre rimasti perplessi dinanzi a queste contraddizioni, cercando a mano a mano di spiegarle. Dallo schema dei sette giorni deriva, in primo luogo, la mitica ragione per l’osservanza, da parte dell’uomo, del sabato, dato che Dio, riposando nel settimo giorno, lo santificò e lo benedì. Questa precisazione è esplicitamente fatta in una versione dei dieci comandamenti (‹Esodo› XX 8-11). Alcuni dei primi rabbini commentatori osservano che gli elementi essenziali furono creati durante i primi tre giorni, e abbelliti, completati durante gli altri tre, e che si può trovare una esatta simmetria fra il primo e il quarto giorno, il secondo e il quinto, il terzo e il sesto.


Questo schema, e altri dello stesso tipo, provano l’intenzione dei sacerdoti ebraici di avvalorare Dio con pensieri sistematici, coordinati. Questa loro fatica, tuttavia, non sarebbe stata necessaria se avessero ricordato che l’ordine della creazione era legato all’ordine planetario degli dèi nella settimana babilonese, e quindi ai sette bracci del sacro candelabro o Menorah; tanto Zaccaria nelle sue visioni (IV 10) quanto Giuseppe Flavio (‹Guerre› V 5, 5), trovarono questa identificazione fra la Menorah e i sette pianeti, e dicono che Dio aveva proclamato esclusivamente suoi quei poteri planetari. Poiché Nergal, un dio pastorale, venne considerato terzo nella settimana, mentre Nabu, dio dell’astronomia, venne posto al quarto giorno, i campi ebbero la precedenza sulle stelle, nell’ordine della creazione. L’‹Enuma Elish› ha quindi il seguente ordine: separazione del cielo, della terra e delle acque; creazione dei pianeti e delle stelle; creazione delle erbe e degli alberi; creazione degli animali e dei pesci (ma la quinta e la sesta tavoletta sono frammentarie); creazione dell’uomo da parte di Marduk col sangue di Kingu.


A dire il vero, la considerazione dei 2 autori circa l’ordine di Nergal e Nabu sembra un po’ incongruente: l’‹Enuma Elish› prevede infatti prima stelle e pianeti, e poi le piante, non il contrario; mentre nella “prima genesi” – quella successiva all’esilio babilonese – l’ordine non risulta del tutto chiaro, prevedendo essa prima il “firmamento”, poi “erba e alberi”, e quindi gli “astri” (si veda la prima colonna della prima tabella).

Ci chiediamo tuttavia: ma in che modo è possibile identificare un ordine preciso nei 7 bracci del “sacro candelabro” (la Menorah)?

Sarebbe comunque interessante sapere in quale ordine si succedevano divinità e relativi pianeti nella “settimana babilonese”, se non altro per verificare quanto tale ordine corrisponda a quello in vigore anche al giorno d’oggi, dopo più di duemila anni; in Occidente infatti abbiamo: Sole (domenica, ‹Sunday› in inglese), Luna (lunedì), Marte (martedì), Mercurio (mercoledì), Giove (giovedì), Venere (venerdì), Saturno (sabato, ‹Saturday› in inglese).

Il sommario del volume di Robert Graves e Raphael Patai è consultabile qui.

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martedì 2 luglio 2019

La concezione del tempo nei miti greci e in quelli ebraici

Una interessante considerazione sulla diversa concezione del tempo nei miti greci e in quelli ebraici si trova nella Prefazione al volume di Robert Graves e Raphael Patai, ‹I miti ebraici› (1963, ed. Longanesi 1980); alle pp. 19-20 si legge:
Nei miti greci l’elemento tempo è trascurato come accidentale. Così, secondo alcuni, la regina Elena, che serbò intatta la sua bellezza durante i dieci anni dell’assedio di Troia e durante i dieci anni che seguirono, avrebbe dato al re Teseo una figlia, una generazione prima dell’inizio dell’assedio. Nondimeno le due storie non sono narrate dal medesimo autore, e gli studiosi greci avrebbero potuto pensare a due regine di nome Elena, oppure all’errore di qualche mitografo. Nei miti ebraici, invece, Sarah rimane irresistibilmente bella dopo il novantesimo anno di età, concepisce e partorisce Isacco e oltre a lui allatta i bimbi dei vicini. I patriarchi, gli eroi e i primi re vivono circa un migliaio d’anni. Il gigante Og sopravvive al diluvio di Noè, ad Abramo, ed è alla fine ucciso da Mosè. Il tempo è visto al telescopio. Adamo vede tutte le future generazioni dell’umanità sospese al suo corpo gigantesco; Isacco studia le leggi di Mosè (rivelate dieci generazioni più tardi) nell’Accademia di Sem, che fiorì dieci generazioni prima di lui. In verità, l’eroe dei miti ebraici non è soltanto profondamente influenzato dalle azioni, dalle parole e dai pensieri degli avi e conscio della propria profonda influenza sul destino dei discendenti, ma è ugualmente influenzato dal comportamento dei suoi discendenti, e influenza quello dei suoi antenati. Il re Geroboamo adorò il vitello d’oro a Dan, e quel culto peccaminoso stroncò la forza di Abramo quando costui inseguiva i nemici nella medesima località, mille anni prima.

Si potrebbe con ogni probabilità allargare l’indagine ad altre culture, a partire ad esempio da quella mesopotamica antica e da quella egizia, e includervi poi quella persiana, quella indiana e quella cinese, solo per citarne alcune delle maggiori e più studiate.

Un nesso altrettanto interessante si potrebbe fare con la concezione del tempo che emerge da recenti ricerche in fisica teorica, secondo le quali il tempo non sarebbe una variabile fondamentale come era ad esempio nella formulazione di Newton – ma in fondo anche nella relatività di Einstein – bensì una sorta di grandezza “termodinamica” che avrebbe senso e significato solo a partire da certe scale di grandezza, tipicamente macroscopiche o, se si vuole, “mesoscopiche” (così come avviene per la temperatura); si legga ad esempio ‹L’ordine del tempo› del fisico Carlo Rovelli (Adelphi 2017).

Il sommario del volume di Robert Graves e Raphael Patai è consultabile qui.

Il sommario del volume di Carlo Rovelli è consultabile qui.

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